Leadership e comunicazione.
Dal narcisismo di Donald Trump allo stare
nel mondo di Joe Biden
Anna Camaiti Hostert
Oracolo manuale ovvero
L’arte della prudenza (1647)
Aforisma 104
“Avere il polso dei ruoli”
(Baltasar Gracián)
Ve ne sono di vari: conoscerli è proprio dei maestri e richiede accortezza; alcuni vogliono coraggio, altri perspicacia. Son più facili o difficili da svolgere a seconda che dipendano dalla rettitudine o dall’abilità. Per i primi c’è bisogno solo di una buona indole, per i secondi non bastano tutta l’attenzione e la vigilanza. Faticosa occupazione governare gli uomini, soprattutto se pazzi o stupidi: doppia assennatezza occorre con chi non ne ha nessuna. Intollerabile il ruolo che richiede un solo uomo, a ore fisse, con incarico stabilito; meglio quelli che non annoiano, coniugando la serietà con la varietà, perché l’alternanza rigenera il gusto. I più autorevoli sono quelli che meno comportano dipendenza o più se ne distanziano; il peggiore quello che alla fine fa tremare di fronte al tribunale umano, e soprattutto a quello divino.
Per parlare dell’America di oggi e della nuova narrativa che la presidenza di Joe Biden ha introdotto nel paese, dopo l’era Trump e durante la pandemia, innanzi tutto è necessario chiarire quali siano gli strumenti di analisi con cui esaminare il presente, quale sia il punto di vista dal quale affrontare tale analisi e infine quale sia il sentire attraverso cui osservare i fenomeni in oggetto.
Potrei definire il mio approccio come l’anelito ad una partecipazione impartecipe, di loyoliana memoria, non perché manchi di empatia, ma perché cerca di superare la dimensione dell’io e quella, forse ancora troppo ristretta, del noi di una particolare comunità o società, in favore di quella di un “si” impersonale, basato su una differenza che include tutti e viene dal di fuori, dal mondo, dalla storia. Dovrebbe nascere dall’indifferenza nei confronti delle proprie passioni e dall’abbandono dell’affezione disordinata anche se le passioni per essere dominate ci devono essere. Ma, come specifica Mario Perniola, nel suo Del sentire cattolico. La forma culturale di una religione universale, proprio parlando di Ignazio di Loyola e della sospensione dell’immediatezza delle emozioni questo “non vuol dire affatto insensibilità… È la premessa fondamentale per essere mossi non dalle proprie passioni, dalla propria soggettività, ma da qualcosa che viene dal di fuori, che è altra ed estranea. Il movimento dell’anima è una condizione sine qua non dell’esercizio spirituale. L’esercizio spirituale è il contrario dell’immobilità: tuttavia l’anima deve essere mossa non più dalla propria identità naturale, ma da una differenza”1. Continua Perniola: “Ignazio pensa che l’operare, l’attività, l’azione storica non siano affatto il regno dell’identità, dell’omogeneità, del calcolo intellettuale, ma l’ambito della differenza, della novità, della creazione”2. Ed è proprio in questo richiamo all’azione che nasce dalla differenza, dall’estraneità del mondo, del reale, del movimento storico che trovo un’illuminazione nell’interpretare i fatti che ci si parano davanti e che solo così possono divenire uno stimolo al cambiamento per uscire dalla pandemia che ci ha colto tutti di sorpresa e imprigionato in una morsa d’acciaio dalla quale fatichiamo ad uscire senza ricadere nei vecchi errori.
Non c’è dubbio che Il Covid-19 oltre alle nostre vite, abbia modificato il nostro sguardo e ci costringa a un nuovo cominciamento, che, come scrive Antonio Spadaro, deve rimettere in primo piano il possibile, troppo spesso confinato nell’universo dell’utopia per riportarlo nel campo del reale. Viene in mente lo slogan surrealista e provocatorio degli studenti francesi del maggio ’68 “siamo realisti, chiediamo l’impossibile”, che rimandava a ciò che il mondo sarebbe potuto divenire se avesse cambiato radicalmente gli schemi e le abitudini entro cui tutti eravamo stati fino ad allora abituati a vivere. Quell’afflato utopico è, come si sa, andato perduto e questo ha fatto molto male alla società, aggravando problemi che già allora erano stati denunciati, ma mai risolti. Per questo, oggi più che mai, c’è bisogno di un nuovo slancio, di un nuovo inizio, di una nuova agency politica. E proprio sulla nascita, sul cominciamento, come categoria politica essenziale si sofferma Hannah Arendt che, dopo migliaia di anni in cui la filosofia ha flirtato con la morte, mette l’accento su questa categoria. Non è un caso che sia proprio una filosofa donna a farlo. Scrive Arendt in Vita Activa. La condizione umana: “Poiché l’azione è l’attività politica per eccellenza, la natalità e non la mortalità può essere la categoria centrale del pensiero politico in quanto questo si distingue dal pensiero metafisico”3. La nascita è dunque struttura ontologica dell’agire che dà fede e speranza non come attesa utopistica di un mondo migliore o perché ci impegniamo semplicemente per creare una nuova agency tattica, ma perché partiamo dal miracolo di essere nati, cioè da qualcosa che è successo in passato: avere avuto la vita. Solo partendo da questa considerazione basilare si può andare incontro al futuro. È l’immagine dell’angelo della storia di Walter Benjamin che rivolto indietro marcia in avanti verso il proprio destino. Partendo da lì allora è possibile un nuovo inizio che prenda vita in modo duraturo. Ma per fare questo oggi c’è bisogno, come scrive Stefano Gnasso, di un’estetica della durata, contro quella dell’effimero e di una nuova narrazione veramente autentica che abbandoni il narcisismo dell’io e “ci realizzi nella nostra dimensione sociale costitutiva”, che trova posto nel mondo. “Non contro il mondo. Solo così, in fondo, potremo dirci che noi non passeremo invano”. Una narrazione che sia “coerente con i nostri racconti identitari”, ma, aggiungerei, sempre meno basati su una logica dell’identità fissa, immobile e sempre più su quelli inclusivi della differenza che è invece fluida. E che dunque ci riporta con la sua osmosi nel mondo reale. Pertanto con lo sguardo di chi crede, per usare ancora le parole di Gnasso, come l’eroe situazionista, che la traiettoria non sia delineata, non sia definitiva e soprattutto, con quella sospensione loyoliana dalle affezioni disordinate che fa emergere la necessità di nuovi comportamenti etici ed estetici, guardo all’America di Biden, evidenziando come la sua nuova narrativa e il suo modo di comunicare possano indicare nuove direzioni concrete da imboccare, specie dopo la presidenza Trump e la paralisi della pandemia. Perché come scrive Carlotta Ventura siamo nella “Decade of Action” quella della fase “First Act, Then Talk”. È il momento di agire e di ri-cominciare. E poi di parlare.
Per fare ciò mi servirò dunque dello sguardo trasversale del sapere dei Visual Studies, quello sguardo che penetra nei crack e nelle contraddizioni delle immagini, cercando di far emergere ciò che non è immediatamente visibile per riportarlo nel campo dell’orizzonte visuale.
“La nostra vita ha luogo sullo schermo. La vita nei paesi industrializzati è sempre più vissuta sotto la costante sorveglianza delle telecamere: dagli schermi sull’autobus a quelli negli shopping malls, da quelli sulle autostrade o sui ponti a quelli accanto ai bancomat… L’esperienza umana è adesso più visuale e visualizzata di quanto lo sia mai stata nel passato: dalle immagini satellitari a quelle mediche delle sonde ecografiche che possono penetrare nel corpo umano. Nell’era degli schermi visuali il vostro punto di vista è cruciale”. Così si apriva Introduzione alla cultura visuale4 di Nicholas Mirzoeff, il libro che ha portato per primo all’attenzione l’importanza del visuale. Tale saggio ha definito negli spazi contraddittori dell’immagine, per sua natura non stabile, il luogo privilegiato di quella collocazione strategica del sapere che va sotto la denominazione di Visual Studies. Nella possibilità di decodificazione dell’immagine si situa il loro scopo principale in direzione della creazione di una nuova agency politica e sociale. Il loro principale obiettivo è quello, riposizionando il sapere, di far emergere la formazione di identità plurime, disseminate, in continua osmosi e trasformazione: esse vengono fatte ricomparire da una dimensione di invisibilità. La pletora delle immagini ci mette di fronte a un gap tra la ricchezza dell’esperienza visuale e la capacità di analizzarla. Il visuale disgrega e sfida ogni tentativo di definire la cultura in termini puramente linguistici. Il cuore degli studi visuali si trova dunque in uno spazio ibrido, contaminato o come lo definisce Homi Bhabha, uno dei più autorevoli esponenti del pensiero postcoloniale, nel suo I luoghi della cultura5, in una sorta di in betweeness da cui parlano tutti quei soggetti invisibili all’occhio maschile, occidentale e bianco. Questo non-place è abitato da coloro che provengono dalle minoranze di genere, etniche e religiose. La maggior parte di essi viene da quel mondo genericamente definito postcoloniale. Questi fantasmi parlano lingue diverse, vivono in luoghi diasporici, sono in prigione o in esilio, sono rifugiati, nomadi, migranti, transgender. Molti di questi outsider vengono da paesi che hanno pagato prezzi altissimi alla violenza del colonialismo, una violenza che le loro vite e le loro immagini globali ci restituiscono in tutta la loro drammaticità, riportandoli a galla, quegli orrori che hanno avuto luogo dall’inizio della modernità in poi e che oggi stanno sommergendo tutto l’Occidente. E proprio da un oggi che tenga conto di questi eventi traumatici bisogna ripartire.
In particolare la mia osservazione sulle trasformazioni epocali degli Stati Uniti si è concentrata in questi ultimi anni sulle immagini delle serie televisive che, regine incontrastate della cultura popolare, ancor più dell’informazione televisiva, del cinema e dei social media, sono state capaci di tastare il polso al paese e catturarne realmente lo spirito e le contraddizioni interne.
Durante la pandemia che forzatamente ci ha costretto a casa, siamo stati di fronte allo schermo televisivo sicuramente più tempo di quanto lo fossimo mai stati in precedenza. E dunque ancora di più esse sono state un contatto con il mondo e con la società intorno a noi. Le nuove piattaforme televisive, da Netflix ad Amazon Prime, a Hulu, ad Apple Tv, hanno prodotto in questi anni e ancor di più durante la pandemia molte serie televisive di grande qualità, surclassando le case di produzione cinematografiche. Ci hanno messo di fronte a storie di realismo e di fantasia di enorme impatto emotivo e sociale. E hanno costretto gli americani a guardarsi dentro come non avevano mai fatto in precedenza. Esse hanno mostrato un paese sofferente, incapace di recuperare quell’entusiasmo e quella positività che lo hanno sempre caratterizzato. Così ci sono state serie cult che hanno anticipato l’avvento di Donald Trump e perfino le sue tentazioni antidemocratiche a partire da Mad Men, a Breaking Bad, a House of Cards, per finire a The Plo...