Repertorio dei pazzi della città di Trieste
di Roberto Alajmo
Uno, il più matto di tutti, aprì le porte del manicomio e fece scappare via tutti. Quelli che potevano fare? Certuni nemmeno ci credevano, esitavano. Ma insomma: andarono per le strade, cosa che non si era mai vista.
Le persone perbene facevano finta di non vederli, e fu per questo che la cosa funzionò.
Fu da allora che, per dire «uomo», in dialetto si disse «matto»: «Quel mato el xé mato».
La bora fece il resto, tanto che «impazzito» si dice «imborezà».
Uno era un settantenne che si vedeva spesso in piazza della Borsa. Possedeva un paio di scarpe bianche da tennis molto più grandi della sua misura. Aveva un’andatura sincopata, nel senso che camminava fermandosi ogni tanto a guardare le scarpe per vedere se c’erano ancora, e quanto erano belle, e se erano ancora perfettamente bianche.
Uno era l’Omo Vespa, che aggrediva le donne e le colpiva alle natiche con un punteruolo. Scrisse pure una lettera al Piccolo, sostenendo di essere in missione per conto di Dio, che gli chiedeva di castigare a campione la spudoratezza delle donne.
Dopo un mese, così come era comparso, scomparve.
Uno circolava in zona Sant’Antonio Nuovo. Indossava una divisa blu da poliziotto. Non aveva le mostrine, ma il berretto era quello. Stava immobile, spesso in piedi, qualche volta seduto in maniera precaria.
Solo i primi tempi qualcuno ci cascava e lo prendeva per un agente. Poi la divisa diventò troppo sudicia.
Uno era un anziano che indossava sempre – estate e inverno, sempre – mutandoni e maglia di lana.
La sua passione era quella di pulire le strade, soprattutto nella zona di piazzetta Belvedere. In nome di questa passione si portava dietro un suo baracchino a rotelle che conteneva scopa, secchio e tutto. Lo fece gratis per molti anni, fino a quando gli abitanti del quartiere, vedendo tanta disinteressata abnegazione, trovarono giusto pagarlo per questo servizio. Mandarono quindi una delegazione a dirglielo, che volevano pagarlo, ma lui si offese moltissimo, tanto che da allora in poi cambiò zona e andò a pulire da un’altra parte.
Uno era sempre vestito di rosso, entrava nei negozi e chiedeva se per favore gli regalavano qualcosa di rosso. Fumava in continuazione e non si soffiava mai il naso, anche quando ne aveva estremo bisogno.
Eccezionalmente chiedeva cento lire. Sempre cento lire. Fino a quando qualcuno gli fece notare che cento lire erano poche: «Chiedine mille, almeno».
Da allora in poi, alzò la tariffa.
Una era una signora oltre la sessantina. Indossava abiti che sembravano dell’Ottocento, con la veletta e tutto. Faceva il giro dei caffè e si vedeva la sera all’albergo Continentale. Non pagava mai: poi passava un fantomatico marito a saldare i conti. Aveva educato pure sua figlia allo stesso tipo di abbigliamento, e certe volte la portava con sé.
Una era la figlia. Viveva facendosi regalare fiori vecchi e andando a venderli al cimitero. Oppure faceva avanti e indietro sul vaporetto che va a Muggia e si offriva di leggere le carte ai gitanti. L’equipaggio l’aveva adottata, regalandole anche un giaccone blu d’ordinanza, che da allora entrò a far parte della sua mise.
Uno andava a tutti i funerali, anche a quelli delle persone che non conosceva. Si informava in giro o sul giornale se era morto qualcuno e si presentava vestito di nero, coi fiori. Il momento più interessante era quando bisognava abbracciare i parenti, e i parenti lo abbracciavano veramente, la maggior parte delle volte sulla fiducia.
Ma lo abbracciavano anche quelli che sapevano di non conoscerlo, perché in certi momenti pare brutto sollevare questioni.
Una era una fioraia serba con gli occhi molto azzurri. Bastava guardarla negli occhi e si capivano un sacco di cose.
Uno era Diego de Henriquez, che collezionava cimeli di guerra in senso ampio: dai soldatini di piombo ai cannoni veri, anche certuni che, volendo, potevano sparare. Trovava elmetti e fucili dai rigattieri, che avevano imparato a mettergli da parte anche i singoli bossoli che si trovavano in Carso. Oppure se li andava a cercare lui stesso, sugli antichi campi di battaglia. La sua teoria era che ogni pallottola, anche vecchia, sottratta alla guerra era una pallottola guadagnata alla pace.
Con gli anni la passione diventò smania. A forza di mettere assieme scatole di bossoli, pistole e bombe a mano riempì la casa di famiglia, e poi altre case, e poi un deposito e ancora altri depositi. Cercando e comprando fece fuori tutto il patrimonio di famiglia, e ancora non ne aveva abbastanza. A un certo punto i cimeli erano diventati troppi anche per lui, quindi cercò di regalarli al Comune. Il sindaco però non ne voleva sapere, allora lui si offese e mise assieme un’ultima cifra per andare a Roma e cercare lì una sede per il suo museo. Nelle more, però, anche quei soldi li spese per cercare e comprare altra roba che non sapeva dove mettere.
L’altra sua fissazione era quella di non lasciarsi sorprendere dalla morte e, allo stesso tempo, semplificare la vita dei posteri. Per questo motivo dormiva sempre dentro una bara. E dentro la bara infatti morì, la notte in cui rimase vittima di un incendio.
Una era una gattara che aveva i suoi gatti in un quartiere perbene. Portava due borse di plastica col mangiare sia per loro che per lei, si metteva su una sedia mezza sfasciata, mangiava e li guardava mangiare, quando faceva freddo all’interno di certi ripari di legno che lei stessa aveva costruito per loro. Alla fine puliva con una scopetta e andava via. Ma si vede che non puliva abbastanza bene, perché gli abitanti della zona un giorno fecero sparire quella specie di baraccopoli per gatti che era una vergogna.
Lei e i gatti si ritirarono allora al teatro romano, ma non era per niente la stessa cosa, perché i ripari non glieli fecero costruire.
Uno era Gildo, che si fregava le mani in continuazione. Aveva un grosso naso aquilino e indossava sempre il cappotto. Saliva sugli autobus solo per molestare le donne. Nella migliore delle ipotesi, si limitava a una richiesta ossessiva: «Bea, bea, che voi? Dìme, dìme!».
Uno era un professore convinto di essere seguito dalla Cia e dall’Fbi, perché tutti complottavano contro di lui. Quando si scoprirono certe possibili infiltrazioni della Cia cominciò ad andare in giro con aria molto soddisfatta, dicendo: «Savevo mi!».
Una si aggirava nei pressi di Barcola. Diceva di essere una stilista. In effetti, portava sempre con sé una valigetta dentro la quale teneva alcuni bozzetti di costumi da bagno che non erano per niente male. Raccontava che certi grandi stilisti glieli avevano rubati facendoli passare per loro, senza mai darle un soldo. Se trovava qualcuno che le dava ascolto poteva parlare per ore raccontando sempre questa stessa storia, con minime varianti.
Uno era un tizio alto dai tratti mediorientali, che sosteneva di essere persona facoltosa. In effetti girava accompagnato da una specie di cameriere, un uomo molto basso vestito quasi da paggetto, che lo guardava con estrema deferenza. Erano soliti passeggiare in piazza Goldoni e importunavano le ragazze.
Certuni dicevano che era stato ricco sul serio, ma aveva dissipato tutto al gioco.
Uno era una persona colta, che dopo due lauree decise di prenderne una terza. C’era quasi, ma a un certo punto si perse e non si ritrovò più. Montava spesso sui semafori del centro, specialmente su quelli di via Carducci, e si dimenava urlando frasi che nessuno riusciva a decifrare.
Una era una donna che circolava alla Stazione centrale vestita in modo succinto. Quando era in sì, domandava cortesemente ai passanti: «Scusa, parli italiano?». Non insisteva, chiedeva solamente. Nei giorni brutti invece si metteva a raccontare di se stessa come se qualcuno fosse lì ad ascoltarla. Diceva di essere un uomo, si sentiva un uomo. Se nessuno le dava importanza, si metteva a urlare e inveire contro il primo che incontrava.
Ogni tanto provava a uccidersi, e allora arrivavano gli infermieri. Certe volte la portavano via, certe volte le davano solo qualcosa per farla calmare.
Uno si vedeva nei pressi di San Giovanni. Era sempre arrabbiato e bestemmiava in continuazione. Urlava: «Basta! Basta! Allora? Allora?».
Uno era un nonno che negli ultimi anni scappava di casa in mutande. Il problema era che a casa i parenti non ce la facevano a gestirlo e, siccome non voleva attorno altri vecchi, non potevano metterlo da nessuna parte. Pagarono allora una giovane donna che si occupò di lui fino all’ultimo.
Non per molto, comunque, perché, risultò poi, il nonno aveva tendenze maniaco-suicide.
Uno sembrava molto distinto, ma una volta, quando vide una signora che fumava nella sala d’aspetto della stazione, cominciò a inveire contro di lei: «La fumadora! La fumadora m’insegue!».
Invece era il contrario: lei cominciò a scappare e lui la inseguiva, sempre senza smettere di accusarla di inseguirlo.
Uno era un pescatore che un giorno, al porto, chiacchierava con un amico:
«Non so cossa go in sto pie».
«Secondo mi el se incancrenissi.»
«Ti cossa te farìa?»
«Mi, lo taierìa.»
L’amico scherzava, ma il pescatore non aveva un gran senso dell’umorismo, quindi prese un’accetta e si tagliò il piede.
Uno era un giornalista di Trieste, anche bravo, che se ne andò a vivere agli antipodi d’Italia, a Palermo, città dove nulla poteva piacergli.
Ma se la fece piacere. Dopodiché, come se non bastasse, da Palermo se ne tornò a Trieste.
Due erano Francesca Longo e Matteo Moder, che per un sacco di tempo dormirono assieme senza mai sapere bene se erano fidanzati o no. Funzionava così: ogni sera lei lo invitava a cena, se no lui ci rimaneva un po’ male. Poi dopo cena gli chiedeva: «Vuoi dormire qua?». E lui accettava. Accettava sempre.
La situazione andò avanti per parecchi anni, anni che furono molto felici.
Uno era stato prigioniero di guerra negli Stati Uniti, fin quando convinse gli americani a mandarlo a combattere per la Liberazione.
Passati cinquant’anni si fece due conti e scatenò una battaglia legale per scoprire chi si era fregato i soldi – ormai, secondo lui, miliardi di lire – che gli spettavano.
Una era un’insegnante di inglese che sul Piccolo scriveva e pagava di tasca sua de...