In copertina:
Baci da Napoli (2017),
stampa su carta fine art di fotografia digitale, cm. 50 x 70 in 5 esemplari
© Riccarda Rodinò di Miglione (www.riccarda.biz).
Dal catalogo della mostra “Vesuvio quotidiano. Vesuvio universale”
a cura di Anna Imponente e Rita Pastorelli
(Napoli, Certosa e Museo di San Martino 2019)
© 2020 iacobellieditore
Prima edizione elettronica e stampa: Settembre 2020
Tutti i diritti riservati
www.iacobellieditore.it
ISBN stampa 978-88-6252-627-2
ISBN stampa 978-88-6252-680-7
Il libro di tutti
e di nessuno
Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del xx secolo
di
Viviana Scarinci
iacobellieditore
Eh già: quando si dice sapere! Ma a chi verrebbe mai permesso di chiamare pane il pane? Quei pochi che ne hanno una qualche esperienza; che sono stati abbastanza ingenui per non trattenere la piena del loro cuore, ed hanno rivelato alla folla i loro modo di vedere e di sentire, sono sempre finiti, da poi che mondo è mondo, o sulla croce o sul rogo.
O mia Cara! Credimi: quel che si chiama intelligenza spesso è piuttosto vanità e vista corta.
J. W. Goethe, Faust
Alla mia famiglia
Perché il romanzo di Ferrante è politico
Sul finire del 2018, alla Biennale del Cinema di Venezia in occasione della proiezione in anteprima delle iniziali due puntate della prima stagione della fiction de L’amica geniale, Saverio Costanzo parlò della storia raccontata dalla tetralogia come una narrazione politica, intesa come racconto empatico del sentimento diventato memoria, in grado di trasmettere un contenuto politico molto più efficacemente di quanto non possa fare un’ideologia. Un’ideologia di qualsiasi segno, verrebbe da aggiungere, che si prefigga il ruolo di rielaborare i documenti in termini storiografici. Saverio Costanzo, nella sua osservazione, si riferiva precisamente al potere che l’istruzione scolastica e gli insegnanti avevano in Italia negli anni dell’immediato dopoguerra, sui destini di chi andava a scuola come Lila e Lenuccia negli anni Cinquanta.
Guardando la questione dall’ottica cinematografica, supervisionata dalla stessa Elena Ferrante in qualità di coautrice della sceneggiatura, sono importanti le parole di Costanzo, che non a caso ha creato attraverso la fotografia della prima stagione della fiction, delle immagini in grado di generare una specie di autenticità di ritorno, situata a metà strada tra il neorealismo e i colori onirici della propria visione di quel passato nazionale.
Questa scelta estetica volutamente non votata alla ricostruzione storica su base veristica, a fronte di una narrazione molto connotata dal punto di vista storico e di genere, aggiunge un elemento all’interpretazione dell’opera di Elena Ferrante che a mio avviso va rilevato come punto di partenza nell’approccio alla nostra autrice. Ciò perché il nostro punto di partenza nella lettura di Elena Ferrante riguarda quello che si può intendere quando si pensa sia alla verità storica, sia a ciò che classicamente si percepisce essere il ruolo della letteratura in termini di ricerca della verità attraverso anche una precisa elaborazione linguistica.
Nella postfazione di un libro molto interessante di Geneviève Fraisse, filosofa francese e storica del pensiero femminista, Luisa Muraro scrive in merito alle donne e alla loro comparsa in ambito storiografico: «le donne vi compaiono eccezionalmente o marginalmente, ciò si deve alla selezione e lettura dei documenti storici – selezione e lettura che sono fatte in vista di quello che risulta memorabile e degno di essere trasmesso alle nuove generazioni. (Chi mi legge sa, immagino, rispondere alle domande che questa tesi può far nascere; per esempio, sa bene che, nella sezione delle cose memorabili, oggi come ieri, c’entra sempre anche il potere politico e la cultura.)». Scrive la stessa Fraisse, che nel suo libro sottolinea come il così detto tempo politico abbia escluso le donne dal poter essere pensate come soggetti della storia per come ci è stata tramandata: «Non si tratta di domandarsi “che cosa pensare”, ma piuttosto “come pensare”. Come pensare l’uguaglianza dei sessi sfuggendo alle trappole dell’identità dei soggetti o delle norme di dominio? Perché il vero problema è quello della storicità, di fronte alla volontà ripetuta di collocare i sessi fuori dal tempo politico».
Tornando alle parole di Saverio Costanzo come interprete dell’opera di Elena Ferrante attraverso il filtro cinematografico, queste indicano in modo estremamente acuto la strada per cui la storia “pubblica” e le memorie “private” diventano, al di fuori dei manuali, un sentimento culturale ben più indicativo, che si pone tra il conscio e l’inconscio in un modo così pervasivo che, forse, è il caso di rivedere i termini in cui la storia e la letteratura si sono occupate, in passato, della ricerca della così detta verità. Perché nell’opera di Elena Ferrante è proprio il modo in cui si intende la verità, e in cui i personaggi si relazionano a questa, a essere il motore di una ricerca del vero che per come volutamente la orienta la nostra autrice, denuncia a monte di essere inutile.
In questo senso il romanzo di Elena Ferrante è politico soprattutto perché segna un approdo a un modo di raccontare il femminile in una totalità che esiste da sempre, senza prevedere la centralità del femminile. Il romanzo di Elena Ferrante è politico perché il tema è sempre quello dell’esplorazione narrativa di una genealogia femminile cui tuttora si fatica a pensare in termini realistici, proprio per via di quello che, parafrasando Muraro, rispetto a tutto ciò che è donna, da sempre non è risultato memorabile e quindi degno di essere tramandato alle nuove generazioni.
È forse per questo che il nuovo libro di Elena Ferrante La vita bugiarda degli adulti, fin dal titolo ha a che fare con la rielaborazione della verità, attraverso il ruolo che la bugia svolge nel racconto di una storia familiare che si dimostra poggiare su presupposti fortemente dissonanti rispetto alle scelte linguistiche e comportamentali di chi ha fondato quel nucleo. Dissonanza però che la nostra autrice non focalizza in termini moralistici, in quanto la menzogna e il tradimento nella Vita bugiarda costituiranno un passaggio di testimone generazionale che dice molto sul ruolo ambiguo e sul significato non definitivo che la parola verità deve giocare sia dentro le molte possibili letture dell’opera di Elena Ferrante che nel gesto simbolico dell’assenza del corpo dell’autrice.
Scriveva Elsa Morante in Menzogna e sortilegio sul ruolo pervasivo e con ciò fortemente significativo della menzogna in termini di eredità culturale, e non senza un filo di ironia: «Ma farsi adoratori e monaci della menzogna! fare di questa propria meditazione, la propria sapienza! rifiutare ogni prova, e non solo quelle dolorose, ma fin le occasioni di felicità, non riconoscendo nessuna felicità possibile fuori dal non-vero! Ecco che cosa è stata l’esistenza per me! ed ecco perché mi vedete consumata e magra al pari dei ragazzetti mangiati dalle streghe del villaggio. Essi dalle streghe, e io dalle favole, pazze e ribalde fattucchiere».
È questo approccio dubitativo nei confronti della verità come dogma che probabilmente, oltre al coinvolgimento di milioni di lettrici e lettori, decine e decine di studiose e studiosi in tutto il mondo, si sono fatti portavoce di un vero bisogno di cercare “oltre”. Ossia quello di seguire il tracciato ferrantiano ognuno nel proprio ambito disciplinare, esprimendo la necessità creata da un vu...