La storia di uno è la storia di tutti
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La storia di uno è la storia di tutti

con il testo della Carta di Lampedusa

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La storia di uno è la storia di tutti

con il testo della Carta di Lampedusa

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Interviste e storie di vita di migranti sbarcati a Lampedusa. L'esperienza della psichiatra Enza Malatino ci fa conoscere racconti di egiziani, tunisini, palestinesi, tutti diversi ma di eguale disperazione e dolore. Come, per esempio, la storia del giovane palestinese che parla di libertà, di diritti, di morte; come i bambini che crescono senza infanzia e che hanno come unica musica il suono della mitragliatrice.* Vincitore del Premio Progetto La ragazza di Benin City 2015

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788862526616
1. Sbarchi dal 2001 al 2011
L’esperienza di Enza Malatino a Lampedusa è cominciata nel 2001. Inizialmente lei non aveva mai pensato di lavorare così lontano da Palermo dove aveva due figli piccoli, ma una mattina andando alla Usl per delle informazioni, per caso sbaglia ufficio e si trova davanti il responsabile del settore. Questi comincia a farle alcune domande e, alla fine, dice: «Se io dovessi attivare delle ore di psichiatria a Lampedusa lei non ci andrebbe, è vero?». Questa frase sembrò a Enza una sfida e immediatamente rispose: «Certo che ci andrei!», dimenticando in quel momento i figli piccoli e la complicazione del dovere prendere l’aereo per andare due giorni alla settimana nell’isola. La curiosità e l’interesse avevano avuto il sopravvento e lei aveva accettato la sfida.
Il lavoro di Enza per i primi anni si svolge soprattutto al Poliambulatorio, dove si occupa della salute mentale degli abitanti dell’isola e dei turisti e poi dei migranti che lì vengono accompagnati quando manifestano sintomi di ansia o agitazione.
Quando, nel 2001, inizia il lavoro a Lampedusa gli arrivi dei barconi sono già costanti. «Adesso – dice – dopo quello che è accaduto, sembra che prima la gente arrivasse in minor numero ma nell’ottobre del 2003, solo due anni dopo che ero arrivata ci fu una tragedia che ancora si ricorda».
Una barca in alto mare ferma, con il motore in avaria, senza più acqua né viveri. Giorni e giorni con la speranza di qualche nave all’orizzonte. Padri che gettano in mare i corpi dei propri figli, morti. Gente stremata – in maggioranza sono somali – che dopo giorni senza mangiare e bere si è ridotta pelle e ossa, incapace anche di parlare.
Nelle notti fredde i sopravvissuti si rannicchiano sotto i cadaveri di chi ancora non è stato gettato a mare.
Disidratati, denutriti, i pochi sopravvissuti quando arrivano a terra non riescono più nemmeno a stare svegli. Vogliono solo dormire e quando sono svegli delirano. Non riescono nemmeno a inghiottire qualcosa perché subito vomitano.
«Una scena – dice il Giornale di Sicilia di quel giorno – paragonabile a quelle di repertorio dei campi di concentramento della seconda guerra mondiale. Uomini-scheletro non più nelle condizioni di reggersi in piedi... Incapaci di muoversi, i somali all’arrivo sono stati presi in braccio dai carabinieri perché nell’impossibilità di camminare da soli... C’era chi piangeva, chi chiedeva un po’ d’acqua, gli sguardi vuoti, impauriti sotto i fari che li abbagliavano».
Un altro ottobre di naufragi. Ma non è solo questo il mese in cui avvengono.
Nel 2011, dopo quella che è stata chiamata “Primavera dei gelsomini”, quasi settemila persone, duemila in più degli abitanti di Lampedusa, hanno invaso l’isola. In quella condizione di sovraffollamento è rimasta per più di due mesi con livelli impossibili di emergenza sanitaria, di sicurezza e di sostegno sia alla popolazione residente che alla gente arrivata dall’Africa in cerca di salvezza.
Dice Enza: «Non sapevano dove andare, non potevano muoversi, vivevano tutti per le strade... Sono stati i lampedusani a gestire la situazione. Hanno capito che se scoccava una scintilla, se si arrivava a un anche minimo conflitto, potevano essere sopraffatti».
Non si dormiva, c’era sempre qualcuno per strada. Si cercava invece di conoscersi, di capirsi davanti a una politica completamente assente e a un Berlusconi, allora presidente del Consiglio, che alla fine cercò di lanciare mediaticamente l’isola cercando di farla diventare appetibile per i vip.
In quei mesi la gente cerca riparo sotto i camion e in tutti gli spazi coperti che riesce a trovare; i cittadini di Lampedusa, sconcertati, cominciano una raccolta di abiti e viveri per provvedere a sostenere quella massa di disperati: tanti i bambini e le donne, molte di loro sono incinte.
«Intanto – racconta Enza – continuavano ad arrivare barconi carichi di esseri umani e le informazioni sulle soluzioni possibili erano scarse e contraddittorie. Man mano che aumentava il numero degli occupanti, si andava rafforzando, nei lampedusani, l’idea di essere vittime sacrificali di una emergenza politica e umanitaria che nessuno voleva affrontare a casa propria né in Italia, né in Europa con l’effetto di amplificare ancora di più i vissuti di esasperazione, di rifiuto, di impotenza, di paura e aggressività. Si voleva fare di Lampedusa un Centro di identificazione per provvedere a eventuali espulsioni. L’isola sarebbe così diventata un luogo di confino dove la permanenza per le identificazioni sarebbe stata di almeno sei mesi... Intanto aumentavano gli arrivi... Sembrava un delirio... Tutti insieme, abitanti e migranti, si sentivano intrappolati in una condizione nella quale non si intravedevano vie d’uscita: vittime e carnefici gli uni degli altri. Ed è in un clima di questo tipo che prendono il sopravvento i pregiudizi e si affacciano fantasmi di antiche pestilenze: l’altro non invade solo lo spazio fisico ma minaccia anche la salute e la sicurezza. I migranti non possono lavarsi e pertanto sono sporchi, cercano luoghi dove accamparsi occupando la maggior parte del territorio. Si raggruppano in molti su una collinetta di fronte al mare, nel punto dove di solito approdano i barconi, che verrà soprannominata la “collina della vergogna” per le condizioni di degrado in cui versano gli occupanti. Tra i migranti il consumo di alcol è elevato, tanto che il sindaco emana un’ordinanza con la quale si vieta la vendita di alcolici. Finite le risorse economiche, tanti chiedono l’elemosina, l’isola è diventata un’enorme cloaca all’aperto a causa della carenza di servizi igienici. In cerca di un riparo, i migranti forzano le case che sono disabitate e iniziano scontri che portano, in qualche caso, a vere aggressioni fisiche. La struttura sanitaria si trova a fare fronte a un’emergenza senza precedenti... Scoppia anche la rivolta in Libia e a noi medici, che settimanalmente prestiamo servizio presso il Poliambulatorio di Lampedusa, arrivando in volo da Palermo, giungono notizie contraddittorie sul fatto che il nostro aereo è scortato da due caccia bombardieri, visto che nel tragitto fino a Lampedusa sorvoliamo uno spazio vicino al territorio libico. Poi smentiscono. Più volte però ci capita, dopo l’atterraggio, di vedere sfrecciare due caccia. Forse rischiavamo la pelle ma non riuscivamo ad avere notizie certe. Intanto gli sbarchi continuano a susseguirsi senza tregua, l’isola scoppia.
Ed è così che, sul piano umano, cominciano a venire meno le condizioni di empatia e riconoscimento dell’altro come persona. L’altro non appartiene più alla specie umana ma è diventato a tutti gli effetti un nemico da combattere, un invasore da espellere. Viene neutralizzata la p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. informazioni
  3. frontespizio
  4. ringraziamenti
  5. Prefazione
  6. Prima parte
  7. 1. Sbarchi dal 2001 al 2011
  8. 2. La storia di uno è la storia di tutti
  9. 3. Anouar e altri racconti
  10. 4. Chi guadagna sull’immigrazione?
  11. 5. Donne
  12. 6. La città salva
  13. 7. In preparazione della Carta di Lampedusa
  14. 8. L’isola
  15. Seconda parte
  16. La Carta di Lampedusa. L’etica può farsi diritto. Non è un’utopia
  17. La Carta di Lampedusa
  18. la casa editrice