Il quaderno ungherese
eBook - ePub

Il quaderno ungherese

  1. 988 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il quaderno ungherese

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Autunno 1913. A Parigi e altrove, da Budapest alla Birmania, passando da Venezia, un'intrepida donna, Gabrielle Demachy, conduce un'indagine pericolosa per scoprire le cause della morte del suo fidanzato, Endre Luckácz, aiutata in questo da uno scottante quaderno ungherese dove si nascondono molti "veleni", segreti del cuore e segreti di Stato. La giovane Gabrielle entra così nel romanzo della sua vita, pronta a spiccare il volo verso un nuovo amore o a finire sull'orlo di un precipizio... Sullo sfondo la Storia, con tutte le passioni, i complotti, i crimini e le avventure di inizio Novecento che iscrive i destini dei personaggi in un mondo cui la modernità sta sconvolgendo in maniera inesorabile ogni punto di riferimento.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il quaderno ungherese di Anne-Marie Garat, Mélaouah Y. in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Narrativa storica. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788865760406

1

Parigi, settembre 1913
Chi di noi ricorda di aver intravisto quel giorno due donne sole in un vialetto del Jardin du Luxembourg, indifferenti alla minaccia di pioggia, immobili fra le statue? Un passante attardato avrebbe potuto essere incuriosito dalle loro strane figure ferme accanto a una panchina, l’una magra, vestita di chiaro, protesa verso l’altra, in abiti scuri, avvolte dal turbinio delle prime foglie secche di quella fine estate, ma tutti fuggivano a ripararsi, lasciando i giardini deserti. Là, sotto gli alberi, uno stormo di piccioni disturbati dalla bufera passò improvvisamente dal teatrino delle marionette al tetto del chiosco della musica. Distratta per un attimo dalla conversazione, la ragazza li guardò gonfiare freddolosamente le penne, poi tornò alla compagna con un sospiro.
«Zia Agota! Ma cosa vi mettete in testa? Espellervi!... Andrebbero più per le spicce, vi assicuro.»
Si teneva il cappello strapazzato dal vento e cercava di essere paziente, ma la anziana donna gemeva, con l’ostinazione dei vecchi.
«Ah! Tu sei giovane, e senza pensieri... Non sai cosa significhi una vita da emigrata... Io non ne parlo mai, ma sappi che da più di trent’anni non c’è stata mattina in cui mi sia svegliata senza temere di essere rimandata laggiù, a Budapest... E ora mi chiedono i documenti di famiglia, la prova della mia identità, certificati... È una lettera piena di minacce.»
«Di minacce?... Sono banali formule burocratiche.»
«Per l’appunto, quelle frasi insignificanti in cui sono maestri, subdole, malevole. L’Austria-Ungheria è un paese nemico. I suoi cittadini sono sospetti, perseguitati ovunque... Quella gente avrà trovato qualche cavillo, un motivo per tormentarmi. Sto male solo a pensarci.»
«Se fosse solo questo...» mormorò la ragazza, irritata da quei lamenti.
Aveva lo sguardo perso in lontananza, fra gli alberi, come se da lì vedesse giungere un fantasma familiare di cui avrebbe voluto risparmiare la vista all’anziana donna. Eppure, fra i cespugli stillanti dell’ultima pioggia, i giardini offrivano solo la prospettiva vuota dei loro vialetti e la grande vasca di acque grigie, spenta come un occhio morto.
«Che altro, secondo te?»
«Forse il motivo di questa convocazione è più grave...»
«Più grave! Che cosa sai, Gabrielle? Che cosa mi hai nascosto?»
«Non vi nascondo niente! Ho soltanto il presentimento... Credo si tratti di Endre.»
«Endre!»
Al grido di terrore seguì il silenzio. Gabrielle si era rianimata, decisa a non tacere più i propri pensieri.
«All’epoca non ci hanno detto tutto, lo sapete bene...»
E mentre l’anziana donna scuoteva il capo sconsolata, lei ragionava, con le labbra pallide, resa loquace dalla pena troppo a lungo trattenuta.
«Non speravamo più, è vero... E tuttavia quando avete ricevuto quella lettera la prima cosa che ho pensato è che avessero ritrovato le sue tracce. Che fosse finalmente giunta a destinazione una missiva smarrita... Magari la notizia del suo ritorno imminente! Ah, zia, perdonatemi! Voi immaginate addirittura la vostra espulsione e io prego con tutto il cuore che si tratti di lui... Se quel maggiore vuole ricevervi di persona, forse significa che finalmente ci danno retta, che c’è stata una vera inchiesta? Forse questa volta sapremo finalmente qualcosa?»
«Non ti sei ancora rassegnata!» esclamò l’anziana donna in preda alla collera. «Ah! Perché mi tormenti, mentre io desidero solo stare tranquilla e dimenticare...»
«Andiamo, adesso. È quasi l’ora dell’appuntamento.»
Ma Agota, piegata su se stessa, si rifiutava ancora di muoversi.
«Quanto tempo sprecato, dopo la sua partenza, prima di ammettere che il suo silenzio era un brutto segno... E quando poi abbiamo cercato di sapere, abbiamo incontrato solo ignoranza, cattiva volontà, bugie. Ci hanno messo alla porta, come se io, sua madre, e tu, sua cugina, non fossimo gli unici due esseri al mondo che pensavano ancora a lui, che speravano ancora nel suo ritorno. Dov’è ora? Nessuno si ricorda più di lui e lui stesso ci ha dimenticate. Se all’epoca tu gli avessi impedito di partire!»
«Mi avete fatto mille volte questo rimprovero ingiusto. A che serve rivangare? Venite, zia Agota, altrimenti saremo in ritardo.»
Ora aveva fretta di porre fine a quella sosta inutile nei giardini, a quella vana discussione, esortando con i gesti la donna a lasciare la panchina umida dove poco prima aveva voluto fermarsi, nonostante il vento e la minaccia di pioggia, con la scusa della stanchezza, in realtà per differire l’incontro. A forza di leggere e rileggere la lapidaria convocazione, la sua angoscia era cresciuta, riportandola al suo costante terrore di una espulsione imminente. Neppure una volta aveva preso in considerazione l’eventualità suggerita da Gabrielle, la cui logica ora la lasciava sbalordita, superando i suoi peggiori timori notturni. Sì, quella testa calda, quel figlio ostinato e ribelle poteva benissimo essere diventato uno di quegli uomini pericolosi, di quegli avventurieri che tradiscono il paese che li ha accolti e nuocciono ai suoi interessi. Al punto da diventare dei nemici, degli apolidi cui gli stati danno la caccia per condannare all’esilio loro e la loro famiglia, sicché una volta di più tutta la sventura sarebbe ricaduta su di lei...
Con lui si era mostrata debole, di una indulgenza senza limiti, ecco dov’era la sua colpa. Da sempre lui si sottraeva alla sua legge: da bambino preferiva il collegio alla famiglia, sceglieva una strada che lo allontanava sempre di più, una scuola di chimica a Bruxelles, poi Anversa, e Londra... Divenuto ingegnere, invece di fermarsi come lei sperava, aveva accettato mille incarichi che gli consentivano di specializzarsi nella sua disciplina, aveva imparato le lingue con una facilità insolente, e intrecciato ovunque rapporti di cui lei ignorava la natura, e su cui non osava porre domande quando lui tornava, senza preavviso, per poi sparire di nuovo... Nel loro appartamento vicino al Jardin des Plantes regnava un’atmosfera sempre all’insegna dell’attesa, delle sue lettere, di notizie, dei suoi brevi ritorni. A Gabrielle riservava allora risate, conciliaboli e facezie, di cui era prodigo, per il piacere di mettersi in mostra, o di provocare, e Agota rideva nel vederla incapricciata di lui, il figlio dimentico e ingrato! Ah come rideva ed era felice di vederli insieme, accanto a lei, convinta che fosse la ragazzina, più ancora del dovere filiale, a riportarle quel figlio nel cui culto la allevava, con tale cecità... Come se lui fosse davvero l’angelo buono! In quale momento Endre aveva cessato di vedere la giovane cugina come una bambina? In quale momento era cominciato il gioco pericoloso? Quando Agota finalmente ammise ciò che saltava agli occhi, Gabrielle aveva sedici anni, il male era fatto: lei provava per Endre un amore assoluto, idealizzato quanto più era cronica l’assenza di lui, quanto più erano assurdi i sogni con cui lui colmava la sua solitudine di ragazzina. Era accaduto sotto il suo tetto, e lei non si era accorta di nulla, non aveva impedito nulla... Di questo, Agota era colpevole, in maniera assoluta. Ah, il giorno in cui aveva dovuto arrendersi all’evidenza! Nel piccolo salotto, Gabrielle suonava un pezzo leggero di Liszt che amava. Dalla camera da letto vicina, dove ricamava uno dei suoi innumerevoli motivi floreali, Agota l’aveva udita d’un tratto interrompersi e proseguire la melodia a cappella, cantando che avrebbe seguito Endre in capo al mondo, che lui sarebbe stato il suo amore per sempre! Per sempre, sempre! Suonando con enfasi un accordo, dopo la confessione trionfante, si era zittita. Nel silenzio la sua voce giovanile continuava a propagarsi «a corona», eppure il mondo non si era fermato. Il sole continuava a entrare, tranquillo, attraverso le imposte, a dorare i mobili e la seta della trapunta. Agota aveva lasciato passare molto tempo, con l’ago per aria, senza muoversi, osando appena respirare, poi aveva ripreso a cucire, con le mani tremanti.
Più tardi, dopo essersi un poco ripresa, aveva percorso il corridoio, gettato un’occhiata prudente. Gabrielle, appoggiata con i gomiti al balcone, contemplava gli alberi del Jardin des Plantes, ancora spogli dall’inverno, la via assolata da cui saliva il frastuono. Canticchiava, nella sua spensierata allegria. Agota, sconvolta dalla scena, era fuggita in cucina. Lì aveva trovato Renée, che spennava un pollo sulle ginocchia. Le piume le svolazzavano intorno al grembiule e cadevano piano ai suoi piedi, come al rallentatore. Renée era stata la balia di Gabrielle; non l’aveva mai lasciata. Condivideva da così tanto tempo la loro vita, le loro sventure e le loro preoccupazioni, che rifugiarsi presso di lei era un sollievo, come trovarsi sotto la protezione della propria madre. Al suo ingresso precipitoso, Renée aveva alzato il naso, posato le mani sulle ali del pollo e, sporgendosi in avanti, aveva bisbigliato: «Ha sentito anche lei quello che ho sentito io?».
«Sentito cosa?» balbettava Agota, più morta che viva.
«Ah be’... Se non ha sentito niente, allora neanch’io.»
«Perché, cosa c’era da sentire?»
«Mi sembra che Gabrielle sia contenta, visto che canta» diceva Renée, riprendendo bruscamente il suo lavoro, la fronte china, la bocca stretta.
«Mio Dio, che ne sarà di noi?» aveva detto Agota con un gemito, lasciandosi cadere su una sedia.
«Ma niente, visto che non abbiamo sentito, né visto niente. Come sempre» aveva osato commentare Renée.
E con un gran gesto di protesta aveva fatto volare per la cucina tutte le piume del pollo.
Agota camminava a braccetto di Gabrielle, stretta contro la ragazza la cui determinazione galvanizzava il suo debole coraggio. Ora taceva, rassegnata a recarsi all’appuntamento. Nonostante la breve schiarita che aveva inondato di luce i giardini, altre nubi nere sopraggiungevano mentre le due donne se ne allontanavano e quando arrivarono all’edificio del ministero della Guerra, in boulevard Saint-Germain, scoppiò il temporale.
Sin dalla sala dei passi perduti furono travolte da una folla di persone indaffarate, civili e militari, che circolavano in ogni direzione, e mentre la ragazza andava a chiedere informazioni, Agota rimase sola, spintonata dai visitatori, intimidita dagli alti soffitti a cassettoni e dagli enormi lampadari di ottone. Alcune voci attirarono la sua attenzione. Una donna di una certa età, circondata da quattro bambini vestiti a lutto con la loro bambinaia, occupava il passaggio. Un giovane soldato dalle guance rosse tentava di respingere tutte quelle persone, mentre la donna, un po’ robusta, avvolta nella sua mantella estiva dalle ampie pieghe, resisteva agitando la testa, facendo oscillare le lunghe piume del cappello nella corrente d’aria, minacciando di andare allo Stato maggiore, anche dal ministro se occorreva, affinché si conoscesse finalmente la situazione di quei bambini, che indicava teatralmente, mentre loro, smarriti, spalancando occhi immensi, si aggrappavano alla piccola bambinaia, piena di vergogna per quella scenata. Il giovane soldato, sopraffatto, aveva chiamato rinforzi, sicché la situazione si fece confusa, ma Agota era presa da quello spettacolo, affascinata. Per avere tanta autorità, per osare un simile scandalo, quella donna doveva avere una posizione, degli appoggi... Che audacia per far valere i propri diritti, per imporsi a tutti quei militari! A ciò si aggiungevano, fuori, il tamburellare dell’acquazzone sull’acciottolato, i borbottii dei tuoni, come se il cielo fosse all’unisono. Quando Gabrielle tornò da lei con un lasciapassare, trovò la zia pallidissima.
«Che cosa avete? Vi sentite male?»
«Gabrielle, non restiamo qui, torniamo a casa!»
«Ma vi stanno aspettando! Vedete, ho il lasciapassare per il vostro appuntamento.»
«Vacci tu, Gabrielle. Io ti aspetto qui.»
«Insomma, zia, siete voi a essere convocata. Questa folla vi ha fatto girare la testa. Andiamo.»
Trascinò energicamente Agota per un braccio, gettando un’occhiata inquieta al suo viso sciupato, con un misto di compassione e di fastidio per quegli indugi. Bruscamente, l’anziana donna si fermò di nuovo.
«Parli tu per me?»
Poiché Gabrielle rimaneva attonita, lei supplicò: «Io non riuscirò mai a trovare le parole. Te, ti ascolteranno. Parla al posto mio per favore».
Gabrielle esitò, ma il povero volto della zia, divenuto infantile a furia di incertezza e sgomento, ebbe ragione della sua impazienza. In questa come in tante altre circostanze, Agota si affidava a lei, al suo coraggio, alla sua risolutezza, ignara di quanto lei stessa temesse quel luogo solenne e ostile. Gabrielle promise.
Infine trovarono, in fondo a un lungo corridoio dove un tappeto attutiva i loro passi, la porta indicata, davanti alla quale stava un usciere cui Gabrielle consegnò il biglietto. Costui sparì, pregandole di aspettare, poi tornò, chiese i documenti necessari, sparì di nuovo. In quel silenzio opprimente, loro tacevano. In lontananza il temporale finiva, i tuoni si allontanavano. Di lì a poco sarebbero state ricevute, ma più il momento si avvicinava, più Gabrielle si sentiva invadere da una sorta di torpore. Un ronzio le riempiva la testa, offuscando ogni pensiero, ogni ragionamento. In una sorta di anestesia, vedeva ai suoi piedi i motivi rossi del tappeto associarsi in geroglifici minacciosi la cui grafia enigmatica cambiava continuamente forma, e mentre lei cercava assurdamente di decifrarli, una morsa gelida le stringeva le tempie. All’improvviso la porta si aprì.
«Il maggiore Feltin può ricevervi» sibilò l’usciere, inchinandosi con deferenza.
Dapprima vide solo gli immensi quadri di accampamenti militari e di battaglie navali dai cieli tenebrosi, pieni di tumulto e di cannoni; i ritratti di generali, di ammiragli in grande uniforme, dall’aspetto bellicoso e funesto. Un giovane attendente le guidò cerimoniosamente verso l’enorme scrivania che troneggiava in fondo alla stanza, dietro la quale un militare, seduto in controluce sotto l’alta finestra, pareva profondamente immerso nelle sue carte. Al loro avvicinarsi, levò la testa, con lo sguardo perso oltre le due donne e rivolto alle terribili cannonate navali o a qualcos’altro di più lontano, poi si alzò con fatica. Insieme a lui si alzò, da una piccola scrivania vicina, un giovane cui i capelli appiattiti e gli occhiali tondi davano più anni di quanti ne avesse, e che rimase come sull’attenti, benché fosse in borghese; molto probabilmente un segretario. Costui le guardava, se non con amicizia, almeno con un’aria più affabile, forse intenerito dalla coppia formata dall’anziana donna e dalla ragazza, e Gabrielle si aggrappò al suo sguardo come a quello di un possibile alleato, mentre il militare girava intorno alla scrivania con passo claudicante. Dalle decorazioni appuntate alla giacca attillata, alla manica, immaginarono che si trattasse del maggiore Feltin, e lui mise tanta solennità nel suo saluto, nel gesto con cui indicava loro le poltrone, nel ritorno tranquillo dietro il tavolo, che tutta la sua persona intimava silenzio e rispetto. Sfogliava i documenti di Agota, pignolo, seguendo le righe con il dito, come se li decifrasse per la prima volta.
«Lei dichiara di essere Madame Agota Kertész, nata a Budapest nel 1860, redditiera, residente al numero 25 di rue Buffon, a Parigi, dal... dall’anno 1880?» domandò alla fine.
Agota annuiva, paralizzata. L’uomo aspettava una risposta, senza fretta, e poiché il silenzio perdurava Gabrielle come promesso intervenne.
«Lo dichiara. Io sono sua nipote, Gabrielle Demachy. Accompagno mia zia.»
L’uomo guardò Gabrielle, annuendo con aria infastidita.
«Bene. L’abbiamo contattata, Madame, per una faccenda estremamente delicata. Ci occorreva la conferma della sua identità. Perdoni queste rigide formalità, ma in tale circostanza sono necessarie.»
Fece un gran sospiro, tamburellò con le dita delicate sul bordo della scrivania.
«Lei è anche la madre di Endre, Peter Luckácz, nato a Parigi, nel 1880, da Sándor Peter Adam, conte Luckácz. Ci ha chiesto informazioni al suo riguardo nel, vediamo... nell’ottobre 1911, è così?»
Agota, in preda al panico, si voltò verso Gabrielle. Costei, benché da subito certa che si sarebbe trattato di Endre, era diventata spaventosamente pallida, e tuttavia manteneva il proprio contegno, dritta nella poltrona, senza battere ciglio.
«Abbiamo la penosa incombenza di annunciarle il suo decesso. Condoglianze.»
Seguì un silenzio immenso. La luce si era fatta vecchia. Le due donne pietrificate erano di fronte al militare, rigido come i ritratti alle pareti. Persino il segretario pareva essersi immobilizzato dietro la sua scrivania, come un manichino di cera. Nell’istante in cui il maggiore si rituffava nei suoi fascicoli, iniziando un discorso con ogni probabilità preparato, Gabrielle si alzò di scatto come una molla, fece due passi per fuggire via, ma ebbe un mancamento e cadde a terra lunga distesa.
La scena che seguì fu piuttosto caotica. Il segretario era accorso e, inginocchiatosi, sollevava la ragazza che già si riprendeva, mentre svariate persone entravano e uscivano dopo che il maggiore ebbe suonato, bisbigliando sollecite, portando un bicchiere d’acqua, e frattanto Agota, inchiodata alla poltrona, seguiva il viavai come se nulla di tutto ciò la riguardasse. Il malore di Gabrielle non durò a lungo. Costei dapprima vide, chino su di lei, il volto di quello sconosciuto che interrogava con ansia il suo, turbato dal suo turbamento, e che la soccorreva con gesti goffi. Subito si ricordò dove fosse, quale notizia avesse appena appreso, e un calore intenso le infiammò le guance. Si tirò su, si divincolò dalle braccia del segretario che dal canto suo indietreggiava, balbettando qualche parola incomprensibile. E rapidamente, dopo che il maggiore ebbe congedato tutte quelle persone con un gesto, la stanza fu di nuovo vuota.
Con espressione contrita si accertò delle condizioni di Gabrielle, le tese personalmente il bicchiere d’acqua che lei bevve per guadagnare tempo, per ritrovare un contegno. Del resto, come accade talora nelle emozioni violente, si sentiva invasa dalla calma insolita con cui la mente si arma contro la sofferenza, per neutralizzarla, almeno per un po’. Riprese il suo posto, il maggiore e il segretario ripresero il loro, e tutto rientrò nell’ordine, come se quella brusca parentesi, il panico di alcuni secondi fossero stati solo un risveglio inutile nel bel mezzo di un incubo. Ma Agota rimaneva inebetita. Ciò cui assisteva pareva sfuggire alla sua comprensione, mentre accanto a lei Gabrielle interrogava già il maggiore, con voce strozzata.
«Questa terribile notizia turba profondamente la zia e me. Ma, come potrà immaginare, ci aspettiamo qualche spiegazione.»
L’uomo si schiarì la gola, ebbe un gesto conciliante.
«Certo, certo. Questa persona non appartiene ad alcun corpo dell’esercito. Voglio dire: il suo decesso non riguarda il nostro ministero. Tuttavia...»
«Tuttavia» interruppe lei «è qui che ci hanno indirizzate, nei nostri ultimi tentativi. Siamo approdate qui. E qui siamo state convocate, due anni dopo aver ricevuto una risposta negativa. Dov’è morto Endre Luckácz? Quando, in che modo?»
«Sappiamo poco. È una faccenda molto complicata, a quanto pare...»
Lanciando una breve occhiata al segretario che se ne stava con la penna per aria, immobile nell’attesa, lo indicò con la mano magra dalle unghie curate.
«In seguito Monsieur Terrier farà il possibile per rispondere a tutti i loro interrogativi.»
«No» disse Gabrielle, trattenendo l’indignazione. «Lo farà lei stesso, e subito.»
Sorpreso da quel tono, l’uomo fece una smorfia, ma la circostanza, la scenata che sembrava paventare, lo indussero a essere conciliante.
«Non posso accontentarla, Mademoiselle. Ma per riguardo alla vostra pena, posso chiarirvi il motivo per cui siamo stati incaricati di questa triste incombenza. Tre mesi fa, una delle nostre navi che faceva scalo a Rangoon...»
«Rangoon?»
«È un porto della Birmania. Il consolato francese ha consegnato al capitano del bastimento una valigia e il certificato di morte accluso, redatto a nome del vostro parente. Il tutto trasmesso dalle autorità inglesi del protettorato, responsabile degli affari del paese. Appena giunto a Le Havre, il capitano ci ha consegnato questo collo, secondo la procedura degli Affari esteri, sotto controllo militare. La durata del viaggio di lungo corso, prolungata da alcune tempeste, spiega il nostro ritardo nell’avvertirle.»
Gabrielle tese la mano. A malincuore, il maggiore fece scivolare verso di lei il documento che aveva afferrato meccanicamente mentre parlava. Scritto in lingua inglese, il foglio dalle piegature ingiallite sembrava essere stato consultato molte volte. Chinandosi sulla scrivania, Gabrielle vide soltanto la data che recava, prima che lui lo sottraesse prontamente alla sua vista.
«Dicembre 1908... È questa la data? Ma è un lasso di tempo inverosimile!»
Un po’ di rossore era comparso sulle guance del militare e il suo sguardo esitava, cercando aiuto presso il segretario, impassibile. Non così inverosimile, protestava... Poteva accadere che cittadini francesi, trasferitisi per affari in paesi stranieri, scomparissero o morissero senza che nessuno si prendesse la briga di darne comunicazione. Missione delicata, imbarazzante, andava detto... Molto spesso le autorità locali erano inadempienti, vuoi per negligenza, vuoi per ignoranza della procedura e delle famiglie da contattare, più o meno disperse... Del resto come essere certi, da così lontano, dell’esatta identità di una persona? Le colonie erano numerose, e alcune rette da amministrazioni inefficienti, troppo male organizzate per occuparsi di tali questioni private. Soprattutto quando si trattava di civili, che non erano di competenza diretta dei servizi francesi, erano addirittura sconosciuti. Insomma, dovevano capire, era desolato per quella penosa circostanza, ma non poteva dire di più. Il suo compito era solamente quello di informarle... Mentre lui parlava, Gabrielle si sentiva in preda a una rabbia fredda. Ignorava tutto di quel paese, la Birmania, dei rapporti internazionali, delle norme e delle consuetudini. E tuttavia quelle frasi evasive erano un insulto al loro dolore. Ogni domanda gliene suggeriva altre, poneva in risalto nuove contraddizioni. Incapace di porre una volta per tutte quella giusta, quella che l’avrebbe colto in fallo, intravedeva però ragioni oscure, la volontà di metterle di nuovo alla porta, di liberarsi di loro con belle parole, per c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. 1
  3. 2
  4. 3
  5. 4
  6. 5
  7. 6
  8. 7
  9. 8
  10. 9
  11. 10
  12. 11
  13. 12
  14. 13
  15. 14
  16. 15
  17. 16
  18. 17
  19. 18
  20. 19
  21. 20
  22. 21
  23. 22
  24. 23
  25. 24
  26. 25
  27. 26
  28. 27
  29. 28
  30. 29
  31. 30
  32. 31
  33. 32
  34. 33
  35. 34
  36. 35
  37. 36
  38. 37
  39. 38
  40. 39
  41. 40
  42. 41
  43. 42
  44. 43
  45. 44
  46. 45
  47. Ringraziamenti