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Prima edizione elettronica Settembre 2020
Prima edizione stampa Luglio 2020
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www.iacobellieditore.it
isbn elettronico 978-88-6252-669-2
isbn stampa 978-88-6252-527-5
LE CIOCIARE
DI CAPIZZI
a cura di
Marinella Fiume
iacobellieditore
La memoria è uno strumento molto strano,
uno strumento che può restituire, come il mare,
dei brandelli, dei rottami, magari a distanza di anni.
(Primo Levi)
Bambina, foto di Benito di Leonforte.
Le “marocchinate” a Capizzi: le ragioni di una ricerca inedita
di Marinella Fiume
Il termine “marocchinate” è un neologismo ormai entrato nel linguaggio comune con il quale si intendono gli efferati e diffusi episodi di violenza e principalmente gli stupri sulle popolazioni civili commessi dalle truppe di goumiers – dalla traslitterazione fonetica francese del termine arabo qum, banda, squadrone – nordafricani dalla Sicilia fino alla Toscana passando per il Napoletano, nel corso della Seconda guerra mondiale.
Ma, mentre nell’Italia centro-meridionale questo termine è un participio passato passivo con il quale vengono indicate le donne vittime degli stupri e delle violenze di guerra perpetrati dai goumiers, in Sicilia con esso si indicano gli stupri e le violenze compiuti dagli stessi in alcuni comuni nel corso della loro avanzata in occasione dell’operazione Husky, nome in codice dello sbarco attuato dagli Alleati anglo-americani sulle coste siciliane, il 9 luglio 1943, durante la Seconda guerra mondiale.
Ma il termine non intende assumere decisamente una valenza razzista col fare riferimento alla responsabilità diretta ed esclusiva degli accadimenti da parte di una sola etnia, quanto piuttosto a un complesso intreccio di fatti culturali, storici e di esplicite responsabilità occidentali. Sarebbe infatti facile e sbagliato, come è stato pur fatto, ricondurre a pregiudizi etnici e razziali le cause di questi fenomeni spiegandoli con istinti primordiali di selvaggi vissuti nelle zone più povere e montuose del Maghreb o con motivazioni religiose in chiave anti-islamica. E, come sarebbe sbagliata una teoria basata sul biologismo che spieghi quelle violenze con la bestialità dei violentatori, allo stesso modo lo sarebbe una teoria basata sul culturalismo che le riconduca a ragioni etnico-religiose legate alla tradizione berbera e a una guerra vissuta come guerra contro gli infedeli. Perché, mentre è innegabile la responsabilità e connivenza dei vertici militari che avrebbero dato a queste truppe in modo più o meno esplicito carta bianca per vincere una guerra non loro con la promessa francese dell’indipendenza nazionale, appare più plausibile, pur senza che questo offra giustificazione alcuna alle violenze, la teoria che individua le ragioni di quei crimini efferati nel «drammatico conflitto tra cultura berbera, guerra e cultura locale». I goumiers infatti furono reclutati dagli ufficiali dell’esercito regolare in funzione coloniale per reprimere le resistenze antifrancesi ancora nel corso degli anni Trenta e i loro metodi furono poi esportati con loro. Queste truppe berbere, per ragioni legate storicamente alla loro utilizzazione specie da parte dei francesi nelle guerre coloniali, possedevano una cultura della guerra simile piuttosto a quella che si definisce guerriglia, col suo seguito di saccheggi, razzie di beni e donne nemiche, stupri, i quali ultimi per loro significavano «una domesticazione esemplare del territorio e delle sue popolazioni» con il corollario dell’«accesso sessuale comune a una stessa donna; una pratica di derivazione poliandrica che ‒ come insegna la letteratura antropologica ‒ assolve contestualmente alla conferma della solidarietà del gruppo combattente (goum) e della sua missione di conquista, esorcizzando al contempo rivalità e rancori personali, sciolti nella condivisione sessuale». Il goum, infatti, costituisce «un sodalizio fraterno che raccoglie i coetanei maschi dei villaggi berberi ed è inteso a formare un nucleo coeso che rende immortali i suoi membri grazie alla loro unità che va persino oltre la morte, oltre l’egoismo e la gelosia sessuale».
Come si vede, si tratta di responsabilità composite, ma, detto ciò, non si deve dimenticare l’assunto generale che in ogni epoca e in tante parti del mondo, il grido più fortunato in guerra è stato: «Con la vittoria viene il bottino!».
Il Corpo di spedizione francese in Italia (Corps expéditionnaire français en Italie, Cef) era composto da circa 110.000 unità per lo più marocchini, algerini, tunisini e senegalesi, ma sulla stessa composizione etnica, la confusione delle popolazioni interessate era tale che la madre di Rosetta, interpretata da una magistrale Sofia Loren nel film La ciociara di Vittorio De Sica che le valse l’Oscar, chiama i violentatori “turchi”, secondo un antico retaggio delle storiche scorribande ad opera dei cosiddetti Saraceni, mentre in Sicilia in molti racconti delle vittime sono definiti nìuri (neri) tutti, anche i marocchini.
Eppure, sarebbe errato anche relegare questi episodi a semplici conseguenze di guerra o alla fatalità della storia. La guerra, in generale, è sempre una brutta bestia che toglie l’umanità perché, pur di sopravvivere, si è disposti a tutto. «Uno dei peggiori effetti delle guerre» scrive ne La Ciociara Alberto Moravia «è di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà». E lo stupro a danno delle popolazioni civili durante i conflitti armati è strumento di guerra, seppur spesso nascosto e ignorato come crimine di guerra. In quanto le donne sono considerate parte del bottino di guerra, lo stupro viene minimizzato come naturale conseguenza del fatto che i soldati al fronte, lontani dalle loro famiglie, meritino un compenso alle loro fatiche e ai pericoli che corrono, un sollievo allo stress, e che, infine, è un modo naturale di dimostrare il loro coraggio e la loro virilità. Il fenomeno diffuso dei “bordelli di guerra” al seguito degli eserciti ne è una dimostrazione.
Insomma, in ultima analisi, il fenomeno è ancora una volta frutto dello stereotipo patriarcale secondo cui la violenza appartiene al maschio e subirla è destino delle donne, sempre inevitabili vittime. Del resto, la guerra la fanno gli uomini e alle donne non resta che subirla.
Svariati scenari di guerra nel corso di tutto il Novecento hanno visto attuata questa pratica, solo per accennare a qualcuno, dagli stupri perpetrati dai tedeschi durante l’invasione del Belgio nell’agosto del 1917; a quelli dei soldati neri francesi nella Renania occupata degli anni Venti; a quelli perpetrati dagli uomini del colonnello Rodolfo Graziani durante la conquista della Libia ad opera del regime fascista; al massacro o stupro di Nanchino perpetrato dall’esercito giapponese nel 1937; agli stupri delle truppe sovietiche su polacche e tedesche; a quelli compiuti dai francesi durante la guerra d’Algeria negli anni Cinquanta e denunciati da Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir; fino agli stupri di massa nella ex-Iugoslavia tra il 1991 e il 1999 e quelli perpetrati dall’esercito dell’Isis in Siria e in Iraq. Né la piaga si è arrestata se pensiamo soltanto a quanto avviene ai nostri giorni nei lager libici a danno dei profughi che fuggono su insicuri e affollati barconi dai paesi in guerra attraverso il Mediterraneo.
Un crimine contro l’umanità per la dimensione collettiva e per la diffusione e sistematicità verso le popolazioni civili.
I racconti che abbiamo ascoltato dai nostri informatori con...