Perché i poeti. La parola necessaria
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Perché i poeti. La parola necessaria

  1. 180 pagine
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Perché i poeti. La parola necessaria

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Nel 1946 Martin Heidegger tenne una conferenza, Perché i poeti?, pubblicata poi nei saggi di Holzwege. Negli scritti di Heidegger, è tra quelli che segnano il grande confronto del pensiero heideggeriano con il dire dei poeti, e la cosiddetta svolta nel pensiero del filosofo tedesco dall'analitica esistenziale di Essere e tempo alla riflessione sul senso dell'essere come evento del linguaggio custodito nella poesia. Passaggio che avviene soprattutto attraverso un'interrogazione sull'essenza della poesia in Hölderlin.In questa piccola opera, Eugenio Mazzarella ritorna sui temi propri del confronto di Heidegger con la poesia, e la domanda sulla sua essenza, in una prospettiva, però, in cui l'analitica esistenziale non è affatto abbandonata. Il senso dell'essere, la verità dell'essere, schiusa dalla poesia, appare come un "fatto di parola", come l'evento stesso del linguaggio, ma è, ad un tempo, anche un'esperienza esistenziale. Lo "strano fatto" della poesia è "l'istituzione linguistica del mondo" prima che ci siano le singole cose, è l'apertura stessa del mondo. Ma questa "istituzione linguistica" è imprescindibile dall'Esserci, dall'Io che nomina il mondo e, nominandolo, ritrova sé stesso. Di qui il ruolo, centrale e fondativo, come insegnerà Leopardi, dell'Io lirico. In un attraversamento, dell'esperienza della grande lirica moderna, del "nichilismo" poetico di Leopardi, del suo presupposto spirituale nell'Ecclesiaste, e in un confronto con la stessa lettura di Heidegger di Hölderlin, Mazzarella mostra in queste pagine la parola necessaria della poesia e la sua insostituibilità come fenomeno peculiare dell'esistenza umana.

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Informazioni

Editore
Neri Pozza
Anno
2020
ISBN
9788854521810

PRIMA PARTE

Lirica e filosofia

Prefazione

È di Leopardi l’osservazione che la lirica sia «la cima il colmo la sommità della poesia», e come tale «la sommità del discorso umano» e «dei tre generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni»; e ciò perché «primo di tempo», e «così eterno ed universale, cioè proprio dell’uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia», sì che la poesia «consisté da principio in questo genere solo», e la sua essenza «sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche»: e che «in questa circostanza di non aver poesia se non lirica, l’età nostra si riavvicina alla primitiva». Ed è sempre sua l’osservazione che «quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio (come per esempio nella lirica, che non è propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva» – che è il «magistrale effetto della poesia, quando giunge a fare che il lettore acquisti maggior concetto di sé, e delle sue disgrazie, e del suo stesso abbattimento e annichilamento di spirito».
Epica e dramma recano in poesia materia, azioni e passioni, che sono già o anche della storia e della narrazione storica, è altra osservazione del Leopardi. E per lo smagato io dei moderni, neanche questo è veramente possibile: il soggettivismo moderno, quello degli europei, è troppo razionale per avere ancora un’epica o un dramma che non trovino accenti più sinceri nelle grandi narrazioni storiche o nel romanzo. Bisognerà attendere l’esordio in letteratura di nuove identità nazionali, magari meticciate nelle lingue degli europei, per riavere epica e dramma alla misura delle stagioni che furono loro proprie nella coscienza dell’Europa letteraria.
Ma il venire a coscienza di sé del soggetto che lì opera o patisce, o si racconta – eroe, popolo, tipo esemplare, individuo cosmico-storico –, il venire a coscienza di sé nelle proprie ultime, e prime, radici personali, a fronte del mondo, nell’affronto del mondo, che tutto mi dà e niente mi perdona, il sorgere di quell’odiosa difficoltà a viversi che è dire io, che dice: «Io», cioè tutto e poco più che niente, questo sorgere di sé nella poesia è proprio ed esclusivo – in poesia – della lirica. E questo sempre. Lo prova, ad abundantiam, per privazione, proprio lo smagato io dei moderni, che ha perso epica e dramma, ma su di sé proprio non riesce a smagarsi. E ancora alla lirica affida l’alchimia spirituale di un’opera al nero che trova «profondissima quiete» solo nel naufragio di un amore di sé cresciuto adulto nelle ragioni del suo dissenso, eppure infantilmente spaesato, in una perdita di mondo che si riannoda a sé solo nella parola; e che solo così rende abitabile un universo del dissenso – della vita alla vita: un’autoapprensione di sé («a me la vita è male») che si fa verdetto ontologico, sapere generale («è funesto a chi nasce il dì natale»). Per il lirico – quando assume questo tono fondo, e che va a fondo di ogni cosa – l’«essere», in cui la vita della mente siede e contempla, si fa sicura di sé, si chiama fuori dalla sua turbolenza come vita, dalla sua tribolazione di ogni giorno, l’«infinito» in cui si “toglie” come vita finita, il miracolo – in filosofia – della contemplazione delle essenze, sono solo sterminati silenzi. Quando parla articola il dissenso.
Se – giusta una diagnosi di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che Wilhelm Dilthey riprenderà facendo nascere con le storie di Gesù Cristo la storia dei «popoli moderni» d’Europa – è con il cristianesimo che si realizza il passaggio dalla posizione «oggettiva» della coscienza, propria al mondo greco, le cui misure sono tutte tratte dall’oggettività pubblica del proprio essere soggetti, alla posizione «soggettiva» della coscienza, dove queste misure si presentano nel foro interiore dove è un Principio personale che si rivolge alla persona, questo passaggio che in filosofia Hegel registra, nella coscienza europea, tra grecità e cristianesimo, in poesia avviene ben prima, e dappertutto, come emergere del lirico; e questo già per tempo – nel suo tipo puro – senza le consolazioni alla stessa afflizione di sé dell’invocazione agli dèi o della preghiera.
Insomma è il lirico – insieme alla preghiera personale, che pone al centro del rapporto la propria persona e il suo patema – il luogo, «eterno ed universale», dove la coscienza umana scopre l’«esistenza» e il sé si lega, nei flutti del principium individuationis, all’albero dell’io per non soccombere. Quando il vento del mondo non soffia più nelle sue vele nel mare fermo della «noia», o vi turbina, e minaccia o anticipa il naufragio, è la parola che sale sulle spalle dell’anima a tenerle compagnia, in questa discesa agli inferi dove è svanita o si è fatta odiosa la «bella luce del giorno», o già solo in questo semplice viaggio che sono io e non tocco mano che mi dica per chi vivo.
I due saggi che seguono è questo mare fermo o questo vento, che soffia dentro, fuori nel cervello, che provano ad ascoltare, in una vena triste e d’oro dei moderni, quella di un io spaesato a un mondo che avrebbe dovuto tenere nelle mani, e nell’accento assoluto, sciolto da ogni cosa, che questo spaesamento a ogni mondo possibile ebbe nel Qohélet1.

Condizione umana I

Modernità

Nella confusione e nella speranza

La situazione dell’io nella poesia dell’ultima modernità

1. La certezza che è data dagli occhi

«Da quando un bimbo nacque in una mangiatoia, c’è da dubitare che sia accaduto qualcosa di così grande con così poco clamore». È con queste parole che Alfred North Whitehead introduce Galileo Galilei e la scoperta del telescopio sulla scena del mondo moderno. Le ricorda Hannah Arendt in una lettura memorabile della condizione spirituale della modernità1. Questa è segnata dalla scoperta del «punto di Archimede», come correlato soggettivo dell’infinità resa evidente, nel cannocchiale, del cosmo. Con questa scoperta «senza risiedere realmente dove Archimede desiderava risiedere… ancora legati alla terra dalla condizione umana» – che è poi il titolo originale di Vita activa della Arendt – «abbiamo trovato» ella scriveva «un modo di agire sulla terra e dentro la natura terrestre come se ne disponessimo dall’esterno, dal punto di Archimede. E anche a rischio di mettere a repentaglio i processi naturali della vita, esponiamo la terra alle forze cosmiche universali estranee alla sua natura»2. Quello che Giordano Bruno aveva intravisto filosoficamente – l’universo infinito e unitario, non eliocentrico, ma onnicentrico in quanto infinito – trovava, con il Sidereus Nuncius galileiano del 1610, «la certezza che è data dagli occhi».
Era questo a scardinare la costruzione astronomica aristotelico-tolemaica nei suoi due capisaldi fondamentali: l’eterogeneità qualitativa della sfera celeste e terrestre e l’unicità del centro di tutti i movimenti cosmici. Eppure, un centro doveva darsi. O almeno – nei fatti, è ciò che accadrà – una logica del centro, un movimento di accentramento come surrogato della fondazione tradizionale sotto lo sguardo paterno di Dio sulla terra, che veniva ora letteralmente a mancare sotto i piedi, dando corpo a timori che covavano da decenni. Mandando al rogo Bruno in Campo de’ Fiori a Roma il 17 febbraio 1600, il mondo moderno si dichiarava ufficialmente aperto, e insieme si vendicava di se stesso, mandando innanzi nel deserto che si preparava a scoprire, come capro espiatorio, colui che aveva voluto a ogni costo indicarglielo. Perché, come l’universo onnicentrico, il fuoco che brucia in ogni punto o la vuota trascendenza – il deserto non ha centro. Galilei scampa a stento. Forse perché aveva dato, con la conferma sperimentale, anche una via di fuga, una nuova strada verso il centro – l’esperimento, appunto. «Nell’esperimento, l’uomo realizzò» scrive ancora la Arendt «la sua capacità di liberarsi dalle pastoie dell’esperienza legata alla terra; invece di osservare i fenomeni come se gli fossero dati, sottopose la natura alle condizioni della sua mente, cioè a condizioni imposte da un punto di vista universale astrofisico, da un punto di vista cosmico al di fuori della natura»3. Certo, «d’ora in avanti solo sul solido fondamento di un’ostinata disperazione si può costruire una sicura abitazione dell’anima», come scriverà Bertrand Russell4, ma almeno, nell’esperimento, pare aprirsi una strada, perché centro deve darsi; su qualcosa – Dio, uomo o mondo – bisogna fondarsi.
John Donne non ebbe bisogno, come scrive la Arendt, di aspettare René Descartes o Blaise Pascal, né di mettere gli occhi nel cannocchiale che Galilei aveva testé costruito,
per trarre, nel 1611, tutte le conclusioni da ciò che aveva sotto gli occhi:
E la nuova Filosofia mette tutto in dubbio,
l’Elemento del fuoco è affatto estinto;
il sole è perduto, e la terra; e nessun ingegno umano
può indicare all’uomo dove andarlo a cerc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. La parola necessaria
  6. PRIMA PARTE. Lirica e filosofia
  7. SECONDA PARTE. Lirica e poesia
  8. Note
  9. Nota bibliografica
  10. Indice
  11. Scopri l'autore