1. SIAMO GLOBALI?
Anche se mai con l’intensità contemporanea, per molti aspetti la globalizzazione ha un’origine ed una genealogia molto remota che bisogna tenere in considerazione per poterla analizzare. La globalizzazione si manifesta oggi, però, in una varietà di aspetti che non procedono allo stesso ritmo. La globalizzazione economica e —specialmente— quella finanziaria e tecnologica (in particolar modo le T.I.C.) superano in qualità e quantità, ad esempio, la globalizzazione dei diritti e quella legata ad i rischi epidemiologici ed ambientali. Pur delineandosi all’orizzonte un pericoloso PU, la globalizzazione è più debole negli aspetti cognitivi, culturali e civilizzatori, e pure è molto limitata per ciò che riguarda la mobilità dei lavoratori, la vita sociale e politica, i diritti civili e la qualità della vita.
In generale, nessuno dubita ormai dell’onnipresente imposizione di uno stesso modello economico e tecnologico; ciò nonostante si lamenta una carenza di globalizzazione nella conoscenza umana o si teme la crescente uniformità globale di culture e civiltà. Più ambivalente è la reazione rispetto alla circolazione dei lavoratori e ai rischi ambientali, pur senza metterne in discussione l’impatto nella crescente globalizzazione. Allo stesso tempo si è enormemente esteso l’ideale utopico della necessaria convergenza globale sui temi essenziali della convivenza sociale, politica, dei diritti umani e della qualità di vita.
Vi è quindi una grande diversità di ritmi e di effetti in seno alla globalizzazione, e le reazioni provocate da ognuna di questi aspetti è solitamente molto differente. Proprio perché lo sviluppo raggiunto in ognuno delle sue sfaccettature è incomparabile con quello delle altre, dobbiamo specificare e puntualizzare in ogni caso a quale di queste facciamo riferimento.
Praticamente nessuno sembra contrario alla qualità della vita (sanità, scolarizzazione, diritti civili, ecc.) raggiunta dai Paesi più avanzati, né che questa si estenda ai Paesi più poveri. Ora, dato che questa globalizzazione è molto più arretrata rispetto a quella finanziaria, economica, tecnologica e dei rischi epidemici ed ambientali, la si dimentica costantemente, facendo risaltare invece altri aspetti negativi o pericolosi della globalizzazione.
Per questo, i nuovi movimenti sociali, critici su questi aspetti (nonostante ne difendano altri appena citati) sono denominati semplicemente come «alternativi» e «no-global». È facile capirne i motivi: gli effetti negativi della globalizzazione sembrano aver superato quelli positivi (che pure sono molto importanti) essendo oltretutto più visibili agli occhi della popolazione.
Come ha ben compreso Zygmunt Bauman (2003, p. 81), dobbiamo parlare di globalizzazione riferendoci «principalmente, agli effetti globali chiaramente indesiderati e imprevisti». Si tende a vedere la globalizzazione come un destino che ci è «caduto» addosso e del quale dobbiamo farci carico contro la nostra volontà, e non come il risultato della nostra azione collettiva nel mondo. Certamente la globalizzazione ci spaventa e ci disorienta perché —pur avendola costruita collettivamente— ancora «non abbiamo, né sappiamo con certezza assoluta come ottenere i mezzi per pianificare e realizzare azioni di portata globale» (Bauman, 2003, p. 81).
1.1. Umanizzare e «appropriarsi» della globalizzazione
Per ragioni che esporremo brevemente, dobbiamo desistere dal percepire la globalizzazione come qualcosa di alieno, imposto, disumano e incontrollabile. Al contrario, la si deve analizzare come uno degli effetti più generali dell’azione umana sul mondo, come qualcosa che noi abbiamo fatto e che quindi —in qualche modo— abbiamo voluto (seppur senza rendercene conto). La globalizzazione è qualcosa di umano (troppo umano, direbbe Nietzsche), gli esseri umani l’hanno creata e possono quindi cambiarla, reindirizzarla, trasformarla, o almeno, umanizzarne gli effetti.
Come si suol dire —ed è probabilmente vero— la globalizzazione è venuta per restare e il prezzo di un ritorno ad periodi storici di minor globalizzazione potrebbe essere immenso. Ora, forse ancor più alto potrebbe essere il prezzo di una globalizzazione non governata, che cresca senza una reale e cosciente guida umana, che si sviluppi in modo sproporzionato in alcuni aspetti (come abbiamo visto) mentre in altri rimanga praticamente inesistente.
Quindi e in definitiva: bisogna condurre coscientemente quest’opera congiunta dell’umanità qual è la globalizzazione, bisogna umanizzarla, renderla meno contundente per le persone che la vivono sulla propria pelle ed adattarla alle necessità umane. Per questo è necessario che l’umanità nel suo insieme si appropri coscientemente della globalizzazione che finora ha subito con assoluta incoscienza.
Sicuramente questo è un progetto con molte aspirazioni utopiche, ma è anche una necessità ineludibile. La globalizzazione attuale ha raggiunto livelli tali di sviluppo da richiedere più che mai una guida che la conduca coscientemente e ne prevenga gli effetti razionalmente.
La globalizzazione è un fenomeno molto antico (Osterhammel & Petersson, 2005 e Steger, 2003) le cui origini echeggiano nella storia. Steger (2003: 20 ss) dedica un capitolo al «periodo pre-storico» della globalizzazione che rimonterebbe tra i 10.000 e i 3.500 anni A.c. Detto ciò, non v’è dubbio che l’attuale globalizzazione abbia modificato profondamente la propria natura. Siamo entrati in uno stadio di cambiamenti accelerati, di contatti continui e praticamente istantanei; siamo entrati in quello che possiamo denominare «turboglobalizzazione».
Per questo scompaiono velocemente i limiti che —fino a poco tempo fa— mantenevano ancora ampie zone del mondo relativamente autonome o indipendenti le une dalle altre. La globalizzazione attuale ha reso le tradizionali frontiere geografiche molto meno importanti e stabili; lo stesso succede con le frontiere politiche degli Stati-Nazione, mentre le frontiere economiche sono, in molti casi, praticamente inefficaci. Certamente esse non sono scomparse del tutto, ma il loro impatto e la loro effettiva capacità di filtro si sono ridotte enormemente.
L’accelerata «turboglobalizzazione» avanza parallelamente, in alcuni aspetti, a quella che potremmo definire una «globalizzazione monadica», giacché per una certa élite mondiale sono ormai evaporate le distinzioni o diversificazioni interne. Queste élite sono ormai definite da un unico sistema, o un solo mondo, nel quale le distanze sono annullate. L’attuale globalizzazione non si limita più a connettere e mediare tra loro sottosistemi o «mondi» in gran parte indipendenti e con volontà e capacità autocratica. Con la velocità delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) il mondo si è convertito —virtualmente, e per un numero crescente di persone— in una «monade» unica. Internet incarna l’ideale di Mc Luhan (1989) del «villaggio globale» e, ancor di più, della globalizzazione monadica.
Ciononostante, anche nella virtualità monadica di Internet, la società attuale mantiene molteplici realtà nettamente divise e incatenate a stati di servitù sociale e politiche, ataviche e locali, ancora molto isolate e fossilizzate in dinamiche interne. In definitiva: ci siamo globalizzati però non necessariamente negli aspetti in cui la globalizzazione sarebbe più desiderabile. Paradossalmente ci troviamo in uno spiacevole punto intermedio: iperglobalizzati in aspetti forse non fondamentali, mentre al contrario continuiamo molto poco globalizzati (ipoglobalizzati) in quelli più necessari, vitali ed importanti.
Per ricondurre l’attuale situazione, paradossale e intermedia, è necessario che l’intera umanità si appropri coscientemente di questo potente e complesso processo qual è la globalizzazione. Si devono trovare i meccanismi per i quali la globalizzazione non fallisca proprio nelle sfide in cui la convergenza di tutta l’umanità è più necessaria: l’aspettativa e la qualità di vita, gli effettivi diritti civili e politici della popolazione, l’estensione della conoscenza e delle capacità vitali o sociali.
In definitiva, è necessario decidere con cognizione di causa quando e in quali termini seguire il cammino dell’assoluta e monadica globalizzazione omogeneizzatrice, anche quando si debba accettare il cosiddetto «Pensiero Unico» che sta emergendo nelle ultime decadi. Allo stesso tempo bisogna poter decidere come e quando mantenere una globalizzazione «arcipelago» che rispetti le ricchezze culturali e civilizzatrici umane, intrecciandole creativamente in linea con un dialogo tra civiltà che eviti l’orizzonte predetto da Huntington (2005).