La musica di mio padre
di Ned Balbo
Primo aprile del 1961, pesce d’aprile. Le note dissonanti di due fisarmoniche riempivano la cucina dei miei genitori a Long Island. Guardando attraverso il mirino di una vecchia Brownie a soffietto, con il flash accecante sul punto di scattare, mia madre Betty catturava quell’istante: suo marito Carmine, in comode pantofole e tuta grigia da idraulico fresca di bucato, con la fisarmonica appoggiata sulle ginocchia che oscillava al ritmo della musica, mentre il loro unico figlio suonava insieme a lui. Poco meno di due anni, in camicia rossa e salopette, stringevo tra le mani una fisarmonica giocattolo blu, come fosse un coniglio tenuto per le orecchie. Posso immaginarmi il suono che faceva quello strumento che si apriva e chiudeva producendo un lamento insopportabile, incurante di ciò che mio padre stava suonando. Con l’aiuto delle cinghie di pelle che tenevano saldo lo strumento assecondando il movimento delle due cornici gemelle di legno intarsiato, le dita di mio padre saettavano sui tasti.
Stando alla data, scritta con inchiostro dorato su carta nera nella bella calligrafia di Betty, doveva trattarsi di un sabato, ma Carmine di solito lavorava sempre di sabato e i suoi vestiti nella foto appaiono accuratamente stirati. Quarantadue anni e i capelli già ingrigiti, portava quegli stessi baffi alla Clark Gable che nel corso della sua vita si modificarono appena col trascorrere del tempo. Forse si trattava del pomeriggio di una domenica, unico suo giorno di riposo. Indossava spesso la sua tuta quando se ne restava in casa a rilassarsi e all’inizio della primavera non c’era da falciare il prato.
Sapevo esattamente cosa stava suonando. In tutta la sua vita il repertorio di mio padre è cambiato ben poco. Un repertorio costituito essenzialmente da una manciata di canzoni che aveva imparato negli anni dell’adolescenza, o intorno ai vent’anni, anche se nel 1970 aveva aggiunto al suo elenco due brani più recenti: Raindrops Keep Falling on My Head, di Hal David e Burt Bacharach – colonna sonora di Butch Cassidy, che quell’anno era onnipresente – e uno standard di Cross e Cory, I Left My Heart in San Francisco. In quella città papà aveva fatto un giro nel 1944, all’epoca in cui era un G.I., un soldato semplice assegnato alle truppe di occupazione statunitensi nelle Filippine. La versione di Tony Bennett aveva venduto oltre tre milioni di copie, installandosi così nella coscienza collettiva nazionale, ma a otto anni dalla sua prima uscita, nel ’62, Carmine non aveva ancora provato a darne una sua personale interpretazione. Ora era giunto il momento. Alla luce di una lampada che aveva come base una pantera di ceramica, egli faceva progressi, nonostante le note sbagliate, borbottando di tanto in tanto Mannagia!. Si arrese soltanto a notte fonda, quando ebbe la meglio la strofa principale e se ne andò a letto, riservando le complicazioni del ponte1 agli esercizi dell’indomani.
Era il 1970 quando Anthony Benedetto, figlio di immigrati italiani, divenne il cantante preferito di mio padre spodestando Frank Sinatra. Un’ascesa cui contribuì in modo decisivo la natura puntigliosa di Carmine, infastidito dall’idea di dover rendere omaggio a quella superstar che i più dicevano essere il migliore. «Bah! Un tempo era bravo» – brontolava mio padre, ormai avanti negli anni, come dimentico della vastità del repertorio discografico che Sinatra lasciava in eredità – «ma non capisce quando è ora di ritirarsi! Adesso è terrificante». Eppure Carmine aveva le lacrime agli occhi quando Sinatra morì, nel ’98. Quel ragazzo smilzo che cantava lo swing alla radio con la band di Tommy Dorsey era diventato l’icona di un’intera generazione e adesso stava per passare alla storia. Fortunatamente Tony Bennett c’era ancora e godeva di una nuova ondata di successo che mio padre giudicò con maggiore clemenza quando lo informai che l’artefice di quel trionfo altri non era che il figlio stesso di Bennett. Quella era una cosa che papà apprezzava: gli piacevano le storie dei figli che si danno da fare per aiutare i padri. Per il resto, trovava da ridire su tutti gli artisti che riscuotevano troppo successo soffocando ogni lode eccessiva, come se fosse un punto d’onore essere l’unica persona difficile da entusiasmare
A parte queste eccezioni, le canzoni preferite di Carmine risalivano a una generazione precedente, come la tradizione legata all’organetto diatonico, lo strumento che possedeva: una reminiscenza dell’Italia sopravvissuta all’interno dell’enclave dei quartieri di immigrati, lì dove storia e tradizione andavano a braccetto. Le foto di Greenpoint, della Brooklyn degli anni Venti – gli anni in cui mio padre frequentava la Scuola Pubblica 23 – mostrano Ford Modello T, fruttivendoli con i loro carretti – 6 libbre di patate per un quarto di dollaro – tram che andavano su strade di pavé, bidoni dei rifiuti, ragazzi coi pantaloni alla zuava, negozi di sigari, calzolai, le rive del fiume, l’immagine sfocata di una ragazza sui pattini a rotelle. Le donne spingevano carrozzine di vimini con dentro bambini in fasce, mentre uomini in pastrano e cappello di feltro fissavano torvi l’obiettivo. Il Vecchio Mondo non accennava a morire. Caseggiato dopo caseggiato, gli italiani si erano divisi – Siciliano da Napolitano, Abruzzesi da Calabrese – a seconda della città o della regione da cui erano fuggiti i suoi abitanti: luoghi di aspirazioni frustrate e di stretto conformismo a cui adesso guardavano con tenerezza e rimpianto.
Era un quartiere in pieno mutamento. Un quartiere urbano con le strade principali animate dalla folla, ma anche un luogo dove continuavano a esserci lotti di terreno incolto, campi di patate e strade sterrate; un quartiere in costruzione dove, a quel tempo, gli uomini potevano sempre contare su un’occupazione sicura: quella nei lavori di collegamento dei nuovi alloggi al sistema fognario cittadino. E così a Tenth Avenue e nella 60th Street, nel novembre 1922, quattordici operai che lavoravano al collettore – di cui sette con facce italiane e tanto di baffi – stavano in piedi sotto un arco portante, brandendo pale e picconi, orgogliosi della loro abilità di muratori e della loro fatica: punto focale della foto è l’irlandese che saluta al centro. Cugini di Carmine, compagni di mio padre – uomini che lavoravano alla luce e al buio – uomini che continuano a esistere in quelle foto diventate ormai documento di un’epoca scomparsa.
E dappertutto c’era musica. Gli Stati Uniti avevano sospeso le trasmissioni radio civili nel corso della Grande Guerra, ma subito dopo il mondo degli affari prese il sopravvento. Finanziate dalla Westinghouse, nacquero quattro stazioni radio, tutte installate in grandi città e il boom che ne seguì portò alla creazione di altre 500 emittenti. Punto di svolta fu il 1922, quando la WEAF di New York trasmise le prime pubblicità radiofoniche, e il jazz dell’epoca pre-swing incontrò il suo primo pubblico di massa.
Alla fine di quel decennio, Rudy Vallee, il primo cantante melodico del ventesimo secolo, precursore di Sinatra, cantava in italiano – oltre che in altre lingue – nel suo altoparlante di marca, fatto di materiali che erano l’espressione della contraddittoria creatività di una nazione in mutamento. Anche quelle canzoni costituirono una fonte di quella che sarebbe diventata in seguito la musica di mio padre, quei grandi successi popolari che lui ascoltava alla radio, da bambino, fatti di voci romantiche e di ottoni vibranti che incappavano di continuo nelle scariche statiche. Ma alcuni di quei successi si rifacevano direttamente a tradizioni ancora più antiche, provenivano da fonti ammodernate o camuffate, nate nella patria che Carmine conosceva soltanto per sentito dire.
Quando gli altri bambini mi chiedevano: «Che cosa sei?» – la classica domanda che all’epoca ci si faceva l’un l’altro almeno una volta – io rispondevo: «Sono mezzo italiano e mezzo polacco». Mia madre era nata Elisabeth Gromatsky, e non mise mai in discussione la legittimità delle rivalità etniche del suo tempo. Per lei, tutto ciò che era polacco era il meglio. Era quella, senza dubbio, la sostanza delle conversazioni che aveva con sua madre, Stella, in quella loro lingua comune. Non avrei mai imparato il polacco, sosteneva Betty, perché avevo un padre italiano e i bambini potevano apprendere una lingua solo se in casa la parlavano entrambi i genitori. Per lei, era colpa di Carmine se io ero cresciuto monolingue, sebbene avessi acquisito un discreto vocabolario di parolacce da entrambe le lingue originarie dei m...