1.
Ni Dieu ni maître,
o il «multiverso» di Louis-Auguste Blanqui
«Ogni attimo avrà il suo bivio» scrive il prigioniero di Fort du Taureau. È il 1871, l’anno della Comune di Parigi. «Qui il cammino che si prenderà, là quello che si potrebbe prendere. Chi non s’è mai trovato alla presenza di due possibili carriere? Ebbene, da qualche parte, nell’universo infinito, esistono una o più Terre in cui l’uomo segue la strada disdegnata dal suo sosia. Tutto ciò che ciascuno potrebbe essere quaggiù lo è altrove, da qualche altra parte. I grandi eventi del nostro globo hanno la loro contropartita soprattutto quando la fatalità vi ha giocato un ruolo. Forse l’esercito inglese ha perduto più volte la battaglia di Waterloo sui pianeti dove i loro avversari non hanno commesso l’errore grossolano del generale Grouchy».
È una fantasia da brivido metafisico: la realtà perde consistenza e si spappola in una sfilata di finestre di Magritte e sentieri che s’incrociano, come in Matrix, o nelle storie di Philip K. Dick. Ma chi sogna questo sogno borgesiano non è uno scienziato immaginifico del XXI secolo e neppure un moderno scrittore di fantascienza. È Louis-Auguste Blanqui, detto «l’Enfermé», il prigioniero; l’opera che sta scrivendo è L’eternité par les astres.
Decenni di galera alle spalle, prigioniero per antonomasia dello Stato borghese, studi di Diritto e di Medicina in gioventù, Blanqui è il più famoso e famigerato conspirateur parigino. Esattamente vent’anni prima, nel 1851, Karl Marx e Friedrich Engels lo hanno definito «il nobile martire del comunismo rivoluzionario». Alexis de Tocqueville, che negli stessi anni vede Blanqui «alla tribuna», lo descrive come un uomo «dalle guance vizze e smunte, le labbra bianche, l’aria malaticcia, malvagia e immonda, un pallore sporco, l’aspetto d’un corpo ammuffito, niente biancheria e una vecchia redingote nera appiccicata sulle membra gracili e scarne». Anche nel 1851 Blanqui era dietro le sbarre. C’era finito tre anni prima, nel 1848, dopo la rivoluzione di febbraio, quando aveva tentato – alla testa della Société républicaine centrale, detta anche «Club Blanqui» – uno dei suoi coup de main, professionalmente impeccabili ma politicamente sconsiderati. Ne uscirà soltanto nel 1859, salvo tornarci nel 1861, sempre a causa d’una cospirazione fallita: accusato di partecipazione a società segrete, è tradito da un vecchio compagno, come nei feuilleton. Nel 1871, passato un altro decennio di deportazione e di congiure, a Parigi viene proclamata la Comune; la guerra franco-prussiana è finita male per Napoleone III, detto «il Piccolo» da Victor Hugo; la capitale ribelle è circondata dall’esercito prussiano e da quello francese, che hanno deposto le armi e meditano un’azione comune contro il proletariato parigino; e Blanqui è di nuovo in galera. Otto von Bismark, il cancelliere tedesco, e Adolphe Thiers, successore di Napoleone III e primo presidente della terza repubblica francese, pensano che Parigi, capitale di tutte le rivoluzioni, sia «alla mercé dei comunisti», governata dai capi occulti delle società segrete e dai delegati dell’Associazione internazionale dei lavoratori, l’AIL, fondata nel 1864 a Londra e incarnazione dello «spettro» famoso, quello che dal 1848 «s’aggira per l’Europa, oggetto d’una caccia spietata».
«Partito internazionale del proletariato», nel comitato centrale dell’AIL inizialmente siedono anche Giuseppe Mazzini e uomini vicini a Giuseppe Garibaldi, ma ormai da anni l’associazione è saldamente sotto il comando di Karl Marx, i cui seguaci parigini sono al momento pappa e ciccia con i comunisti di scuola blanquista. (Ma l’idillio durerà poco. Soltanto un paio d’anni più tardi, nel 1873, quando Engels scenderà in guerra contro i seguaci di Michail Bakunin, alleati occasionali dei blanquisti, il coautore del Manifesto del partito comunista scomunicherà Blanqui nel suo Programma dei fuorusciti blanquisti della Comune: «Egli non è socialista che per sentimento, per simpatia della miseria del popolo, delle sue sofferenze, ma non ha teoria socialista né progetti pratici di trasformazione sociale»).
Rivoluzionario di professione rotto a tutte le congiure, maestro scacchista delle battaglie di strada, vecchio galeotto e generalissimo delle insurrezioni armate, figlio d’un deputato girondino della Convenzione e fratello d’Adolphe Blanqui, storico dell’economia, Auguste è il mitico guerrigliero e sabotatore delle feste democratiche al quale Marx scippa l’espressione, nonché il concetto, di «dittatura del proletariato»: un partito che governa le masse, un comitato centrale che governa il partito, un dittatore che governa il comitato. Lenin, tra parentesi, è di gran lunga più un discepolo di Blanqui che di Marx, anche se lo nega intanto che ne tesse continuamente l’elogio. È alla teoria blanquista dell’insurrezione che Lenin s’ispirerà nell’ottobre del 1917. Anche la sua idea di partito cospirativo (e persino un po’ mafioso, tanto che egli non nasconde la sua ammirazione per la mafia e per l’Unione corsa) è blanquista fin nel profondo. Mentre a Parigi si prepara la rivolta, di cui lui non può essere (disdetta) uno dei mattatori, Blanqui è stato condannato a morte in contumacia il 9 marzo 1871. Sessantaseienne, viene arrestato il 17 marzo, il giorno prima che il proletariato parigino si sollevi e proclami la Comune, dove i blanquisti sono la maggioranza e propongono, per prima cosa, uno scambio di prigionieri: l’Enfermé in cambio dell’arcivescovo di Parigi, ma niente da fare. («Thiers» scrive Marx nella Guerra civile in Francia «rifiutò ostinatamente. Sapeva che con Blanqui avrebbe dato alla Comune una testa, mentre l’arcivescovo gli sarebbe stato più utile come cadavere»). Blanqui, in prigione, si stringe nelle spalle, rassegnato al suo destino. Dietro le sbarre ha trascorso metà della vita, che altri direbbero spesa malissimo, ma che a lui dev’essere piaciuta così.
Però la rivivrebbe daccapo? Proprio identica? Tale e quale?
Sta di fatto che scrive L’eternité par les astres, un trattato di cosmologia immaginaria, che fa dell’universo un’immane Shangri-La, un Hy Brasil vasto come la Creazione. È un cospiratore di professione, un homme de coup de main, eppure non scrive un testo di teoria rivoluzionaria, e nemmeno un’autobiografia, l’uno e l’altra molto più utili alla causa. Scrive una dissertazione d’astronomia metafisica. L’eternité par les astres è un manuale di meccanica visionaria, nel quale si contempla la possibilità per «un uomo» generico – dunque anche per lui, Blanqui – di scegliere un sentiero diverso, d’imboccare la «strada disdegnata», non questa carriera ma un’altra, e di volgere i propri passi altrove.
Sullo sfondo di questa conturbante fantasia letteraria s’intravedono, ancora indistinte, stagioni infernali e orologi liquefatti, una pioggia d’uomini in bombetta, serate del Cabaret Voltaire a Zurigo, «scandali» e trompe-l’oeil, cadaveri squisiti, macchine celibi, objects trouvés e Demoiselles d’Avignon, derive psicogeografiche, fumetti «detournati». È una scena originaria. Anche se lì per lì passa inosservato, questo «altrove», l’altrove di Blanqui, illuminerà d’ora in avanti l’intera scena politica e avant-gardiste, specie parigina.
Nessuno che non sia pazzo furioso, pensa il prigioniero di Fort du Taureau, vorrebbe rivivere tale e quale la propria vita. Neanche il più ricco dei nababbi o il più dotato degli amatori vorrebbe ricacciarsi daccapo nelle intollerabili routine già sperimentate una volta. Rivoluzionario, guastatore professionale del destino, Blanqui è istintivamente di quest’avviso: la realtà, fuori dalle mura di Fort du Taureau, è una prigione più vasta del carcere in cui vengono rinchiusi «i martiri» del comunismo rivoluzionario. Un altro, al suo posto, penserebbe che non ci sono vie di fuga, che cosa fatta capo ha, che il destino è irrimediabile; oppure si metterebbe tranquillo ad aspettare l’amnistia che in capo a qualche anno sarà concessa persino ai comunardi scampati alla mattanza del 1872, quando migliaia di prigionieri politici furono mitragliati nei giardini del Luxembourg. Ma Blanqui – che tra un’insurrezione e l’altra non ha spannocchiato giornaletti porno ma letto libri scientifici, tomoni alti due spanne di meccanica e astronomia – passa velocemente in rassegna le sue letture in un agile libercolo (che Borges, per citarlo di nuovo, gli avrebbe forse riscritto e condensato ma senz’altro invidiato). Qua e là scrive anche una sciocchezza o due; anzi, diciamolo, non scrive che sciocchezze. Ma vorrei vedere un vero astrofisico al suo posto, come lui dietro le sbarre, senza nemmeno un trattato da consultare né Internet da mettere a sacco, centocinquant’anni fa; e dopo queste inezie, in ogni modo, la poesia. Blanqui parte d’un tratto per la tangente cosmica, tralascia il ragionare pseudoscientifico ed eccolo ridefinire «l’infinito», che esalta, torce, strapazza e modella fino a dargli una nuova vertiginosa forma, la stessa che un rivoluzionario darebbe alla società e un artista alla tela vergine, alla pagina bianca o alla creta. È l’artista originario, l’astrattista rivoluzionario, l’Ur-Dada, l’Ur-surrealista, i cui eredi (remoti e meno remoti) animeranno la festa del secolo breve.
Come funziona la cosmologia blanquista, e cosa se ne deduce? Be’, ecco, «sulla base dei dati e delle dimostrazioni precedenti» scrive questo re delle congiure, «la nostra tesi è che la materia non può raggiungere l’infinito con la diversità delle combinazioni siderali. Trent’anni fa pensavamo che a causa dell’infinità dei possibili corpi celesti il nostro pianeta doveva esistere in migliaia d’esemplari. Solo che questa opinione era un fatto istintivo e si basava unicamente sui dati relativi all’infinito. Ma l’analisi spettrale ha del tutto cambiato la situazione, ha aperto le porte alla realtà in cui precipitarsi e l’illusione sulle strutture fantastiche è caduta. Non esiste che un centinaio d’elementi semplici, due terzi dei quali sono sotto i nostri occhi. È con questo magro assortimento che bisogna fare e rifare senza tregua l’universo. Hausmann (l’urbanista) ne aveva altrettanti per ricostruire Parigi». Ne consegue, «tuttavia, un grave difetto» continua il prigioniero, e la sua è una conclusione amara: «l’assenza di progresso. Ahimè! Questi sosia sono volgari ristampe, soltanto ripetizioni. Gli esemplari dei mondi passati sono identici a quelli dei mondi futuri. Rinasciamo prigionieri del tempo e luogo che il destino ci assegna nelle serie delle sue resurrezioni. Siamo soltanto fenomeni parziali delle sue incarnazioni. Uomini del secolo XIX, l’ora delle nostre apparizioni è fissata per sempre, e torneremo sempre gli stessi, senz’altra prospettiva che qualche variante fortunata. Niente, in tutto questo, che possa placare la nostra sete del meglio». Blanqui, scrive Walter Benjamin negli appunti del suo Charles Baudelaire, delinea qui, «con ingenue riflessioni da autodidatta, un’immagine del progresso che si svela come l’immagine incantata della storia stessa: un’antichità immemorabile in vesti modernissime». Una sola via di fuga, si legge nell’Eternité: «Il capitolo delle biforcazioni, ancora aperto alla speranza».
«Come Origene e Sant’Agostino» scrive Borges, «Blanqui dispiega una Odissea di prodigi che non sembrano ammettere altra spiegazione se non l’allucinazione o il simbolo, e li decifra completamente grazie a un solo postulato fantastico ma non soprannaturale». Non è così che stanno le cose dell’universo fisico, naturalmente. Ma stanno così nelle fantasie di Blanqui, poeta e prigioniero; stanno un po’ così, per la verità, anche nella moderna teoria del «multiverso patchwork».
Una scuola d’astrofisica quantistica immagina, infatti, che l’universo sia costituito da una trama fitta e infinita di pezze cosmiche, i cui lati sono rappresentati dall’orizzonte cosmico, pari a 41 miliardi d’anni luce in tutte le direzioni; e se all’interno d’«ogni pezza, le particelle di materia possono essere disposte solo in un numero finito di configurazioni diverse», ciò significa «che nell’infinità di queste pezze remote – le regioni dello spazio simili a quella in cui abitiamo, ma distribuite in un cosmo illimitato – le stesse condizioni si realizzano necessariamente più volte» (Brian Greene, La realtà nascosta. Universi paralleli e leggi profonde del cosmo). Ciò sia detto a dimostrazione che anche la scienza propriamente detta ha le sue licenze poetiche.
Ma il copyright della teoria, o per lo meno il primo a formularla, rimane Louis-Auguste Blanqui, padre della meccanica utopistica e delle cospirazioni fallite, profeta di un’astronomia allucinata e surreale, «ebbra» come la barca di Rimbaud, in cui non fa problema la natura del mondo ma il suo mistero, il suo arcanum, l’ingiustizia per cui gli zig e gli zag della vita sono irrevocabili e mentre una via «conduce alla miseria, alla vergogna e alla servitù, l’altra porta alla gloria e alla libertà. Qui una donna affascinante e la felicità, là un’arpia e la desolazione. Esistono Terre» scrive Blanqui, «in cui l’esistenza si sdoppia, un globo per ciascuno, poi si biforca una seconda, una terza volta, per migliaia di volte. Ciascuno possiede così dei sosia completi e innumerevoli varianti di sosia che moltiplicano la sua persona ma che condividono solo frammenti del suo destino. Oltre alla sua intera esistenza dalla nascita alla morte che vive su una miriade di terre, ne vive diecimila edizioni diverse su altre ancora». Blanqui, scrive Benjamin nei Passages di Parigi, «scrive questo libro per aprirsi nuovi varchi tra le sbarre».
Ecco allora una «miriade» d’insurrezioni riuscite dopo tanti fallimenti, non qui magari, ma «altrove», dove Blanqui ha vinto le sue battaglie di strada e dove presto si precipiteranno, seguendo la sua pista, frotte di rivoluzionari di professione e d’artisti d’avanguardia, lungo strade che qui sono state «disdegnate» ma che «altrove», dove i nostri sosia le hanno imboccate, risultano popolate di meraviglie da Mille e una notte: gloria, libertà, donne affascinanti.
Blanqui, nel nostro universo, fonderà ancora un giornaletto comunista la cui testata recita Ni Dieu ni maître, «né dio né padroni», il grido di battaglia che sarà poi raccolto dagli anarchici, «superbo motto» che André Breton, da bambino, vedrà scritto in «lettere maiuscole rosse su una lastra di granito» al Père-Lachaise, il cimitero di Parigi, come il futuro fondatore del surrealismo racconterà in Arcano 17 (un libro pubblicato nel 1944 a New York, nel quale Breton celebra, tra le altre cose, anche «la fiaccola della Comune di Parigi lungi dall’essere spenta» e «la bandiera rossa spoglia di sigle e d’emblemi», vista «a diciassette anni nel corso d’una manifestazione popolare»). Quanto a Blanqui, pubblica L’eternité par les astres nel 1872. È l’anno in cui viene trasferito da Fort du Taureau a Clairveaux. Nel 1877, settantaduenne, è trasferito di nuovo, stavolta allo Château d’If – ma più come l’Abate Faria, data l’età, che come Edmond Dantès.
Esattamente un secolo dopo, nel 1972, l’artista e cospiratore sessantottesco Guy Debord – autore della Société du Spectacle, un testo non meno immaginifico e visionario dell’Eternité – scioglie l’IS, o Internazionale situazionista, l’ultima delle avanguardie, ed ecco che il cerchio bruscamente (e definitivamente) si chiude. Ma procediamo con ordine; prima di tutto un passo indietro.
2.
Utopisti e poeti,
o l’alleanza del meraviglioso con l’aritmetica
All’origine, molto prima che il giovane Arthur Rimbaud, al timone della sua barca ubriaca, proclamasse che non bastava cambiare il mondo, ma che era tempo di cambiare «anche la vita», c’erano i romantici che, con le parole di Novalis, volevano «romanticizzare il mondo», cioè vivere sopra le righe, consumati dalle passioni.
Più tardi, nella Parigi dei dandy, dei gazzettieri balzachiani, dei bevitori d’assenzio, delle cocotte e dei cospiratori di mestiere, una Parigi bella e sinistra, ci sarebbe stato Charles Baudelaire, che «su un foglio, accanto ad altri disegni improvvisati, disegnò a memoria», come ricordano i suoi biografi, «la testa di Blanqui»: un vecchio fascinoso e maudit dall’aria satanica, icona d’ogni possibile cambiamento esistenziale e politico.
«L’abisso di Baudelaire è privo di stelle. La sua lirica è in effetti la prima in cui non compaiano le stelle» scriverà un secolo più tardi Walter Benjamin nel suo Charles Baudelaire. Al posto delle stelle, che la sua lirica gli vieta, nel cielo di Baudelaire c’era la merce, c’erano i rapporti alienati e corrotti tra le persone e c’era infine la rivoluzione, una dimensione oscura, di cui il ritratto di Blanqui era forse una chiave d’accesso.
Ma prima di Novalis, prima di Louis-Auguste Blanqui e di Baudelaire, prima delle società segrete e dei cenacoli letterari, prima di tutto questo c’erano stati gli utopisti. Costoro erano uomini d’azione la cui azione consisteva nel sognare (come avrebbero poi fatto i surrealisti, loro lontani discepoli) la luna nel pozzo: città liberate, né servi né padroni, abolizione della famiglia, tradizioni revocate, canti e danze, tavole sempre imbandite, e soprattutto niente polizia, niente re e cardinali, via la proprietà privata, autoeducazione dei pargoli, sex revolution e fiori nei cannoni molto in anticipo sui sixties del XX secolo. Bohémiens, un po’ cialtroni, specialisti (avrebbe poi detto Gustave Flaubert) di «vaniloquio politico», erano inesausti macchinatori di sempre nuove architetture sociali, inapplicabili ma infallibilmente mirabolanti e spettacolari.
Gli utopisti, all’inizio della loro strabiliante e breve avv...