1. Seppellitelo come un principe
Ma senti, ascolta. Senti, lo dicevo io a Salmon: non ha nessuna importanza quello che è stampato. Capisci? Mi segui? Si può stampare tutto quello che si vuole. Tutto quello che si vuole.
AMEDEO MODIGLIANI
A nessun artista, in nessun secolo, è toccata una sorte simile a quella di Amedeo Modigliani: essere inghiottito dalla propria leggenda.
La leggenda nasce, cresce e s’ingigantisce solitaria e completamente indipendente da quel che resta della «verità». A questa leggenda, al moltiplicarsi di inesattezze o vere e proprie falsità su cui è costruita, in tempi diversi hanno tentato di reagire innanzitutto la figlia, poi la famiglia di Paul Alexandre, amico e primo mecenate dell’artista, e alcuni studiosi che recentemente hanno cercato di fare ordine nel catalogo dell’opera.
Gli scritti che, uno sull’altro, uno dopo l’altro, hanno diffuso luoghi comuni pedissequamente replicati costituiscono un castello bibliografico molto arduo da smantellare. Sul lavoro filologico ha prevalso una vulgata approssimativa che, dopo aver conquistato i manuali di storia dell’arte, s’è imposta come pubblica immagine dell’artista.
La contraffazione biografica ha incoraggiato una mostruosa proliferazione di falsi – talvolta ben provvisti di autentiche autorevolmente firmate – destinati nel corso del tempo a nuocere ulteriormente alla corretta ricostruzione di un’immagine storicamente fondata dell’artista.
La mostra aperta a Parigi nel 2002 e proseguita a Milano nel 2003 intendeva «porre fine», secondo le parole del curatore Marc Restellini, «a una situazione paradossale e assurda».
In assenza di una «una ricerca sistematica» su Modigliani, era necessario ordinare un catalogo che contenesse «saggi e studi volti a dimostrare il ruolo di rilievo che va riconosciuto all’artista nella storia dell’arte del XX secolo».
Difficilmente, dopo gli studi di Christian Parisot, in linea con l’approccio filologico-familiare di Jeanne Modigliani, e dopo le rivelazioni biografiche di Noël Alexandre, questo catalogo poteva realizzare un proposito così immane, opponendosi a un secolo di arbitrii storiografici e di speculazioni mercantili.
Sconfitte le ombre dell’artista «costantemente in balia dell’amore, dell’alcol e della droga», Marc Restellini tentava a sua volta di lanciare un nuovo cliché, quello del «pittore schizofrenico». Un cliché «dimostrato» con assoluta inconsistenza, tanto documentaria quanto clinica. «L’artista presenta indiscutibilmente una tendenza schizoide» sentenzia Restellini.
Quali gli indizi?
Il curatore identifica i sintomi della «schizofrenia» nelle parole che un ragazzo eccitato dalla scoperta dell’arte e dal richiamo della vocazione scrive a un collega e amico: «strane visioni», «frasi incoerenti», «un’introspezione malsana».
Negli anni in cui tanti giovani coetanei si abbeveravano come lui agli scritti di Gabriele D’Annunzio e di Friedrich Nietzsche, nel tempo in cui l’aprirsi di tutte le possibilità, concentrate in una concezione precisa non ancora tradotta in espressione, gli spalancava le vie diverse dei linguaggi – scultura, pittura –, Modigliani confida all’amico Oscar Ghiglia la fiducia di riuscire a «organizzare» e a «sviluppare le impressioni».
È un fermento, un furore fisico e mentale comprensibile e naturale.
Carissimo Ghiglia, […] e questa volta rispondi […] Ma verrà anche il momento di sistemarmi a Firenze probabilmente e di lavorare… ma nel buon senso della parola, vale a dire a dedicarmi con fede (testa e corpo) a organizzare e sviluppare le impressioni, tutti i germi d’idee che ho raccolto in questa pace, come in un giardino mistico. Ma parliamo di te: ci siamo lasciati nel punto più critico del nostro sviluppo intellettuale e artistico e abbiamo camminato per due vie diverse. Vorrei ritrovarti adesso e parlarti.
È il marzo del 1901, Modigliani ha diciassette anni.
Creare oggi, e dal nulla, una nuova, ulteriore leggenda appare una pretesa paradossale.
Amedeo Modigliani è un protagonista nella storia dell’arte tra Ottocento e Novecento. La sua apparizione è destinata a lasciare una traccia unica, soprattutto per l’autonomia del suo lavoro e per la solitudine di un artefice che condusse, nella Parigi delle avanguardie, una ricerca indipendente da tutte le altre.
La sua frequentazione degli artisti, le sue conversazioni, le sue nottate ai caffè non lo fecero mai appartenere a un gruppo.
Non appartiene a un gruppo neanche oggi, perché la storia dell’arte non gli concede l’assestamento di un luogo reale: resta un eccentrico, un solitario, un essere dominato più dal carattere che dallo stile. Un emarginato, in tutti i sensi.
Intanto: è italiano o è francese? Nella Parigi di oggi nessuna traccia resta: non una lapide, non un ricordo sulle sue case. Nulla. Sopravvive come compare indisciplinato delle nottate vivaci degli altri artisti nei dépliant dei locali notturni…
Gli amici vanno e vengono, spariscono, e l’opera di Modigliani ha solo marginali rapporti con le ricerche che i suoi colleghi, da Brancusi a Picasso, da Severini a Matisse, stanno conducendo.
Italiano a Parigi, Modigliani visse e patì sicuramente due contraddizioni dolorose, due «scissioni» più reali di una supposta «schizofrenia», che ha nella parola la radice della divisione, ma di una divisione clinica e patologica. Il suo ideale artistico, nato e cresciuto nell’antica terra italiana e toscana, dovette arrendersi di fronte ai mezzi e ai tempi di una modernità convulsa; la sua natura di scultore dovette fermarsi e adattarsi alla pittura. Questa dovrebbe diventare la vera leggenda di Modigliani. La potenza di un ideale vagheggiato, la nostalgia di un linguaggio abbandonato, una volontà d’arte fisicamente più forte dell’uomo che la deve forgiare. Chiamava la sua scultura «la chose», ricordò Anna Achmatova. Quasi avesse addirittura paura di nominarla; quasi temesse di vederla allontanare ancora di più.
La voce gentile di Ardengo Soffici, che fu pittore, scrittore e galantuomo, apre e chiude la scena di Amedeo Modigliani come fosse il sipario di un teatro.
Nel 1903, trovandomi per la prima volta a Venezia con l’amico pittore Brunelleschi, mi fu da questi presentato il collega Modigliani, il quale risiedeva allora in quella città. Era a quel tempo un giovanetto di belle fattezze e di volto gentile, né alto né basso, snello e vestito con parca eleganza. I suoi modi erano graziosi al pari della persona, tranquilli; e quello che diceva, ispirato a grande intelligenza e serenità.
Passammo insieme molto piacevolmente più ore dei giorni ch’io mi trattenni a Venezia, girellando per la città di cui egli ci faceva gli onori di casa, o in una trattoria popolare dove egli ci conduceva, e dove, mentre mangiavamo certi pesci fritti, dei quali sento ancora il forte odore, il nuovo amico c’intrattenne di certe sue ricerche di tecnica pittorica dietro la traccia dei nostri primitivi; e anche dei suoi studi appassionati sull’arte dei trecentisti senesi, e specie del veneziano Carpaccio, che in quel momento sembrava prediligere. Notai in quelle occasioni ch’egli mangiava assai parcamente, all’italiana, e che così beveva vino annacquato, se non pure acqua addirittura.
Nel periodo francese, continua Soffici, i due artisti non ebbero che rare occasioni d’incontrarsi, perdendosi di vista per lungo tempo.
Or ecco che una sera d’estate in cui io me ne stavo con alcuni amici seduto fuori del caffè della Rotonde nel boulevard Montparnasse, vedo uno che, uscito di tra la folla dei clienti, si precipita al mio tavolino, e con ardente trasporto mi afferra le mani e mi chiama per nome. Riconobbi allora Modigliani: ma, ahimè, quanto mutato da quel che era! Vestito con estremo disordine, la camicia sbottonata e il collo nudo, in zucca, i capelli arruffati e gli occhi stravolti e febbrili, pareva un ossesso. La sua faccia, già così bella e chiara, s’era fatta dura, travagliata, violenta; la sua bocca amorosa si torceva in un ghigno amaro, e le parole che ne uscivano erano sconclusionate e piene di tristezza […] Ciò avveniva nel giugno del 1914, e fu il nostro ultimo incontro. Due mesi dopo scoppiava la guerra; finita la guerra, io restavo in Italia, e Modigliani moriva a Parigi.
Nei soli trentasei anni che il destino gli assegnò, Modigliani si trasformò da giovanetto di belle fattezze e di modi gentili in un ossesso. La narrazione di Soffici è pacata e malinconica, rassegnata, senza giudizio.
Tra il primo ingresso nella storiografia artistica, da giovane attento studioso dell’antica arte italiana, e l’insoddisfatto vizioso che cerca consolazione nel bere è racchiusa la mirabile parentesi di una ricerca solitaria e unica, assoluta, rigorosissima. Entro questa parentesi s’annida il Modigliani pittore maledetto. Modì, maudit. Che facile gioco di parole.
La sua morte fece scalpore. Per quel gesto, che il sentimento comprende ma la ragione allontana, che portò la sua compagna Jeanne Hébuterne a volerlo seguire a ogni costo, gettandosi dal quinto piano della casa dei suoi genitori il giorno successivo la sua morte.
«Sotterratelo come un principe» telegrafò a un amico il fratello Emanuele, deputato socialista. Ma il gesto della donna, incinta di nove mesi e madre di una bambina di un anno e mezzo, arricchì la leggenda fosca dell’artista e la fomentò ancora, per anni, per decenni.
Sembra un paradosso, ma la persona che più di ogni altra si è dedicata alla ricostruzione della figura di Amedeo, come uomo prima che artista, è quella bambina rimasta orfana di padre e di madre, che consacrò a questo padre e a questa madre la sua vita, restituendo alla verità un’immagine risucchiata dalla leggenda.
Jeanne fu allevata dalla famiglia in Italia, in casa Modigliani. Per quarant’anni tentò di staccare, pezzo dopo pezzo, le scorie accumulate sulla biografia del padre.
Un lavoro duro come quello dello scultore, «per forza di levare». La leggenda ha una sua insinuante facilità di sedurre.
I romanzi di Francis Carco e Georges-Michel Michel, le opere teatrali, il cinema, gli aneddoti con cui Modigliani, insieme a Van Gogh e Utrillo, è stato incasellato nella triade dei pittori maledetti hanno dilatato l’immagine dell’artista bohémien che sacrifica all’arte la salute e la ragione, perduto tra alcol e droghe. Non fu mai povero come si crede tuttora; amò le donne come tanti artisti, come tutti gli uomini di tutti i tempi. La leggenda tuttavia fiorì subito, appena dopo la morte.
Tra i primi tentativi di contrastarla, va ricordato quel che la sorella del pittore, Margherita, scrisse alla direzione della rivista Le arti plastiche, il 16 maggio 1925:
Non è assolutamente vero che il povero Amedeo fosse abbandonato a sé; egli ha vissuto a Parigi gli ultimi dieci anni della sua vita e la famiglia è rimasta in Italia, ma questa non l’ha mai abbandonato, l’ha sempre sostenuto materialmente e moralmente. Nostra madre è stata una madre tenera ed eroica per tutti noi, ma nessuna parola può dare un’idea di quello che è stata e di che cosa ha fatto per questo suo ultimo figliuolo di cui, fin dai primi anni, aveva intuito la fragilità della salute e la vivacità dell’ingegno. Ha speso per lui gli ultimi resti della sua piccola fortuna e ha lavorato per lui, anche quando la sua età e la sua salute le rendevano penoso il lavoro, finché il povero Amedeo due o tre anni prima di morire spontaneamente rifiutò il suo aiuto assicurandola di non averne più bisogno.
È una pubblica difesa della famiglia. Che stringe intorno alla figura di Modigliani quest’altra, seconda e più sommessa leggenda, quella della debolezza, della malattia, della reale fragilità fisica.
La sorella volle che questi aspetti assolutamente privati della vita di suo fratello fossero noti a tutti, che diventassero pubblici. E scrisse a una rivista d’arte, letta e riverita, inserendosi con le sue rivelazioni nel solco infido del pettegolezzo comune, che attribuiva anche la indubbia grandezza artistica di Modì alla sua sregolatezza. Lo difendeva sul loro terreno: questo è sorprendente.
Dall’altra parte, suona il rintocco...