Il battesimo in Marco
Gesù viene
Cerchiamo di comprendere qualcosa di più allargando la nostra visuale ad altri libri del Nuovo Testamento, e andiamo a leggere appunto il racconto del battesimo in Marco. Marco e Giovanni sono il primo e l’ultimo dei Vangeli in ordine cronologico, distanti una quarantina di anni tra di loro. In questo periodo di tempo la visione teologica della Chiesa nascente è progredita con passi da gigante, riflessi in Giovanni, eppure questi due Vangeli rimangono i più simili tra di loro, in quanto entrambi sono essenzialmente cristologici. Questo significa che, per questi due evangelisti, Cristo è la sola nostra fonte di salvezza, che è un dono destinato a chi ha fede in lui e a lui si affida.
Luca e Matteo invece, pur considerando la salvezza come dono e la fede indispensabile, sono maggiormente preoccupati al riguardo del comportamento dell’uomo nella vita quotidiana, ossia delle opere, e ci offrono esempi e spiegazioni perché ci sia chiaro quanto noi dobbiamo fare se vogliamo ottenere la salvezza.
Data quindi questa visione del tutto cristocentrica tra loro condivisa, per capire certi brani di Giovanni è opportuno ricorrere a Marco, e viceversa.
Abbiamo sentito innumerevoli commenti sull’episodio del battesimo in Marco, che è la sintesi di tutto il suo Vangelo, ma riprendiamone l’esame, per cercare di vederlo nella prospettiva del brano di Giovanni appena esaminato.
Dunque Gesù viene - verbo usato nella Bibbia per la venuta del Messia tanto atteso - al Giordano per essere accomunato ai peccatori, e questo ci turba quasi quanto il Dio di amore che manda il Figlio a morire.
Cosa lo avrebbe atteso al termine della sua vita pubblica non era forse così chiaro sino a quel momento nemmeno a Gesù, vero uomo che ha dovuto arrivare poco a poco a comprendere appieno il disegno del Padre su di lui.
Gesù aveva intuito che doveva recarsi al Giordano e vi è andato, e ora il Padre gli rivela chi Egli veramente sia e quale missione gli venga affidata.
Contrariamente a come ci viene presentato il battesimo negli altri Vangeli, Marco ce lo narra come un evento che nessuno dei presenti nota, e il suo significato rimane quindi segreto per tutti coloro che vi assistono, restando strettamente confinato nell’intimità del rapporto tra il Padre e il Figlio. Nessuno dei presenti vede, sente o si accorge di niente, neppure il Battista: solo Gesù sente le parole che il Padre gli rivolge al Giordano e vede squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere.
Il Padre pronuncia delle parole che affidano a Gesù una missione, un mandato, e quindi, come avviene nei racconti biblici di conferimento di un mandato, Egli riceve pure un segno di conferma da parte del Padre: il dono dello Spirito. Il battesimo è infatti un episodio di chiamata, e a tutti i chiamati Dio offre sempre un segno perché sia loro chiaro che non sono vittime di allucinazioni o di auto suggestione, ma che si tratta di una vera, e del tutto inaspettata, chiamata di Dio.
Anche a Maria, che riceve l’annuncio di chiamata alla maternità, Dio offre un segno, un segno che Maria si affretta ad accogliere e verificare: la gravidanza di Elisabetta, fino a quel momento tenuta da quest’ultima strettamente segreta, non rivelata a nessuno, proprio perché doveva essere una sorpresa per Maria quando si fosse recata da lei.
Le parole del Padre. Il Messia
Cosa dice il Padre a Gesù sulla riva del Giordano, subito dopo il battesimo?
«E venne una voce dal cielo:
“Tu sei il Figlio mio, l’amato:
in te ho posto il mio compiacimento”». (Mc 1,11)
«Tu sei il Figlio mio» sono parole fuorvianti per chi non ha una conoscenza abbastanza approfondita dell’Antico Testamento. Qui non si tratta di una rivelazione o una conferma fatta dal Padre a Gesù della sua origine divina: i biblisti pensano che il Padre gli abbia concesso di rendersi sempre in qualche modo conto, pur se in maniera umana, del rapporto filiale che lo legava a Dio. Che significano allora?
Per comprenderne il significato occorre fare un grosso passo indietro nel tempo, sino alla caduta dei due regni tra i quali si era diviso il popolo ebraico (regno di Israele e regno di Giuda) dopo la morte di Salomone. La caduta di tali regni e le successive deportazioni sono una grande sciagura che mette a dura prova la fede, ma il popolo non si perde d’animo e crede alle parole dei profeti, i quali annunciano che l’amore di Dio non è per questo venuto meno.
Vi sarà un termine alle sofferenze, in quanto Dio intende dare al suo popolo una salvezza ancor più grande e completa di quella perduta: l’instaurazione di un regno assolutamente perfetto, sul cui trono sarebbe salito un re dal comportamento del tutto esemplare che avrebbe attirato per sempre i favori di Dio su di sé e sui suoi sudditi.
Questo re, che porterà pace, giustizia e prosperità durature, viene detto Messia. Messia in ebraico significa unto e conseguentemente designa anche i re, in quanto essi venivano unti con un apposito olio profumato prima di ricevere l’investitura ufficiale e sedere sul trono. Vi erano però altri termini più correnti per riferirsi a un re, direi persino più eleganti, tra cui figlio di Dio, più adatti all’uso in un contesto diplomatico.
Il popolo ebraico, che precedentemente non aveva mai avuto dei re, giunto il momento opportuno, ha copiato in tutto il modello di regalità dei popoli vicini, compreso per l’appunto l’espressione figlio di Dio per indicare il sovrano.
Per i pagani aveva un significato più stringente, mentre per gli ebrei il re, pur rimanendo della stessa natura umana dei suoi sudditi, era comunque più vicino a Dio di ogni altro uomo, in quanto scelto personalmente da lui non solo per governare il suo popolo, ma anche per occuparsi del tempio e organizzarvi il culto.
Il Salmo che leggiamo oggi in chiave prettamente cristologica e alla luce della nostra fede
«Voglio annunciare il decreto del Signore.
Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio,
io oggi ti ho generato”». (Sal 2,7)
era, con ogni probabilità, la formula che pronunciava nel tempio il sacerdote regale, parlando in nome di Dio, per designare ufficialmente un re come tale prima che egli si sedesse sul trono. Ricordiamo ancora:
«A te il principato
nel giorno della tua potenza tra santi splendori;
dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato». (Sal 110,3)
Sino a qui non abbiamo difficoltà ad accettare quanto avvenuto, perché l’episodio del battesimo sembra iniziare nel migliore dei modi: Dio stesso, senza bisogno di intermediari terrestri, designa Gesù come re, il Messia tanto atteso chiamandolo figlio. Ne consegue quindi che gli promette implicitamente il trono e gli affida il compito di governare il suo popolo, restaurando il regno che un tempo appartenne a Davide.
Le parole del Padre. Il nuovo Isacco
Accenniamo con poche parole al significato del segno/dono dello Spirito che Gesù riceve.
Fare il re comportandosi secondo le attese di Dio, estremamente esigente a questo riguardo, era tutt’altro che semplice: allora si credeva che Dio desse al suo designato la forza sufficiente per ben esercitare il suo mandato; la forza dello spirito (minuscolo: potenza di Dio).
Al momento dell’unzione regale, Dio infondeva nel sovrano un po’ del suo spirito, ossia della sua forza, della sua potenza. Gesù che vede, ossia sente in qualche modo, scendere su di lui lo Spirito, riceve quindi il segno essenziale per confermargli la sua regalità che fra un istante gli sarebbe stata annunciata e la forza per condurre a termine la sua missione.
Ma qui la situazione si rovescia completamente a causa di una parola: l’amato. In edizioni precedenti della Bibbia CEI viene invece data come traduzione il diletto o altri termini analoghi.
Chi non ha sufficiente conoscenza dell’Antico Testamento la interpreta come una semplice dichiarazione di amore del Padre per Gesù. Siamo distanti mille miglia dal vero significato. Per comprenderlo dobbiamo nuovamente fare una digressione. Moltissimi ebrei, per mille motivi, inizialmente dovuti a eventi storici, ma poi anche per scelta dovuta a convenienza economica, vivevano all’estero ormai da parecchie generazioni, conservando integra la loro fede. Erano gli ebrei della diaspora, che parlavano la lingua dei paesi dove vivevano e non erano più in grado di comprendere la lingua ebraica nella quale la Bibbia era stata scritta, pur continuando a professare la fede dei loro padri. Si era quindi resa necessaria la traduzione della Bibbia in greco, in modo che tutti potessero comprenderne il significato, in quanto ai tempi di Gesù, e anche prima, la lingua greca era l’equivalente di ciò che è l’inglese oggi, ossia il linguaggio con cui comunicavano tra loro persone di lingua madre differente, usato anche nella diplomazia e nel commercio.
La Bibbia greca tutti erano in grado di comprenderla, qualsiasi lingua parlassero, anche se gli ebrei rimasti nella loro terra, ed erano ormai una netta minoranza, continuavano a usare la Bibbia ebraica, pur se con il supporto di traduzioni in aramaico.
Al di là delle leggende fiorite attorno alla versione greca della Bibbia (detta dei Settanta) i traduttori, pur restando fedeli al testo ebraico, ne avevano in qualche caso cambiato alcune parole per aderire maggiormente al contesto biblico generale, o vi avevano apportato aggiunte, sempre sotto l’ispirazione divina.
È il caso della parola amato, o diletto, che venne usat...