1.
Richard Fénigan, cacciatore e pescatore appassionato di Seine-et-Oise che abitava tutto l’anno in campagna insieme alla madre e alla giovane sposa, stava ritirando le sue nasse in quel tratto della Senna costellato di isolotti verdi, tra la chiusa di Évry e quella d’Athis, dove aveva ottenuto la licenza di pesca. In quel mattino incandescente di luglio, sotto un sole che sembrava di metallo fuso e faceva luccicare il cielo come fosse stato d’argento, il fiume evaporava, immobile e silenzioso, senza che si udisse nemmeno l’abituale cinguettio che la nutrita schiera di uccelli – quali zigoli, fanelli e rondini – lanciava dai cespugli, mentre quel vapore caldo rendeva più intenso l’odore acre delle piante acquatiche e quello indefinibile delle cantaridi che si aggrappavano ai frassini formando delle chiazze smeraldine.
Anche Fénigan, energico giovanotto di trentacinque anni dall’aspetto florido e con una folta barba scura, avvertiva la spossatezza dovuta a quell’atmosfera, e quando raggiunse la piccola insenatura dove, davanti alle barche attraccate, le sue reti da pesca apparivano come un fumo bianco davanti al verde tenue della costa, restò per alcuni istanti esausto sul fondo della barca, mezzo assopito nel suo vestito di tela verde macchiato e annerito dalla fanghiglia.
I rintocchi di una campana risuonarono dalla collina che si trovava su quel lato della Senna.
“Hai sentito, Chuchin?”
Chuchin, il guardiano di quella riserva di pesca, mezzo nascosto dentro il pozzetto di prua a contare i lucci, le tinche e le anguille pescate, sollevò il suo viso abbronzato, più grinzoso di quanto non fosse il fiume mosso da un vento che soffiava da est.
“Proviene di certo dal castello.”
“Ma non può essere il segnale del pranzo, sono appena le undici.”
“Una visita... forse qualcuno da Grosbourg. Ho appena visto la loro carrozza che tornava attraversando il ponte.”
Il suono della campana ricominciò di nuovo in lontananza, alto e penetrante nel torpore mortale della campagna.
“Chuchin, vecchio mio, pensa tu a sistemare tutto, andrò io fin lassù a dare un’occhiata.”
Con quel passo placido, retaggio della sua vita in campagna, Richard seguì l’alzaia fino al viale dei pioppi che conduceva, dopo un ripido pendio, alla strada per Corbeil, lungo la quale si incontrano il piccolo villaggio di Uzelles e la tenuta che porta lo stesso nome. Camminando rifletteva ad alta voce, sconcertato da quell’allarmante scampanio, ma senza alcun cattivo presentimento. Una visita da Grosbourg... la cosa era davvero improbabile. Chi sarebbe potuto arrivare? Il Generale si stava facendo i bagni nel Tirolo in compagnia della Duchessa; il figlio era nel collegio a Stanislas a prepararsi per gli esami di ammissione all’accademia militare di Saint-Cyr, ormai vicini. Più probabilmente poteva trattarsi di qualche questione sorta negli alloggi del personale di servizio o qualcosa riguardante gli animali d’allevamento che necessitava la presenza del padrone. O anche un battibecco scoppiato tra sua moglie e la suocera... ma no, quei conflitti, quell’orribile guerra domestica che aveva guastato i primi anni della loro vita matrimoniale, erano acqua passata. Di cosa avrebbe potuto trattarsi, dunque?
“Buongiorno, signor Richard.” Questa voce ossequiosa e belante, che proveniva dall’altro lato della strada, lo risvegliò dai suoi pensieri. C’erano quattro o cinque persone appoggiate a un grande pioppo – Robin il cantiniere; Roger il postino, vicino al suo velocipede che reggeva per il manubrio; una lavandaia, seduta sui manici della sua pesante carriola, stracolma di biancheria gocciolante – e tutte quante stavano ascoltando, con tanto d’occhi e bocca spalancati, la storia che monsieur Alexandre stava raccontando loro. Costui era l’ex cameriere di un albergo di Grosbourg: alto, ben rasato, impeccabilmente agghindato in un vestito di flanella bianco e con una canna da pesca di bambù nero bordata d’argento. Che cos’era quel chiacchiericcio bruscamente interrotto dall’arrivo di Fénigan? Perché quell’ombra di ironia nel saluto di quel leccapiedi in pensione, di solito così servilmente rispettoso? Più tardi, i più insignificanti particolari di quella mattinata verranno ripercorsi dalla sua mente con spietata precisione e troverà una spiegazione per tutti quegli avvenimenti che per il momento sembrano senza importanza e attirano a malapena la sua attenzione.
Davanti alla chiesa, bianca come una tomba nuova, ai bordi della strada polverosa qualcun altro attira la sua attenzione: si tratta del vecchio Mérivet, cappello a cilindro in testa e addosso una lunga casacca grigia, con un lungo pennello in una mano e un barattolo pieno di colore nero nell’altra che appare intento a ritoccare, come diceva lui, l’iscrizione sulla facciata frontale della chiesa.
“Guarda qui, compaesano... adesso può essere letta a una lega di distanza.”
Si tirava in disparte perché lui potesse ammirare le linee che aveva ridipinto sulla superficie irregolare della parete, a destra della porta principale:
Napoléon Mérivet
cavaliere dell’ordine di San Gregorio Magno
ha costruito questa chiesa
in memoria della sua sposa Iréne
e
ne ha fatto dono al Villaggio di Uzelles
Questa epigrafe nascondeva un dramma familiare di cui nessuno in paese conosceva chiaramente i contorni. L’unica cosa risaputa era che il signor Mérivet, alla morte della moglie che amava pazzamente, aveva costruito la chiesa dirimpetto alla sua proprietà, e se n’era preso cura personalmente, facendo fare al suo cuoco lo scaccino e al cameriere personale il sagrestano, e dimostrandosi molto orogoglioso di vederla piena di gente alla domenica, quando il vicario di Draveil, nella cui giurisdizione Uzelles rientrava, si presentava alle nove in punto per recitare una breve messa. Era proprio in relazione alla funzione domenicale che aveva richiamato l’attenzione di Fénigan al suo passaggio, per lamentarsi della gente del castello. Perché mai le donne si recavano a udire messa a Draveil, o all’orfanotrofio di Soisy, quando avrebbero potuto farlo proprio a due passi dalle loro case?
“Fanno male, compaesano, fanno davvero male,” insisteva il vecchio intingendo il suo pennello nel colore, “nessuna di quelle altre chiese vale la mia. La mia chiesa porta fortuna. Se sapessi sotto quale alta protezione l’ho posta, se tu avessi conosciuto l’animo della mia Iréne! La Repubblica sui suoi monumenti scrive: ‘Libertà, Uguaglianza, Fratellanza’, invece io sul frontone di questa chiesa potrei a buon diritto scrivere: ‘Pietà, Carità, Perdono’. Ci chiamano la Piccola Parrocchia, quando invece un nome più adatto sarebbe la Buona Parrocchia. Assicurerebbe la felicità alle famiglie di tutte le persone sposate, se solo venissero qui a pregare.”
Richard giustificò se stesso e le signore del castello: proprio la vicinanza della chiesa era il maggior ostacolo al loro buon volere. Esse uscivano tanto di rado; quella messa della domenica a Draveil o all’orfanotrofio offriva loro l’occasione di prendere una boccata d’aria e di tenere in allenamento i cavalli, che erano davvero troppo grassi.
Ma ne avrebbe parlato a sua madre e presto le signore Fénigan avrebbero preso posto alla Buona...