Sguardi che contano
Il cinema al tempo della visibilità lesbica
di
Federica Fabbiani
iacobellieditore
Reno (Nevada), 1959
Reno (Nevada), 1959. La città è la capitale americana dei divorzi veloci e qui giunge in treno l’affascinante Vivian Bell (Helen Shaver), docente di letteratura inglese alla Columbia University, per chiudere un lungo e asfittico matrimonio con un uomo, a sua volta docente universitario, fisicamente assente dal film, tuttavia discorsivamente presente. Sei settimane, il tempo necessario per ottenere il divorzio, sono sufficienti a cambiare il corso del desiderio della donna e orientarlo verso la giovane e apertamente lesbica Cay Rivers (Patricia Charbonneau). Desert Hearts (Cuori nel deserto), sceneggiato da Natalie Cooper e diretto da Donna Deitch, è un film debole per dialoghi e scarsa caratterizzazione dei personaggi secondari, eppure ha segnato un punto di svolta nella cinematografia lesbica.
Tratto dal romanzo Desert of the Heart di Jane Rule, che subì minacce di licenziamento e pressioni di vario tipo al momento della pubblicazione in Canada nel 1964, il film, come il romanzo, presenta una storia a lieto fine. Non c’è il carcere, non c’è il manicomio, non c’è il cimitero. Risale sul treno, carte del divorzio alla mano, una più libera, in tutti i sensi, Vivian, viva e vegeta, e non da sola; con lei balza al volo sulla carrozza in partenza anche Cay, non senza resistenza sia chiaro, che la paura del vivere (lesbico) attanaglia anche gli spiriti più audaci. Allora non potevamo sapere quanto la tirannia dell’happy end avrebbe condizionato le future narrazioni, incastrando intere generazioni in un nuovo, ugualmente asfissiante, sogno d’amore. Ma fu liberatorio, non c’è dubbio, e certamente va contestualizzata la necessità, allora pressante, di aprire le porte dell’immaginario alle soggettività lesbiche, non più, da quel momento in poi, costrette a salti quantici per immaginarsi e viversi senza drammi.
Cuori nel deserto, inaspettatamente, ottenne un grande successo al botteghino; realizzato con una forma di finanziamento dal basso ante litteram e nonostante una prima recensione molto negativa sul New York Times, il film riuscì a ottenere un’ottima distribuzione.
Dovessi collocare, per me, un tempo e un luogo in cui immaginare quando il lesbismo è diventato un atto sociale e politico che ha in concreto dato slancio al mio essere lesbica quale figurazione possibile del vivere, sceglierei quel 1959 nel deserto del Nevada in compagnia di Vivian e Cay. Impossibile, almeno per chi iniziava a cercare il proprio posto nel mondo negli anni ’80, sfuggire a quella sorta di triangolazione tra dimensione estetica, sfera del politico e componente affettiva che ha, a lungo, caratterizzato la topografia critica dello sguardo lesbico. Il coronamento della storia d’amore sullo schermo diventava, in quel momento, una possibilità di esistenza che, come ben sappiamo, da altre voci belle e autorevoli, non era prevista.
Il binomio visibilità/invisibilità connota fortemente la personaggia lesbica sugli schermi; a lungo è stata una sorta di fantasma di difficilissima decifrazione per il pubblico del cinema mainstream perché obliqua rispetto alla tradizionale rappresentazione della donna che non ha immagine se non in relazione al maschio. Se il femminile è una mancanza che ha valore e presa di posizione visuale solo se opposto al maschile, come si decodifica chi deraglia dal binarismo eterosessista?
Un aspetto interessante – sottolinea Maria Micaela Coppola in un saggio sul canone lesbico – della presenza della lesbica nel canone letterario e nella cultura dominante in generale è messo in luce da Terry Castle, in un volume indicativamente intitolato The Apparitional Lesbian (La lesbica fantasma), in cui si dimostra come il lesbismo sia spesso rappresentato fra le righe del testo, e il soggetto lesbico sia presente come fantasma, appunto, come apparizione fuggevole, visibile solo a chi è in grado di decifrarne le sembianze.
Molti i casi presi in considerazione, tra cui alcuni relativamente recenti come The Color Purple (Il colore viola) e Fried Green Tomatoes (Pomodori verdi fritti alla fermata del treno), le cui trasposizioni cinematografiche, rispettivamente del 1985 e 1991, sbianchettano la relazione lesbica presente nel libro, sfumandola a “semplice” amicizia femminile; particolarmente emblematica è per esempio «Greta Garbo nel film Queen Christina (La regina Cristina, 1933): un’attrice lesbica, che interpreta una nota regina lesbica, in alcune delle scene d’amore più classiche del cinema hollywoodiano, quindi mainstream (dominante), dimostra che la lesbica, nonostante tutto, sfugge allo sguardo non consapevole. “Quando si tratta di lesbiche, molte persone hanno problemi a vedere cosa sta di fronte ai loro occhi. La lesbica resta una sorta di ‘effetto fantasma’: elusiva, evanescente, difficile da individuare – anche quando è lì, in piena vista, mortale e grandiosa, al centro dello schermo”».
Ovviamente che la lesbica ci sia o magicamente scompaia dipende, e tanto, dallo sguardo di chi, seduto al buio in una sala cinematografica, guarda e talvolta (si) vede. A lungo la cinematografia ha imposto alla lesbica di sbirciare negli interstizi polverosi e bui della narrazione per immaginarsi e percepirsi come possibile in una scena in cui sembrava non esserci posto; difficile forse oggi, nel regime dell’ipervisibilità lesbica, comprendere come e quanto la visione costringesse «le donne lesbiche a una doppia fatica: resistere alla frustrazione di viversi come l’irrappresentabile e scavare in ogni possibile anfratto del rappresentato alla ricerca di tracce che, per giunta, devono essere costruite-decostruite-ricostruite. Per godere di tre quadri de La regina Cristina – ha ammesso Simonetta Spinelli – devo eliminare tre quarti del film, riportare in primo piano alcune suggestioni, e ricostruire, collegandole a modo mio, una storia per me».
La ri/lettura del testo e del sottotesto filmico è stata analizzata soprattutto da Patricia White nel libro, ormai classico, Uninvited: Classical Hollywood Cinema and Lesbian Representability (1999), in cui l’autrice analizza alcuni film del periodo hollywoodiano degli anni Trenta-Sessanta, ma di fatto applicabile anche a produzioni successive, concentrandosi sulla (possibile) reinterpretazione lesbica dell’intreccio in virtù soprattutto delle attrici – Marlene Dietrich e Greta Garbo per citare le più iconiche – considerate queerable e, come tali, rese desiderabili per il pubblico sia femminile sia maschile. White considera come il tristemente noto Codice Hays avesse deliberatamente mantenuto una certa ambiguità sulla definizione di “perversione sessuale”, vietata “solo” se nominata esplicitamente. Fu a causa dei sottotitoli in cui il lesbismo era espressamente nominato che il film Mädchen in Uniform (Ragazze in uniforme) del 1931 fu ritirato dalle sale. Si trattava quindi di “non nominare” per riuscire a mantenere “lo spirito”, lesbico, del testo. Il ruolo della spettatrice diventa fondamentale perché si possa immaginare oltre la testualità filmica, negoziando in modo assolutamente privato ciò che viene detto e visto con ciò che si desidera percepire. È l’agency della spettatrice che non prevede, nella teorizzazione di White, un semplice processo di decodifica, ma una re-visione testuale con la lettrice-critica come soggetto della sua fantasia.
Una visione che implica una ricostruzione, come ha sottolineato Spinelli:
E analogamente tagliati sono i film che ricordo: immagini sparse...