Streghe
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Le eroine dello scandalo

  1. 240 pagine
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Streghe

Le eroine dello scandalo

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Come funzionava la macchina della giustizia che condannava le streghe nel secolo della rivoluzione scientifica? Una giornalista fruga negli archivi, tra le carte processuali, e ripercorre, udienza dopo udienza, tre processi italiani con esiti differenti e sorprendenti. 1587 Triora, Podesteria della Repubblica di Genova.
Si apre uno dei più intricati e appassionanti processi italiani alle streghe. Trenta imputate, decine e decine di indagate, due inquisitori e una ferocia persecutoria senza precedenti. Il procedimento dura tre anni, coinvolge donne d'ogni ceto, il potere ecclesiastico e quello temporale, distrugge un'intera comunità e si conclude con un mistero: che fine hanno fatto le streghe di Triora? 1617 Ducato di Milano e Mantova.
Caterina Medici è una fantesca a servizio da pochi mesi in casa del senatore Luigi Melzi d'Eril. Questi comincia ad accusare forti disturbi di stomaco che gli illustri medici chiamati al suo capezzale non riescono a curare. Comincia così – in una girandola di dottori, esorcisti, monache di nobili natali, capitani di giustizia e cancellieri – la vicenda, avvincente come un thriller, che porterà i potenti d'Eril a incolpare Caterina di aver maleficiato il vecchio senatore, d'essere una strega. La ragazza verrà interrogata, spinta alla confessione e giudicata in una sorta di processo privato che si svolge interamente in casa d'Eril. Consegnata infine alla giustizia del Ducato, Caterina sarà torturata e condannata all'impiccagione e al rogo. 1716 Brentonico, Vicariato della Vallagarina.
Maria Bertoletti, detta la Toldina, viene accusata di stregoneria, processata nel foro penale laico e condannata al rogo. Oggi trecento anni dopo, il Comune trentino ha chiesto la riapertura del processo (richiesta accolta dalla Corte d'Appello di Trento): la sentenza, raggiunta in un unico atto di giudizio, appare iniqua anche secondo le regole allora vigenti.

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Informazioni

Editore
Neri Pozza
Anno
2019
ISBN
9788854519527
Argomento
History
Categoria
World History

Parte prima

Ducato di Milano e Mantova
1616-1617

Caterina de Medici

Il tempo degli amori disordinati

Quando il conte Alfonso Scaramuzza da Broni le forzò le gambe facendola sanguinare, Caterina de Medici non aveva ancora compiuto tredici anni. Forse ne dimostrava di più: c’era qualcosa nel suo portamento, un muoversi protervo, un incendio negli occhi, una grazia dei gesti che tradivano la donna nella bambina. Forse, quel nobile di campagna non si sarebbe perdonato se si fosse lasciato scappare l’occasione d’infoltire la lista delle sue prede. Oppure, per naturale cattiveria, gli piacque l’idea di prendersi una che avrebbe potuto sposare bene. Caterina era figlia di un maestro di scuola, sapeva leggere e scrivere e, alla fine del Cinquecento nel Ducato di Milano, questa era una dote che un sensale avrebbe saputo come spendere.
Doveva essere graziosa Caterina, se il conte non si accontentò di averle rubato il futuro ma continuò ad abusare di lei, picchiandola quando cercava di rifiutarsi. La trovò graziosa di sicuro il piacentino Bernardino Zagalia, detto Pinotto, che qualche mese dopo la prese in moglie e la portò dal paesino di Broni a Pavia con il proposito di cederla ad altri e cavarci così da vivere.
Quando, trent’anni dopo, Ludovico Melzi la querela come strega al capitano di giustizia, le è rimasto poco di quella grazia adolescenziale, soltanto una certa malizia sorretta da una sensualità e da un’intelligenza caparbie.
È il 26 dicembre del 1616 e Ludovico si è alzato di buon’ora, è uscito di casa in Santa Maria Secreta, ha attraversato a passo lesto il Cordusio, gettato un’occhiata veloce ai lavori della Veneranda Fabbrica del Duomo dove, finiti il coro, gli amboni e gli altari, ci si dedica all’arricchimento della facciata con statue e riccioli barocchi, ed è giunto al nuovo Palazzo del capitano di giustizia, sede del tribunale milanese. Varcata la soglia a doppio colonnato, unica frivola concessione nell’austera facciata disegnata dall’ingegnere militare Pietro Antonio Barca, Ludovico entra nell’ufficio del capitano Carlo Besozzi, giudice criminale di Milano con autorità sui casi in cui è prevista la pena capitale.
«Da due mesi e mezzo» esordisce burocratico «il signor senatore mio padre soffre di una grave malattia: non può mangiare, ha continui dolori di stomaco e una forte acidità. Per quanti rimedi gli siano stati dati, nulla è servito contro questo male, che non presenta attacchi di febbre ed è sconosciuto ai medici. Grazie a Dio, però, si è scoperto che causa della malattia è un maleficio fattogli da una serva di casa, Caterina, che abbiamo saputo essere strega: da quattordici anni ha commercio carnale con il diavolo ed è strega professa».
Ha ventidue anni Ludovico, il viso magro e un naso adunco che potrebbe farlo apparire torvo se non fosse smorzato dagli occhi miti e sagaci. Nel riassunto manoscritto del processo a Caterina de Medici, stilato probabilmente qualche anno dopo i fatti, è presentato come “il giureconsulto collegiato Ludovico Melzi, figlio del molto onorato senatore Luigi Melzi”. In realtà, nel dicembre del 1616, Ludovico è ancora uno studente: si laureerà in Diritto civile e canonico all’Università di Pavia il 13 giugno del 1617 e sarà accolto nel dicembre dello stesso anno nel collegio dei nobili giureconsulti. Il redattore del documento non esita però ad anticipare i tempi e conferirgli così maggior lustro. Secondogenito di tredici figli (la morte del fratello maggiore, Francesco, nel 1630, lo farà diventare capofamiglia), Ludovico è spavaldo, sa il fatto suo e non ha dubbi: il capitano di giustizia accoglierà senza problemi la querela perché lui ha già messo insieme tutto quel che serve per istruire il processo; ha fatto indagini, interrogatori, perquisizioni, ha richiesto perizie e convocato esperti, medici, esorcisti. Il sospetto che il giudice possa non gradire l’interferenza e non apprezzare quel lavoro poliziesco, frettoloso e indubbiamente di parte, non lo sfiora nemmeno.
Sarà molto meno audace una decina d’anni più tardi, quando in veste di vicario di provvisione dovrà affrontare, incolpevole, la rabbia affamata dei milanesi durante la sommossa di San Martino. Mentre la folla preme minacciosa alle porte di casa sua, “il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta; da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di furibondi; sentì le voci che chiedevano la sua morte; e più smarrito che mai, si ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato, stava attento, attento, se mai il funesto rumore si affievolisse, se il tumulto s’acquietasse un poco; ma sentendo invece il muggito alzarsi più feroce e più rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta”1. Risarcito un anno più tardi per il danno subito, con una somma di trecento scudi di sei lire l’uno, nonostante la reputazione un po’ ammaccata, Ludovico riprenderà la carriera pubblica: sarà vicario generale, avvocato fiscale, questore del magistrato ordinario, capitano di giustizia, primo vicario del podestà e luogotenente regio. Uomo assennato e politico accorto, metterà al mondo diciassette figli e morirà a cinquantacinque anni. Ma in quell’ultimo scampolo del 1616, travolto dall’entusiasmo investigativo, parla con fin troppo fervore. Il capitano Besozzi, al suo secondo mandato da giudice criminale, lo ascolta condiscendente.
«Alcuni giorni fa» continua Ludovico, «il capitano Vacallo, che era nostro ospite a Milano, vide Caterina e ci disse che avevamo in casa la peggior strega che si potesse trovare; lui stesso era stato da lei maleficiato quando l’aveva a servizio; che chiedessimo pure conferma al cavalier Andrea Cavagnolo. Ma il cavaliere si trovava fuori Milano e intanto mio padre continuava a peggiorare e si vedeva mancargli la carne di dosso».
Perché il capitano Vacallo sia così sicuro della colpevolezza di Caterina de Medici lo racconta lui stesso al giudice qualche ora dopo. Vacallo è un uomo di mezza età (ha superato la quarantina) e di mestiere incerto: porta il titolo di capitano ma non si ha notizia dell’esercito nelle cui fila avrebbe militato, né delle battaglie cui avrebbe preso parte. Libertino, facile nel cedere alla violenza, scaltro e superstizioso, Vacallo si era tenuto in casa per qualche tempo una bella ragazza che aveva la metà dei suoi anni, Caterinetta da Varese. Quando Caterina de Medici fu assunta come fantesca, Caterinetta divideva il letto con il capitano, aveva fatto venire a vivere con sé la madre Isabetta, e si comportava da moglie. E, dopo un po’, di moglie vuole anche i diritti: pretende le nozze riparatorie. Il capitano tergiversa, prende tempo, cerca scappatoie e si arrabbia ogni giorno di più. È invaghito di Caterinetta, non vuole rinunciare a quel corpo generoso anche se la relazione rischia di mettere in pericolo il suo buon nome. Una debolezza che lo indispone, tanto da fargli pensare che questo legame, passionale e ossessivo, non sia farina del suo sacco bensì opera del demonio. Si convince che le “male donne” – Caterinetta, Isabetta e Caterina – l’abbiano affatturato per tenerlo legato. E, dovendo partire per ragioni di servizio, prova a giocare d’astuzia.
«Madonna Isabetta» il tono è da supplica, «io sono maleficiato da vostra figlia, vi prego, aiutatemi; lasciate che parta per la Spagna, non rovinate il mio futuro. Al ritorno la sposerò. Nel frattempo prendete dal mio scrittoio i soldi che volete». Spera così di ingannarla e di farsi liberare dal maleficio. Isabetta si mostra condiscendente e gli augura buon viaggio, ma non fa alcun cenno a incantamenti e fatture. Sempre più invaghito, invischiato in quel rapporto di cui comincia a sentire il peso, Vacallo si convince: c’è qualche dannata stregoneria dietro la sua infatuazione, qualcosa che lo ubriaca, lo stordisce, gli toglie la libertà di decidere della sua vita. Allora chiede consiglio a chi ritiene debba saperne più di lui di arti diaboliche e intrighi: due preti, padre Scipione Carera e padre Albertino, e un imbroglione, Gerolamo Homati, noto in città per aver svuotato le casse pubbliche mentre ricopriva la carica di tesoriere. I tre agiscono rapidamente e sono drastici: si precipitano a casa sua e portano via Caterinetta.
Vacallo si dispera o, almeno, così racconta al giudice. Uscito indenne da una situazione scomoda, nega ogni sua partecipazione volontaria, esagerando l’incantamento amoroso.
«Morii quasi di spavento, fui preso dai tremori e dalla passione. Gridavo, mi sembrava che mi si fosse strappato il cuore e penai tutta la notte».
Il giorno dopo, Vacallo va dal curato di San Giovanni Laterano e gli racconta tutta la storia. Il curato sentenzia che “è malamente maleficiato”. A nulla servono le letture delle formule di rito e gli esorcismi. A nulla serve la perquisizione in casa di Vacallo e il ritrovamento delle prove, le “molte porcherie” e, sopra tutte, una: un filo che ha le misure del capo del capitano interrotto da tre nodi, uno stretto, uno normale e uno allentato. Fortunatamente, ché se fosse stato stretto anche quello, per Vacallo non ci sarebbe stato scampo: avrebbe dovuto sposare Caterinetta o morire.
«E veramente mi sembrava» asserisce con magistrale enfasi, quasi nuovamente scosso dai tremori di quella notte «che se avessi avuto il mondo da una parte e Caterinetta dall’altra, avrei preso lei e lasciato tutto il mondo».
Caterinetta però non c’è più. Padre Carera, padre Albertino e Gerolamo Homati l’hanno rinchiusa in un rifugio. Una delle tante case “per donne traviate e zitelle pericolanti” che affollano Milano. Luoghi di reclusione nati per arginare una peste crescente: l’amore disordinato.
Sorti a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, erano efficienti e specializzati, ciascuno pensato per un peculiare tipo di peccatrice e di classe sociale. Seguivano dettami rigidi, dalle regole di comportamento all’obbligo del vestito monastico2. C’erano la “Casa delle povere convertite di S. Valeria” per donne depravate e pubbliche meretrici, accolte gratuitamente, e la “Casa delle monache rimesse di S. Maria Egiziaca del Crocifisso” per fanciulle e adulte dalla vita licenziosa, ma paganti perché di famiglia agiata. In Porta Nuova si trovava il “Pio luogo del soccorso” per donne perdute, gravemente minacciate da seduttori, maritate con problemi coniugali, mentre in via San Zeno sorgeva la “Casa di S. Maddalena” ovvero il “Deposito” per i casi urgenti: le traviate di ogni ordine sociale, ancora senza collocazione ma che non potevano essere lasciate in libertà, trovavano qui temporaneo alloggio.
Nel 1609 il cardinale Federico Borromeo istituì il “Ricovero della Madonna del Rifugio” per “ragazze in procinto di perdere l’onestà o che, avendola perduta, volevano rimettersi sulla buona strada”. Il cardinale avrebbe voluto anche un reclusorio per streghe, ove confinare, dopo che avessero scontato la loro condanna, quelle che non erano finite sul rogo. Fece raccogliere i fondi, 3252 lire imperiali, e trovò il luogo adatto, la Torre dell’Imperatore vicino al Molino delle Armi, ma il progetto non andò mai in porto.
Traviate o pericolanti, meretrici o streghe, licenziose o in crisi coniugale, nel Ducato di Milano ai primi del Seicento, le donne sono da rinchiudere. Se non nei rifugi, nelle salde istituzioni del matrimonio e del convento.
Da altre segregate, di nobile lignaggio, arrivano le prove che inchiodano Caterina de Medici. Suor Francesca Isabella e suor Anna Maria, al secolo Margherita e Faustina Melzi, monache a San Bernardino, destino comune delle donne di famiglia (le altre sorelle, Caterina, Serafina, Giulia e Lucrezia erano finite a Santa Marta) offrono il loro aiuto al fratello Ludovico. Hanno venticinque e diciassette anni, le ragazze Melzi, e sono fiere del loro convento: a Milano è ritenuto esemplare per disciplina e obbedienza al punto che vi vengono spedite, di tanto in tanto, altre monache perché imparino come ci si comporta. Conoscono le insidie del mondo e le arti che le donne scellerate e dissolute usano per traviare i galantuomini. Chiedono di avere i cuscini del letto del padre: sanno bene, loro, come si fa a scovare il corpo del reato, ciò che trasforma un sospetto in delitto. Esaminati i guanciali, ecco spuntare “tre cuori con diversi nodi di refe” che stringono capelli di donna, legnetti, carbone. Vengono portati di corsa al curato di San Giovanni Laterano, quello che aveva tentato, invano, di aiutare Vacallo e che ora è al capezzale del senatore.
«Sono malefici, opera di strega» strepita il curato, lo sguardo feroce. Si scaglia sui groppi, cerca di disfarli, ma i nodi stretti e fitti non cedono. Allora prende un braciere e li butta nel fuoco. Poi guarda, con orrore, uno dei cuori schizzare via, fuori dalle fiamme, e riprendere forma. Lo ricaccia dentro e lo tiene fermo con un ferro finché non brucia. Luigi Melzi è pallido, sudato. Geme tenendosi il ventre scosso da fitte sempre più lancinanti. Poi, cullato dalle litanie dell’esorcista, gli occhi piantati sul mucchietto di cenere ormai spento, s’acquieta.

La cordicella di Satana

Tre cuori di refe e un mal di stomaco. Bastano a fare di Caterina una strega.
“Da tempo in qua è talmente cresciuto in questo Stato e particolarmente in questa città e ducato il numero di streghe e malefiche che da tutte le parti si sentono gravi delitti e lamenti di figlioli, donne uomini maleficiati in diverse maniere e fatti morire con arti e insidie diaboliche” scriveva furente il 29 giugno 1611 l’allora governatore di Milano Juan Velasco al conte Francesco De Castro, ambasciatore della Spagna presso il papa, sperando di ottenere mano libera per gestire i processi alle streghe senza che l’Inquisizione locale gli mettesse i bastoni tra le ruote.
I roghi si susseguivano.
“1599, 22 dicembre. Abbrucciata al Ponte Vetro Marta de Lomazzi, per strega, detenuta nelle carceri del signor Podestà.
“1603, 10 giugno, martedì. Condotta alla Vetra colla mitra in testa, ed ivi abbrucciata per strega Isabella d’Arienti, detta la Fabene, e fu condotta seco alla Gabbana la Montina ancor’essa per strega” annota il Registro delle sentenze capitali, piuttosto lacunoso per gli a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Parte prima Ducato di Milano e Mantova 1616-1617 Caterina de Medici
  6. Parte seconda IX Podesteria della Repubblica di Genova 1587-1589 Isotta Stella e le altre
  7. Parte terza Quattro vicariati 1715-1716 Maria Bertoletti Toldini
  8. Postilla
  9. Ringraziamenti
  10. Indice
  11. Scopri l'autore