L'occhio dello zar
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L'occhio dello zar

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L'occhio dello zar

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Informazioni sul libro

Pekkala un tempo era conosciuto come l'Occhio di smeraldo: il più famoso detective di tutta la Russia, il braccio destro dello zar, l'uomo a cui l'ultimo dei Romanov aveva affidato la sicurezza della sua famiglia e di tutto il paese. Ora, dopo la Rivoluzione, è solo il prigioniero 4745-P nel campo di lavoro della Siberia, dove è riuscito a sopravvivere per nove anni, e per il resto del mondo è un uomo morto e sepolto. Ma una possibilità di salvezza si presenta quando è Stalin stesso a convocarlo per chiedere il suo aiuto per risolvere un mistero che dura dal 1918.Lo zar e la sua famiglia non sono stati fucilati dai rivoluzionari come afferma la propaganda del partito: qualcuno li ha liberati o eliminati all'insaputa dei bolscevichi.La missione di Pekkala è scoprire che cosa sia successo davvero ai Romanov e trovare il loro tesoro scomparso. Il suo premio è la libertà per sé e la donna che ama. Il prezzo del fallimento è la morte.Ambientato nella Russia brutale e paranoica del periodo stalinista, L'occhio dello zar è il primo romanzo della serie che seguirà le avventure di Pekkala fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale.L'autore: Sam Eastland è lo pseudonimo di uno scrittore inglese, nipote di un poliziotto della Ghost Squad della Londra anni quaranta, che vive negli Stati Uniti.Il lettore: Sulla scia di Bambino 44 e Il rapporto segreto di Tom R. Smith, un giallo sorprendente, ambientato in un periodo storico carico di grandi cambiamenti. Sam Eastland conquista il lettore con un protagonista coraggioso e determinato, consapevole di essere il simbolo di un'era scomparsa.

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788865760574
Siberia, 1929
Si sollevò con un rantolo.
Era solo nella foresta.
Il sogno l’aveva svegliato un’altra volta.
Scostò la vecchia coperta da cavallo. Era umida di rugiada.
Si rimise in piedi sulle gambe anchilosate e scrutò la nebbia del mattino e i raggi di sole che filtravano obliqui tra gli alberi. Riavvolse la coperta e ne legò i capi con una correggia, poi si passò il rotolo sopra la testa, in modo da averlo a tracolla. Infine estrasse di tasca un brandello rinsecchito di carne di cervo affumicata, che masticò adagio, concedendosi qualche pausa per cogliere i rumori dei topi che si azzuffavano sotto il tappeto di foglie secche, degli uccelli che rimbrottavano dai rami sopra la sua testa e del vento che frusciava tra le cime dei pini.
Era alto, con le spalle larghe, il naso dritto e i denti bianchi e sani. Gli occhi erano castani con una sfumatura di verde e iridi dallo strano riflesso argenteo, che gli altri notavano soltanto quando li guardava dritto in faccia. Tra i capelli neri e lunghi correvano alcune strie di grigio prematuro, e la barba cresceva folta sulle guance segnate dal vento.
L’uomo non aveva più un nome. Ormai era noto solo come Detenuto 4745-P nel campo di lavoro di Borodok.
Dopo qualche secondo si avviò per attraversare un boschetto di pini su un lieve pendio che scendeva verso un ruscello. Camminava aiutandosi con un grosso bastone, la cui impugnatura, una radice nodosa, era irta di chiodi da cavallo dalla testa quadrata. L’unica altra cosa che si portava dietro era un secchio pieno della vernice rossa con cui contrassegnava gli alberi che dovevano essere tagliati dagli altri detenuti del campo, deputato al disboscamento della foresta di Krasnagolyana. Invece di usare un pennello, l’uomo immergeva le dita nella vernice scarlatta e poi lasciava la propria impronta sui tronchi. Questi segni erano l’unica sua traccia che quasi tutti gli altri detenuti avrebbero mai visto.
La vita media dei marca-alberi nella foresta di Krasnagolyana era intorno ai sei mesi. Lavorando da soli, senza alcuna possibilità di evadere e lontani da qualsiasi contatto con altri esseri umani, questi detenuti morivano di inedia, assideramento e solitudine. Quelli che si perdevano, o che cadevano e si rompevano una gamba, finivano di solito divorati dai lupi. Girava voce che la marcatura degli alberi fosse l’unico incarico a Borodok peggiore di una condanna a morte.
Arrivato al nono anno della pena di trent’anni per crimini contro lo stato, il Detenuto 4745-P era durato più di ogni altro marca-alberi in tutto il sistema dei Gulag. Poco dopo il suo arrivo a Borodok il direttore del campo l’aveva spedito nella foresta, temendo che gli altri reclusi potessero scoprire la sua vera identità. Tutti quanti davano per scontato che sarebbe morto nel giro di un anno.
Ogni quattro mesi gli lasciavano i rifornimenti all’imbocco di una pista per taglialegna. Cherosene. Scatolette di carne. Chiodi. Per il resto doveva arrangiarsi. Le squadre di taglialegna che venivano ad abbattere gli alberi lo incrociavano di rado, e vedevano solo una creatura che a stento poteva definirsi umana. Con quella crosta di vernice rossa che copriva l’uniforme da detenuto e i capelli lunghi che gli nascondevano il volto, sembrava una bestia scarnificata e lasciata lì a morire, ma che in qualche modo era riuscita a sopravvivere. Giravano le dicerie più folli su di lui, che mangiasse carne umana, che indossasse una corazza fatta con le ossa di coloro che erano scomparsi nella foresta, che portasse in testa un berretto di scalpi intrecciati.
Lo chiamavano l’uomo dalle mani sporche di sangue. Nessuno, a parte il comandante di Borodok, sapeva da dove veniva il detenuto o chi fosse stato prima del suo arrivo.
Le stesse persone che temevano di incrociare i suoi passi non immaginavano che si trattasse di Pekkala, il cui nome avevano un tempo invocato come i loro antenati invocavano gli dèi.
Guadò il torrente, poi uscì dall’acqua gelida che arrivava sino alla cintola e scomparì nella macchia di betulle bianche sull’altra sponda. Lì in mezzo, semisepolta nel terreno, c’era una di quelle capanne note come zemljanka. L’aveva costruita Pekkala con le sue mani, ed era lì che superava gli inverni siberiani, la cui cosa peggiore non era il freddo ma il silenzio, talmente assoluto da avere un proprio suono, un rumore sibilante, come di qualcosa che scorre, quasi fosse quello del pianeta che sfreccia nello spazio.
Nei pressi della capanna, Pekkala si fermò ad annusare l’aria. Qualcosa nel suo istinto palpitò. Rimase immobile, come un airone sull’acqua, i piedi nudi che affondavano nel terreno coperto di muschio.
Il respiro gli si bloccò in gola.
In un angolo della radura c’era un uomo seduto su un ceppo, girato di schiena. Indossava un’uniforme militare verde oliva, con alti stivali neri che gli arrivavano sino alle ginocchia. Non era un soldato normale. Il tessuto della giacca aveva la lucentezza del gabardine, non era la rozza tela da coperte usata dagli uomini della guarnigione locale che ogni tanto si avventuravano di pattuglia sino all’imboccatura del sentiero, ma non si addentravano mai tanto nella foresta.
Non sembrava essersi perso. E non aveva armi, da quel che poteva vedere Pekkala. L’unica cosa che aveva con sé era una valigetta. Era di buona fattura, con lucide cerniere di ottone che sembravano follemente incongrue nella foresta. L’uomo sembrava in attesa di qualcosa.
Nelle ore seguenti, mentre il sole saliva sopra gli alberi e nell’aria aleggiava l’odore della resina calda, Pekkala studiò lo sconosciuto, prese nota dell’angolazione del capo, di come accavallava e scavallava le gambe, di come si schiariva la gola dal polline. A un certo punto l’uomo scattò in piedi e fece il giro della radura, agitando frenetico le mani contro gli sciami di zanzare. Quando si voltò, Pekkala vide le guance rosee di un ragazzo che aveva appena raggiunto la ventina. Era di corporatura esile, con mani delicate e polpacci sottili.
Non poté fare a meno di confrontarle con le proprie mani callose, con la pelle delle nocche screpolata e piena di croste, e con le sue gambe gonfie di muscoli, come serpenti avvolti intorno alle ossa.
Pekkala notò le due stelle rosse cucite sulle maniche della giubba gymnastiorka, portata alla maniera contadina, fuori dai pantaloni e lunga fino a metà coscia. Dalle stelle rosse capì che quell’uomo era arrivato al rango di commissario del popolo, l’ufficiale politico dell’Armata rossa.
Il commissario attese tutto il giorno nella radura, tormentato dagli insetti, finché l’ultimo debole barlume di luce sparì. Al crepuscolo estrasse una pipa dal cannello lungo e la riempì con il tabacco preso da un sacchetto appeso al collo. L’accese con un accendino d’ottone e tirò soddisfatto, tenendo alla larga le zanzare.
Pekkala inspirò adagio. L’odore muschiato del tabacco gli inondò i sensi. Notò come il giovane si toglieva spesso la pipa di bocca per studiarla, e come stringeva la canna tra i denti, producendo un piccolo scatto, simile a quello di una chiave girata nella toppa.
Pekkala si disse che quell’uomo non fumava la pipa da molto. L’aveva preferita alle sigarette perché riteneva che lo facesse sembrare più maturo.
Ogni tanto il commissario lanciava un’occhiata alle stelle rosse cucite sugli avambracci, come se fosse stupito della loro presenza. Da quel gesto Pekkala capì che il giovanotto era stato promosso da poco.
Però più cose imparava su di lui, meno capiva che cosa fosse venuto a fare nella foresta. Non poteva fare a meno di provare una riluttante ammirazione per quell’uomo che non era entrato nella capanna, preferendo restare sul duro sedile di un ceppo d’albero.
Quando scese la notte Pekkala accostò le dita alla bocca e soffiò aria calda nel cavo delle mani. Si appisolò appoggiato a un albero, ma poco dopo si svegliò di soprassalto. Era circondato dalla nebbia che sapeva di terra e foglie morte e girava in tondo come un predatore incuriosito.
Girandosi verso la capanna, vide che il commissario non s’era mosso. Se ne stava seduto a braccia conserte, il mento sul petto. Nella radura echeggiava il suo sommesso russare.
«Entro domattina sarà sparito» pensò Pekkala, poi richiuse gli occhi dopo essersi sollevato il colletto logoro del giaccone.
Ma all’alba rimase stupito nel vedere che il commissario era ancora lì. Era caduto dal ceppo e ora era steso sulla schiena, una gamba ancora sul moncone d’albero, come una statua in posa trionfale crollata dal piedistallo.
Finalmente il commissario sbuffò e si sollevò a sedere, guardandosi intorno come se si fosse dimenticato dov’era.
«Adesso rinsavirà e mi lascerà in pace» si disse Pekkala.
Il commissario si alzò e appoggiò le mani sul fondoschiena con una smorfia. Dalle sue labbra uscì un gemito. Poi si girò di scatto verso il punto in cui era nascosto Pekkala. «Allora, ti decidi a uscire?» chiese.
Quelle parole colpirono Pekkala come una manciata di sabbia negli occhi. A quel punto uscì controvoglia da dietro l’albero, appoggiandosi al bastone con la testa chiodata. «Che vuoi?» Parlava tanto di rado che la sua voce suonava strana persino a lui.
La faccia del commissario era coperta di bolle rosse nei punti in cui le zanzare avevano banchettato. «Devi venire con me» disse il giovanotto.
«Perché?»
«Perché quando sentirai quel che ho da dirti sarai d’accordo anche tu.»
«Commissario, sei troppo ottimista.»
«La gente che mi ha mandato a prenderti…»
«Chi ti ha mandato?»
«Lo saprai abbastanza presto.»
«E questa gente ti ha spiegato chi sono io?»
Il giovane commissario del popolo si strinse nelle spalle. «So solo che ti chiami Pekkala e che altrove hanno bisogno delle tue doti, quali che siano.» Si guardò intorno nella lugubre radura. «Pensavo che avresti colto al volo l’opportunità di lasciare questo posto dimenticato da Dio.»
«Siete voi che avete dimenticato Dio.»
Il commissario sorrise. «Me l’avevano detto che sei un tipo difficile.»
«A quanto pare mi conoscono, chiunque siano» ribatté Pekkala.
«E mi hanno anche detto che se fossi venuto armato probabilmente mi avresti ammazzato ancor prima che riuscissi a metterti gli occhi addosso» aggiunse il commissario. Poi sollevò le mani. «Come vedi, ho accettato il loro consiglio.»
Pekkala uscì nella radura. Così coperto di stracci rappezzati, incombeva come un gigante preistorico sul lindo commissario. Per la prima volta da anni fu consapevole dell’odore del proprio corpo non lavato. «Come ti chiami?» chiese.
«Kirov.» Il giovanotto drizzò la schiena. «Tenente Kirov.»
«Da quant’è che sei tenente?»
«Un mese e due giorni.» Poi il giovane aggiunse a voce più bassa: «Compreso oggi».
«E quanti anni hai?»
«Quasi venti.»
«Devi aver rotto parecchio le scatole a qualcuno, tenente Kirov, se ti hanno affidato l’incarico di venire a scovarmi.»
Il commissario si grattò le punture delle zanzare. «E immagino che anche tu abbia rotto parecchio se sei finito in Siberia.»
«D’accordo, tenente Kirov. Hai consegnato il tuo messaggio. Adesso puoi tornare nel posto da cui sei venuto e lasciarmi in pace.»
«Mi hanno detto di darti questa.» Kirov sollevò la valigetta posata accanto al ceppo.
«Che c’è lì dentro?»
«Non ne ho la minima idea.»
Pekkala afferrò la maniglia coperta di pelle. Era più pesante del previsto. Con la valigetta in mano, sembrava un incrocio tra uno spaventapasseri e un uomo d’affari in attesa del treno.
Il giovane commissario si girò per andarsene. «Hai fino al tramonto di domani. Ci sarà un’automobile ad aspettarti all’inizio del sentiero.»
Pekkala guardò Kirov che tornava per la strada da cui era arrivato. Gli schiocchi dei rametti spezzati segnalarono a lungo il suo passaggio nella foresta. Alla fine anche quel rumore si spense e Pekkala si trovò di nuovo solo.
Entrò nella capanna e si sedette sui sacchi imbottiti di aghi di pino che gli facevano da letto, con la valigetta sulle ginocchia. Il suo contenuto sbatteva pesante all’interno. Fece scattare le serrature d’ottone con la punta dei pollici.
Quando sollevò il coperchio, gli salì alle narici un odore di muffa.
All’interno trovò un pesante cinturone di cuoio avvolto intorno a una fondina marrone scuro che conteneva una rivoltella. Dopo aver srotolato il cinturone, estrasse la pistola: un revolver Webley di fabbricazione inglese. Era la normale dotazione militare, a parte un dettaglio: il calcio era di ottone e non di legno.
Pekkala sfilò la pistola e l’impugnò a braccio teso, prendendo la mira. Il metallo bluastro brillò nella luce fioca della capanna.
In un angolo della valigia c’era una scatola di cartone con le munizioni, con scritte in inglese. Lacerò la confezione sbrindellata e caricò la Webley, aprendo la pistola in modo che la canna s’inclinasse in avanti su un cardine per portare allo scoperto le sei camere. I proiettili erano vecchi quanto la pistola, e Pekkala li pulì prima di inserirli nel tamburo.
Trovò anche un libro spiegazzato. Sul dorso rovinato si leggeva un’unica parola: Kalevala.
Mentre metteva da parte questi oggetti, scorse un’altra cosa all’interno della valigetta. Era un sacchettino di cotone chiuso da una cordicella di cuoio. La sciolse e svuotò il sacche...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prologo
  3. Siberia, 1929
  4. Nota storica
  5. Bibliografia scelta
  6. Ringraziamenti