Il naso di Dante
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Il naso di Dante

  1. 160 pagine
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Il naso di Dante

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Nell'estate del 1840, in una sala del palazzo del Bargello di Firenze, viene riportato alla luce il ritratto giovanile di Dante dipinto da Giotto. Qualche giorno dopo il ritrovamento, Seymour Kirkup, uno stravagante pittore inglese con la passione per lo spiritismo, corrompendo un guardiano, si fa rinchiudere nel Bargello, dove realizza una copia del Dante giottesco, che ha il naso aquilino ma dolce, non severo come quello che appare dalla presunta maschera mortuaria del Poeta. Resterà l'unica testimonianza dell'originale, perché il granduca di Toscana ordinerà un restauro maldestro dell'opera. Kirkup invia la copia al patriota e dantista italiano esule a Londra Gabriele Rossetti, primo sostenitore di un'interpretazione esoterica della Divina Commedia e della Vita Nova. Attenendosi all'interpretazione paterna, Dante Gabriel, il celebre esponente della Confraternita dei Preraffaelliti, non soltanto raffigurerà il Poeta con il giottesco naso «dolce», ma ne farà il depositario di una conoscenza superiore che si rifà alla tradizione dei trovatori, un «Fedele d'amore» legato all'eresia catara. A partire da quel momento, Dante diverrà l'oggetto delle più fantasiose – a detta degli studiosi ortodossi – interpretazioni, in una storia che si dipanerà in infiniti rivoli, e che Pier Luigi Vercesi ricostruisce in questo avvincente racconto che attinge a un nutrito materiale inedito: oltre duecento lettere scritte da Seymour Kirkup a un suo sodale milanese e datate «Firenze, via Ponte Vecchio 2», ovvero l'antica magione dei templari fiorentini.

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Informazioni

Editore
Neri Pozza
Anno
2018
ISBN
9788854518216

Il negromante

Riparati sui colli fiorentini per sfuggire al caldo opprimente della città, la notte esploravano il cielo salendo i gradini in legno della torretta di villa di Bellosguardo. Vi si godeva un’Orsa maggiore spettacolare ma nessuna stella cadente. Il giorno di San Lorenzo, tanto atteso, piovve ininterrottamente. L’abbassamento della temperatura compensò la delusione e, il giorno successivo, Nathaniel Hawthorne e sua moglie, godendo la frescura, fecero ritorno a Firenze.
Erano giunti in Italia all’inizio dell’anno, il 1858, dopo un lungo periodo trascorso a Liverpool come consoli degli Stati Uniti d’America. Visitata Roma, raggiunsero Firenze. In patria Hawthorne era una celebrità, almeno per la ristretta cerchia di lettori nel Nord del Paese. La sua Lettera scarlatta aveva venduto duemilacinquecento copie in pochi giorni e Herman Melville, lasciandosi trascinare dall’entusiasmo, lo aveva paragonato a William Shakespeare. I suoi racconti, profonde introspezioni sul peccato e sull’espiazione, stavano lasciando un segno profondo nella letteratura americana e anche nella sua vita privata. Come nel romanzo, lo scrittore marchiò con una lettera dell’alfabeto il senso di colpa provato per gli eccessi di un antenato: al suo cognome, Hathorne, aggiunse una “w” per prendere le distanze dall’avo che partecipò, nel Seicento, alla carneficina delle cosiddette Streghe di Salem.
Il 12 agosto, gli Hawthorne erano attesi da un uomo di cui avevano sentito parlare poche settimane prima, un inglese bizzarro, da molti anni fiorentino d’adozione. Prima di salire alla villa di Bellosguardo, il 16 luglio avevano visitato il Bargello. Nathaniel, affascinato dalla «grande corte interna di questo antico palazzo del Podestà», salì lo scalone di pietra fino a quando una grata di ferro gli sbarrò la strada. Non c’era nulla da vedere, spiegarono due funzionari in divisa, salvo una «vecchia cappella affrescata da Giotto». Per visitarla, occorreva prendere accordi con il custode, presente solo in alcuni giorni. Hawthorne, affaticato dal caldo, annotò nel diario: «Non mi è dispiaciuto sfuggire agli affreschi, anche se uno di questi è un ritratto di Dante».
Più del pittore, lo interessava il poeta, di cui si sentiva in qualche misura debitore. Nella colta, e folta, comunità anglosassone fiorentina, il Dante del Bargello era associato a un personaggio ormai appartato per certe sue stranezze, attribuibili forse alle frequentazioni giovanili, forse all’eccessivo amore per la poesia e i reperti di un passato oscuro riesumati dal Romanticismo. Robert Browning, l’inquilino di Casa Guidi, lo definiva «ingenuo» se sua moglie, la poetessa Elizabeth, ne prendeva le difese e, anzi, si mostrava propensa a prestargli fede. Per i fiorentini era “lo stregone inglese”: al primo sole si aggirava sui lungarni per asciugare le ossa impregnate d’umidità fluviale; portava un lungo mantello nero sulle spalle, sporco e trasandato, e uno scialle attorno al collo con ricamati, a colori vivaci, i segni dello zodiaco; l’abbondante barba copriva la cravatta alla Raffaello, in voga tra i pittori del tempo.
Seymour Stocker Kirkup aveva settant’anni. Il padre, importatore e intagliatore di diamanti a Londra, gli aveva generato una rendita annua di duecentocinquanta sterline, non moltissime ma sufficienti per consentirgli di condurre una vita da artista (e collezionista) senza troppi affanni. Nato nel 1788, nel 1809 cominciò a frequentare la Royal Academy e quel personaggio insofferente a ogni canone estetico dell’epoca che rispondeva al nome di William Blake; amicizia, a dire il vero, sconsigliabile per chi avesse l’intenzione di calcare le orme di Sir Joshua Reynolds, il pittore per antonomasia di un’Inghilterra non ancora preparata alle rivoluzioni cromatiche di William Turner. Di Blake divenne visitatore assiduo anche se, dopo la morte dell’artista visionario, Kirkup ammetterà di avere trascorso molte ore in sua compagnia semplicemente per sfidare le convenzioni, senza comprenderne realmente la grandezza: «All’epoca lo credevo pazzo, solo ora so di aver vissuto al fianco di un essere superiore». Non doveva essere facile, per un giovane pittore avviato a una brillante carriera – diploma con medaglia d’oro –, assecondare il temperamento di Blake, costantemente sospeso in un limbo custodito dalla moglie adorante, intenta a preparargli i colori e a schermirsi con i visitatori: «Mr Blake è di poca compagnia, lui è sempre in paradiso!»
Il 12 agosto, nel pomeriggio, accompagnati da Miss Isa Blagden, la castellana di villa di Bellosguardo, attraversarono il Ponte Vecchio. Kirkup abitava a una delle estremità, oltrarno, al numero 2. La sua casa, sospesa sul fiume, era un’antica magione dei cavalieri templari, sede della Cappella del Santo Sepolcro e già dimora di Ludovico Ariosto (è andata distrutta con tutte le case di Borgo San Jacopo nel bombardamento del 1943). Miss Blagden alimentava la curiosità degli Hawthorne descrivendo il personaggio come una sorta di negromante, superstite di un’antichità in cui viveva intrappolato, tra reperti e manoscritti, non facendo mistero dei suoi convegni con spiriti antichi evocati attraverso una medium. Pare dialogasse abitualmente con imperatori, artisti e poeti morti centinaia di anni addietro. In particolare, con il più grande dei fiorentini costretto a peregrinare in altre città italiane fino alla morte.
Salirono la scala buia e stretta; giunti a un pianerottolo, bussarono. Aprì il vecchio Kirkup. Aspettava la visita e si era appostato dietro alla porta abbigliato per l’occasione: quasi completamente sordo, dalle altre stanze raramente si accorgeva dei visitatori costretti a battere invano alla sua porta. Indossava una redingote blu fuori moda con il colletto di velluto, un panciotto striminzito e pantaloni stropicciati. Miss Blagden sorrise agli Hawthorne come per sollecitare comprensione per quel gentiluomo trasandato, basso di statura, viso pallido e avvizzito, barba di un bianco candido e capelli di «consistenza quasi setosa» – notò Hawthorne –, naso piccolo e rivolto all’insù «di tipo aristocratico inglese», occhi vivaci, sormontati da due sopracciglia arcuate, con una luce che li attraversava senza sosta, come se «qualcosa di selvaggio si agitasse dietro di loro». La vitalità dello sguardo dava effettivamente l’impressione di un essere abitato da una vena di pazzia. Le mani erano piccole, bianchissime; i modi garbati, da gentiluomo. Nonostante nulla sembrasse turbarlo, le sue dita tremavano, facendolo apparire nervoso. La sua sordità – scrisse Hawthorne – toglieva il piacere del colloquio perché si era continuamente costretti ad alzare il tono della voce sopra il livello ordinario, «cosa alquanto sgradevole».
Mentre leggo la descrizione che ne fa lo scrittore americano, osservo nei dettagli una fotografia di Kirkup scattata dai fratelli Alinari nel 1862. Seduto su una sedia Impero, veste la stessa redingote con il colletto di velluto, i pantaloni sono a quadri, all’inglese, il folto bianco che gli contorna il viso fa risaltare gli occhi vispi, quasi di sfida, incassati nelle arcate sopraccigliari. Non sapevo nulla di quest’uomo fino a due anni fa quando, casualmente, venni attratto nel suo mondo. Una mattina di maggio, nella Milano in cui vivo, inforcai la bicicletta per andare in un laboratorio di analisi dove avevo appuntamento per ordinari controlli medici. Ultimato il prelievo di sangue, ne approfittai per passare alla bancarella davanti al tribunale. Il libraio notò la mia delusione mentre scrutavo gli scaffali. «Giovine», disse, come credo apostrofi tutti i suoi clienti raramente sotto la cinquantina, «vediamo se ti interessano questi», e mi porse un plico con oltre duecento lettere fitte fitte scritte in inglese, salvo un paio in italiano; c’erano anche quattro fotografie. Le scorsi velocemente, maldisposto. Mi si accese l’interesse appena mi accorsi che quasi tutte, anzi tutte, parlavano di Dante non in maniera estemporanea o superficiale, bensì seguendo il filo di un dialogo a distanza, come se un maestro stesse dando risposte ai quesiti di un allievo. Ne scelsi una a caso: nel secondo foglio era riportato l’indirizzo di William Rossetti (56 Easton Square – London N.W.), figlio di Gabriele, poeta e patriota abruzzese esule a Londra, e fratello del pittore preraffaellita Dante Gabriel. Erano tutte firmate da tale Seymour Kirkup. Il libraio si affrettò a definirlo «un inglese che c’entra qualcosa con la scoperta di un ritratto di Dante a Firenze». Chiesi da dove venivano. Erano nell’archivio di Giovanni Antonio Maggi, filologo milanese della prima metà dell’Ottocento, curatore, tra l’altro, dell’opera omnia di Vincenzo Monti. Le lettere in inglese erano tra i documenti «meno interessanti» per i collezionisti, perché indirizzate al figlio Pietro Giuseppe, studioso di lingue orientali che, nel 1847, pubblicò racconti tratti dal Rāmāyaṇa e dal Mahābhārata e, nel 1854, sul Giornale dell’Imperial Regio Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti, un saggio dal titolo Di un verso della Comedia di Dante e della notizia che a’ suoi tempi si aveva delle lingue orientali. L’invocazione del gigante Nimrod a Virgilio nel verso 67 del canto XXXI dell’Inferno «Raphèl maì amècche zabì almi», sarebbe – secondo Maggi – una frase in arabo corrotta dai copisti: «Raph el mai amech zabi al-im», ovvero «Contra chi [vieni] all’acqua del Gigante, al profondo del Zabio?». Questo studio fu all’origine del rapporto epistolare con Kirkup.
Seymour Stocker Kirkup nella foto scattata nel 1862 dai Fratelli Alinari.
Seymour Stocker Kirkup nella foto scattata nel 1862 dai Fratelli Alinari.
Dopo qualche mese, ripresi in mano le lettere. All’inizio faticai a imboccare la giusta strada. Kirkup, come tutti i personaggi troppo in confidenza con Dante, era stato relegato nel girone dei fantasiosi se non in quello dei ciarlatani o dei “complottardi”. Sistemai la fotografia del vecchietto in un angolo della libreria, a fianco dei due ritratti giotteschi di Dante riprodotti dai Fratelli Alinari, curiosamente diversi tra loro pur essendo riferiti allo stesso affresco. In un paio di settimane mi ritrovai catapultato in un mondo che non era più la Firenze ottocentesca ma quella di oltre seicento anni prima: di Dante e del suo tempo; dei trovatori e della loro regina Eleonora d’Aquitania sulla strada di Gerusalemme al seguito del primo marito, il re di Francia; di una crociata, tutta cristiana, contro gli eretici albigesi e della loro fuga in Italia; del processo e del rogo dei templari, avvenuti mentre Dante componeva la Commedia, nella quale incontra Bernardo di Chiaravalle, estensore della loro regola, nell’empireo del Paradiso, mentre più di un papa si consuma tra le pene dell’inferno; di un linguaggio in codice con il quale gli eretici avrebbero continuato a trasmettersi conoscenze antiche e progetti utopistici per sfuggire ai ferri dell’Inquisizione; delle similitudini del viaggio dantesco con quello che fece, secoli prima, Maometto; infine, del destino dell’umanità, che si sarebbe compiuto quando la Croce e l’Aquila sarebbero giunte ognuna a svolgere il ruolo loro assegnato dal Creatore. Una spirale di interpretazioni che pongono Dante al centro di ipotesi plausibili e di fantasiosi misteri. Fu il Poeta stesso il primo a disseminare, tra le righe delle sue opere, indizi che sfidavano il lettore a cercarvi verità nascoste. Nel canto IX (61-63) dell’Inferno, sibillino scrisse: «O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani».
Dante visse in anni di terrore. Se la Commedia fosse stata presentata come il racconto di una conoscenza a cui era pervenuto grazie a una miracolosa visione, espediente utilizzato abitualmente dai teologi del tempo, si sarebbe consegnato, reo confesso d’eresia, all’Inquisizione, e la sua opera sarebbe stata bruciata, come accadde al De Monarchia. Quindi il poeta, indipendentemente dai segreti o dal progetto politico di cui era portatore, velò le sue parole prefigurandosi un alibi «poetico e fittivo», un po’ come oggi, facendo le debite proporzioni, si fa nei film e nei romanzi per aggirare eventuali querele.
Dopo di lui, ingarbugliarono ancor più i fili del discorso i grandi umanisti fiorentini, a partire da Giovanni Boccaccio, da iscriversi nell’albo d’onore della setta occulta dantesca, insieme a Francesco Petrarca, almeno secondo le teorie “complottarde”. Fu Boccaccio a individuare Bice (Beatrice) nella figura in carne e ossa della figlia di Folco Portinari, andata in moglie a Simone de’ Bardi, e a suggerire un apparente senso letterale alla Vita Nova e alla Commedia, salvo strizzare l’occhio alla sua “congrega” rappresentando Dante come «Minerva oscura», che nasconde, sotto la «mirabile soavità de’ profondissimi sensi», una verità che «ricrea e pasce gli solenni intelletti». Vennero poi Giovanni Mario Filelfo (cancellò del tutto la fisicità di Beatrice), Marsilio Ficino (lo volle neoplatonico), Pico della Mirandola (cabalista) e molti altri. Sandro Botticelli, cresciuto in ambiente esoterico, realizzò novantadue disegni per l’edizione della Commedia pubblicata nel 1481 da Niccolò della Magna con il commento di Cristoforo Landino, dove le tre cantiche sono rappresentate come un pellegrinaggio interiore: un viaggio iniziatico, nella sostanza.
Ma non bruciamo le tappe. Torniamo alla testimonianza di Hawthorne, talmente impressionato dall’incontro con Kirkup da inserirlo nel suo romanzo successivo, il Fauno di marmo (1860), pubblicato dopo il viaggio in Italia, nel quale racconta di misteriose presenze evocate da artisti durante una gita nel «regno dei morti», le catacombe romane. E torniamo alle lettere ritrovate, scritte in un periodo di sette anni, dal 14 novembre 1862 al 13 marzo 1870. Kirkup dialoga con un amico: gli confida episodi della sua vita, le sue frequentazioni, da Blake a John Keats, da Lord Byron a Edward John Trelawny; evoca le vicende dantesche che lo videro testimone negli oltre cinquant’anni vissuti a Firenze; gli svela di aver «fedelmente trascritto i dialoghi avuti con lo spirito di Dante» in otto quaderni; e gli racconta i retroscena della sua principale impresa, la scoperta del ritratto giovanile del Poeta dipinto da Giotto.
Kirkup era l’unico ad aver partecipato, nell’arco di due anni, alle esequie di un’epoca. Prima, nel febbraio del 1821, a Roma, alla sepoltura di Keats, il poeta romantico inglese per eccellenza, morto di tisi a ventisei anni dopo aver portato ai vertici più alti della lirica il contrasto tra ragione e sentimento, senza peraltro essere riconosciuto dalla critica dominante. Poi, nel 1822, con Byron, Trelawny e Leigh Hunt, alla pira, di fronte al mare di Viareggio, su cui vennero arsi i resti di Percy Bysshe Shelley restituiti dal mare. Kirkup conosceva Byron («L’ho incontrato la prima volta in San Pietro a Roma») e resterà amico di Trelawny per tutta la vita; stimava Shelley solo attraverso le opere. Alla notizia della sua tragica fine, raggiunse la spiaggia tirrenica in tempo per partecipare alla cerimonia pagana, divenuta un’icona del romanticismo nella rappresentazione immaginaria (le cose non andarono come dipinte nel quadro) di Louis-Édouard Fournier (1889).
Louis-Édouard Fournier, I funerali di Shelley, olio su tela, 1889.
Louis-Édouard Fournier, I funerali di Shelley, olio su tela, 1889.
Shelley avrebbe compiuto trent’anni il 4 agosto. Nel primo pomeriggio dell’8 luglio 1822 si imbarcò sulla goletta ufficialmente battezzata Don Juan, in onore di Byron, ma dal poeta chiamata Ariel. A bordo c’erano l’ex ufficiale di Marina britannico Edward E. Williams e il mozzo Charles Vivien; doveva imbarcarsi anche Trelawny, il battello di ronda, però, lo costrinse ad abbandonare l’imbarcazione perché non aveva l’autorizzazione alla navigazione. Non pioveva da settimane e a Livorno «si snodavano processioni di preti e religiosi» per invocare qualche goccia d’acqua. L’Ariel sciolse le vele all’una di pomeriggio, fino a scomparire nella foschia che celava l’orizzonte. Alle sei e mezzo, il cielo si oscurò quasi all’improvviso e il mare divenne color del piombo. I battelli dei pescatori si affrettarono a rientrare nel porto. Le grida e gli appelli furono presto smorzati da tuoni e lampi. La tempesta durò venti minuti. Poi, all’orizzonte, più nessuna traccia dell’Ariel.
Dalla torre del porto, l’ufficiale di turno riferì di averlo visto, l’ultima volta, a dieci miglia dalla costa. Un altro racconto riferisce di un capitano diretto a Livorno: rendendosi conto che la goletta non avrebbe retto l’urto delle onde, ordinò ai marinai di accostarsi e offrire ai passeggeri di salire sulla nave, ma «una voce stridula» rispose un deciso no. Stupito, il comandante continuò a scrutare l’Ariel con il cannocchiale. «Le onde erano ormai alte come montagne e un tremendo cavallone s’infranse sulla barca che viaggiava ancora a vele spiegate». Un sottufficiale, con il megafono, gridò loro di terzarolare per non perdere il controllo della barca e uno degli uomini fu visto «tentare di ridurre le vele, ma un altro lo afferrò per il braccio, come fosse in collera con lui».
Browning, amico di Shelley, definì il poeta: «Cieco per i suoi ideali». Più volte aveva immaginato di estinguersi tra i flutti del mare. Comunque sia andata, l’Ariel colò a picco e un paio di settimane dopo il mare restituì due corpi con il viso e le mani scarnificate dai pesci. Trelawny riconobbe Shelley: portava una giacca da studente, in una tasca aveva un libro di Eschilo, nell’altra le poesie di Keats, prese in prestito da Leigh Hunt, con il segno alla pagina dedicata a Lamia, «la bella di un demone, o un demone stesso».
I corpi, ricoperti di calce viva, vennero seppelliti sulla spiaggia. Mentre Byron e Hunt erano a Pisa incapaci di reagire, Trelawny concordò con le autorità toscane di riesumare i corpi e bruciarli (la legge sulla quarantena vietava le ordinarie sepolture). Da Livorno giunse una fornace di ferro e la mattina del 15 agosto (Kirkup si faceva strada tra la folla di curiosi e «signore elegantemente vestite») i corpi vennero dissotterrati. Byron vomitò e riuscì a raggiungere la riva solo con l’aiuto di Trelawny. Il mare era azzurro e quieto. All’orizzonte si scorgevano le isole della Gorgona, di Capraia e dell’Elba. Alle spalle una foresta di pini marittimi e lassù, in fondo, le creste di marmo delle Apuane. Venne appiccato il fuoco, Trelawny sparse incenso e sale, poi versò olio e vino sul corpo. Le fiamme divamparono. Hunt rimase sulla carrozza, Byron si spogliò e si gettò in mare, solo Trelawny continuò a fissare il corpo dell’amico fondersi nel rogo. Nelle sue memorie colse l’occasione per alimentare il mito romantico proprio e dell’amico defunto: «Mi sorprese vedere che il cuore era rimasto intatto. Nell’afferrare questa reliquia per cavarla dalla fornace ardente, mi bruciai terribilmente la mano, e se qualcuno mi avesse visto in quell’atto, sarei stato messo in quarantena». Mary, la moglie di Shelley, non partecipò alla cerimonia. A lei vennero consegnate due cassette, una con le ceneri e l’altra con alcuni resti incombusti (il cuore? Probabilmente frammenti del cranio e della mascella).
La venerazione per Shelley fece spendere a Kirkup una fortuna per acquistare la méridienne sulla quale il poeta riposava a San Terenzio, vicino a Lerici. Trelawny, dissacrante in ogni istante della sua esistenza, gli chiese se nutrisse la segreta speranza di evocarne lo spirito. Non ottenne risposta. Trelawny, come scrisse Shelley: «È come il sole nella prima giovinezza, bello e terribile». Una sola cosa non gli verrà perdonata dagli amici: aver raggiunto Byron sul cataletto di Missolungi, dove di lì a poco sarebbe morto, avergli sfilato la scarpa, e aver rivelato al mondo il famoso piede caprino che tanto influì sulla sua esistenza.
Kirkup, non serbandogli rancore, lo ritrasse vestito da corsaro, con la mano appoggiata alla scimitarra, il turbante in testa e un cipiglio feroce: poseur in spregio alla morale borghese, epigono dell’eroe senza briglie prima che i giovani puledri venissero addomesticati dall’epoca vittoriana. Con Byron visse l’esperienza greca, conclusasi, per lui, in maniera meno drammatica: sposò, pur avendo già moglie e figli in Inghilterra, la bellissima Tersitza, sorella dodicenne del partigiano Odysseus. Ne nacque una bambina, Zella. Tre anni dopo se la fece spedire a Firenze per consentire alla madre u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Il negromante
  6. Un Apollo con le fattezze di Dante
  7. Il carbonaro fuggiasco
  8. Una scoperta pericolosa
  9. Suite francese
  10. L’amore eretico
  11. Il cavaliere templare
  12. La Croce, l’Aquila e anche Maometto
  13. La nottola di Minerva
  14. Bibliografia essenziale
  15. Indice
  16. Scopri l'autore