Il terzo inconscio
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Il terzo inconscio

La psicosfera nell'era virale

  1. 360 pagine
  2. Italian
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Il terzo inconscio

La psicosfera nell'era virale

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L'inconscio non conosce il tempo e la storia, ma la sua forma e il suo ruolo nella vita delle persone e nella società dipendono dalla "psicosfera", che in ogni epoca ha una sua distinta specificità. All'inizio del Novecento, Freud individuò nell'inconscio "l'intima terra straniera", il lato oscuro della struttura ben ordinata di progresso e razionalità. Negli anni '70 Deleuze e Guattari allargarono l'orizzonte e descrissero l'inconscio come un laboratorio, una forza desiderante che produce incessantemente immaginazione. Oggi siamo entrati in una terza era, "la terra straniera non è più intima, ma orribilmente pubblica": l'inconscio, nota Bifo, è stato "esternalizzato e trascinato dal turbine rizomatico dell'esperienza della rete digitale, fino al punto dell'esplosione psicotica". Parallelamente, l'irruzione del virus nel panorama globale e l'esaurimento delle risorse psichiche e fisiche dovuto all'invecchiamento impongono all'inconscio individuale e collettivo di fare i conti con la prospettiva radicale dell'estinzione umana. In questa impetuosa e generosa esplorazione delle contraddizioni del presente Franco Bifo Berardi indaga la terza fase della psicosfera e individua le sfide che con urgenza estrema si pongono alle nostre possibilità di azione e alla nostra immaginazione.

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Informazioni

Editore
nottetempo
Anno
2022
ISBN
9788874529667

Terza parte

Divenire nulla

14. Miti della fine

Apocalisse senza escaton

Nel 1977 uscì la prima edizione del libro che Ernesto de Martino stava scrivendo quando la morte lo colse.
Il titolo era La fine del mondo.
Nel 2019 è uscita la nuova edizione di quel libro, molto ampliata, a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio.
Lessi quel libro per la prima volta quando, dopo il ’77, ebbi l’intuizione di una fine del mondo forse solo perché il mio mondo stava crollando, con la crisi terminale dei movimenti egualitari, con il ripresentarsi del nazismo sotto spoglie neoliberali.
Il libro di de Martino è uscito in una nuova edizione proprio alla vigilia del contagio che annuncia la fine del mondo su scala più vasta, e sono stato obbligato a paragonare il sentimento attuale di apocalisse al sentimento che era emerso nel movimento del ’77 a cui presi parte. In quell’anno qualcuno scrisse su un muro di Bologna “A poco a poco apocalisse”: era una promessa di vendetta. A Londra i musicisti punk gridavano “No Future”: era l’intuizione di un’imminente catastrofe sociale.
Quarant’anni dopo la vendetta è arrivata e il vuoto di futuro è pienamente visibile perché i vulcani della natura hanno preso a eruttare e la mente globale sembra disintegrarsi.
Nel suo libro incompiuto de Martino distingue anzitutto due modalità immaginarie dell’apocalisse, entrambe convergenti in una percezione psicotica del venir meno del mondo.
Una modalità dell’apocalisse, come quella cristiana, rimanda a una prospettiva escatologica: rivelazione, giudizio, salvezza. Anche l’apocalisse comunista contiene una prospettiva escatologica: il superamento hegeliano, la realizzazione disalienata di una società finalmente umana.
Ma c’è invece un’apocalisse senza escaton, come quella in cui siamo sprofondati nel XXI secolo.
Naturalmente de Martino spiega prima di tutto cosa sia il “mondo” di cui è possibile immaginare la fine.
Per un altro verso il mondo può finire, e non tanto nel senso naturalistico di una catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra, ma proprio nel senso che l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la stessa possibilità della cultura. Se dovessi individuare la nostra epoca nel suo carattere fondamentale, direi che essa vive come forse non è mai accaduto nella storia nella drammatica consapevolezza di questo deve e di questo può: nell’alternativa che il mondo deve continuare ma che può finire1.
Con la parola “mondo” de Martino intende dunque un contesto culturale condiviso che ci fornisce le chiavi per dare senso all’esperienza collettiva. In questo senso la fine del mondo consiste nel dissolversi di un contesto capace di dare significato all’esperienza.
Considerata in questi termini, la fine del mondo è un’esperienza che si è ripetuta molte volte nel corso della storia umana.
La scomparsa di culture come quella amerindiana, per esempio, è un caso che rientra pienamente nella definizione demartiniana di fine del mondo.
Il movimento Extinction Rebellion, che è dapprima cresciuto in Gran Bretagna e di lì si è esteso in diversi paesi, soprattutto del nord, ha discusso questa problematica della pluralità delle fini del mondo. Attivisti afroamericani, infatti, hanno attaccato la prospettiva di XR come eurocentrica, sostenendo che i popoli del Sud del mondo, quelli africani per esempio, hanno già dovuto affrontare il problema dell’estinzione quando la colonizzazione ha distrutto il contesto entro il quale la loro esperienza condivisa acquisiva senso.
La fine del mondo di cui parla de Martino, dunque, corrisponde a un dissolversi del contesto che attribuisce senso all’esperienza. Ma questo processo può svolgersi, e si svolge effettivamente, in una direzione duplice: da una parte si manifesta come erompere del panico, del marasma, come moltiplicazione dei conflitti identitari, e quindi come dissoluzione di un orizzonte universalistico. Ma si manifesta anche, in maniera del tutto contrastante (eppure coesistente), come instaurazione di una meta-macchina, di una determinazione automatica del senso, cioè nella formazione dell’automa cognitivo globale, nell’inserimento di automatismi artificiali intelligenti nelle connessioni della comunicazione sociale.
Il caos e l’automa convivono nell’orizzonte del tempo pandemico: l’automazione dei processi comunicativi e biologici mira a introdurre un ordine che renda possibile la sopravvivenza e la riproduzione.
Commentando un brano di Lévi-Strauss (“Io vedo evolvere l’umanità non nel senso di una liberazione, ma di un asservimento progressivo e sempre più completo al determinismo naturale”2), de Martino scrive:
Qui ci sembra che l’ideale scientifico di considerare gli uomini come formiche si trasformi nel messaggio profetico che l’umanità si ridurrà inevitabilmente a una sorta di formicaio: nel messaggio cioè che l’umanità avanza fatalmente verso una apocalisse senza escaton3.
Come conseguenza di questi due processi l’automazione del cervello connettivo e l’esplosione psicotica del cervello emozionale possiamo oggi trovare le linee di una fine del mondo senza escaton.
Nella vita religiosa dell’umanità il tema della fine del mondo appare in un contesto variamente escatologico, e cioè o come periodica palingenesi cosmica o come riscatto definitivo dei mali inerenti alla esistenza mondana []. In contrasto con questa prospettiva escatologica, l’attuale congiuntura culturale dell’occidente conosce il tema della fine al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile: una catastrofe, che narra con meticolosa e talora ossessiva accuratezza il disfarsi del configurato, l’estraniarsi del domestico, lo spaesarsi dell’appaesato, il perder di senso del significante, l’inoperabilità dell’operabile4.

La premonizione

Gli anni in cui de Martino scriveva della fine del mondo furono per me gli anni della premonizione: un vasto e multiforme movimento culturale, che coinvolgeva la politica, la musica, l’arte, gli stili di vita, si trasformò in un presentimento collettivo della dissoluzione della promessa moderna, della prospettiva progressiva.
In Italia la premonizione si manifestò nel movimento che si può considerare come l’ultimo movimento rivoluzionario proletario del XX secolo e che culminò nel 1977 in un’insurrezione incomprensibile per la ragione politica.
Nello stesso anno Margaret Thatcher avviò la sua conquista del potere e pose le basi di un nuovo regime fondato sullo smantellamento della solidarietà sociale.
“Non c’è una cosa definibile come società, ci sono solo degli individui, delle famiglie e delle imprese che competono fra loro per il profitto”5, dichiarò in un’intervista la premier britannica: quella dichiarazione segnala un progetto di distruzione della civiltà sociale che era stata costruita durante il secolo delle lotte operaie e della democrazia, e segna anche la fine dell’universalismo umanistico.
In quegli anni per la prima volta soggiornai per lungo tempo in Nord America e conobbi l’esacerbata sensibilità apocalittica della cultura no wave americana, dell’arte e della musica di ispirazione punk e delle mitologie della fine che permeavano la cultura di quel paese, in particolare della California. Quella sensibilità culturale percepiva il ronzio della meta-macchina, delle nuove tecnologie che annunciavano la morte dell’uomo alfabetico.
In due maniere diverse Herbert Marcuse e Marshall McLuhan possono considerarsi gli annunciatori filosofici della premonizione, e la voce di Jim Morrison è la colonna sonora di quel sentimento:
This is the end, beautiful friend
This is the end, my only friend
The end of our elaborate plans
The end of everything that stands
The end
No safety or surprise
Non solo la meta-macchina ronzava nelle nostre teste, ma pulsava nelle vene: la meta-macchina eroina, sostanza che parla attraverso il corpo.
And all the children are insane
All the children are insane
Waiting for the summer rain6
Quando il ’68 globale fu sconfitto l’eroina divenne l’annunciatore della fine.
Il ronzio della meta-macchina segnalava il lento dissolversi del mondo che avevamo conosciuto nell’epoca moderna.
Il mondo, totalità dei segni culturalmente decodificabili, si avvicina alla fine quando perdiamo la capacità di decifrare il significato e la coerenza di quei segni. A quel punto la meta-macchina (tecnologie elettroniche capaci di mutare il funzionamento della mente, droghe organiche capaci di mutare le modalità di elaborazione della mente) comincia a dire il mondo, mentre il mondo non può dire la meta-macchina. A quel punto la significazione e l’operabilità procedono solo dall’esterno del campo culturale, da una tecnologia semiotica che non può essere controllata, ma che ti controlla.

15. L’invecchiamento in questione

Tecno-immortalità

Negli ultimi anni, man mano che l’età media si allungava e la popolazione anziana si espandeva e acquistava rilevanza economica, è fiorita una letteratura che tesse le lodi dell’età argentea. Toni dolciastri e retorica pubblicitaria il cui scopo è mettere le mani sulle pensioni degli anziani, eredi del trentennio socialdemocratico che va esaurendosi e lascia questo residuo esercito di arzilli vecchietti con il portafoglio relativamente ben fornito, se paragonato ai salari miserabili della generazione giovane precaria. Mentre figli e nipoti si arrabattano occupazioni precarie con salari miseri e umiliazioni sociali quotidiane, una larga parte degli anziani è riuscita a garantirsi una somma di denaro mensile finché dura, finché lo Stato pagatore non collasserà, finché il sistema bancario non imporrà allo Stato di ridurre le pensioni per pagare il debito, come già sta facendo.
Ecco allora che le grandi aziende farmacologiche, turistiche e assicurative ci invitano a goderci la vecchiaia come una nuova esperienza non meno avventurosa delle precedenti.
L’essenza della comunicazione pubblicitaria consiste nello sfruttare le debolezze dei diversi gruppi sociali cui si rivolge: ai giovani precari vengono garantiti un’esistenza tranquilla e un matrimonio felice se oggi contraggono un mutuo che invece poi gli rovinerà la vita per i prossimi vent’anni. E ai vecchi vengono proposte vacanze in luoghi affollati di catarrosi pensionati come loro.
A questa versione rassicurante e un po’ zuccherosa preferisco le considerazioni sulfuree di Márai:
Tutto ciò cui giurammo fedeltà non esiste più, i nostri amici sono tutti morti, oppure se ne sono andati, hanno rinunciato a tutto quello che giurammo di difendere. Esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire. Quel mondo è morto. Quello nuovo non fa più per me. È tutto ciò che posso dire1.
Capisco che per gli anziani immaginari, tonici e sorridenti cui si rivolge la pubblicità le parole di Márai non significano niente: gli anziani della pubblicità non hanno mai giurato fedeltà a nulla, i loro amici non sono morti perché non ne hanno mai avuti, non hanno mai promesso di difendere alcunché, e nessun mondo per cui valesse la pena vivere e morire è mai esistito per loro.
Quella parte della mia generazione che ha vissuto l’esperienza della rivolta anticapitalista non corrisponde affatto a questo stereotipo pubblicitario: noi avevamo amici che oggi stanno morendo. Noi abbiamo giurato fedeltà a un mondo ugualitario che è stato sconfitto. Per nessuna ragione scambieremo la nostra sconfitta e la nostra disperazione con la rassicurazione pubblicitaria.
Certo, non tutti i miei coetanei ricordano quel che sono stati, e molti si vergognano di aver avuto una vita: a questi si rivolgono assicuratori pubblicitari e banchieri. Poi ci sono i vecchi eroici trans-umanisti di cui parla Ray Kurzweil, quelli che intendono investire il loro denaro nel business dell’immortalità: farmacologia, biotecnologie, genetica, e magari una villa in Nuova Zelanda, ultimo rifugio per scappare all’apocalisse climatica.
Nel Nord del mondo la tecno-cancellazione dell’invecchiamento è un business in crescita, e la medicina ha fatto progressi straordinari in questo campo.
Ma il problema è: fin dove può spingersi la riparazione tecno-farmacologica, la protesizzazione dell’organo, l’inserzione dell’inorganico nel continuum biologico?
La risposta di Kurzweil è chiara: non ci sono limiti, al punto che potremo parlare di singolarità umana artificiale, non appena la tecnica sarà in grado di riparare e sostituire ogni organo e ogni funzione del corpo umano, compreso il cervello.
Non stento a credere che la scienza medica e in particolare la biogenetica siano destinate a realizzare progressi importanti, forse anche sconvolgenti nel campo delle tecniche di ringiovanimento. D’altra parte c’è un forte interesse economico legato alla prospettiva del prolungamento del tempo di vita, anche se solo i ricchi possono permettersi quel tipo di terapie che già sono disponibili per rallentare o rimandare i processi di invecchiamento. Una piccola parte della razza bianca può già permettersi l’accesso a queste tecniche e terapie, e intorno a questa piccola minoranza cresce un’ideologia dell’immortalità che ha i suoi rappresentanti nei teorici della singolarità trans-umana.
Ma la ragione per cui non mi piace per niente questa cultura del prolungamento artificiale della vita biologica non è solo il suo carattere classista, bensì il riduzionismo biologico che essa comporta. L’idea che l’esistenza sia riducibile all’efficienza della macchina biologica trascura completamente il carattere essenzialmente psichico del te...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nota dell'editore
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Indice
  6. Introduzione
  7. Prima parte: Sulla soglia
  8. Seconda parte: La psicosfera imminente
  9. Terza parte: Divenire nulla
  10. Note