Il ritorno del pendolo
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Il ritorno del pendolo

Psicoanalisi e futuro del mondo liquido

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Il ritorno del pendolo

Psicoanalisi e futuro del mondo liquido

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La storia della civiltà è la storia della contraddizione tra il desiderio di soddisfare gli istinti più profondi e la necessità di tutelarsi dal loro potenziale distruttivo: libertà e sicurezza sono esigenze tanto inconciliabili quanto impensabili l'una senza l'altra. L'oscillare della collettività umana tra i due estremi in cerca di un equilibrio impossibile è ciò che chiamiamo «progresso». Un moto non rettilineo e non orientato, ma ricorsivo, incerto e infinito, esattamente com'è, e deve essere, ogni autentica ricerca della verità.Questo saggio propone quattro scritti di Zygmunt Bauman corredati dai commenti del celebre psicoanalista Gustavo Dessal: un dialogo che, partendo dall'eredità di Freud, si muove nell'intersezione fra psicoanalisi e sociologia, offrendo un esempio di quanto possa essere produttiva la dialettica tra discipline per analizzare e restituire le aporie del mondo contemporaneo.

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Informazioni

Editore
Il Margine
Anno
2022
ISBN
9791259820501
Argomento
Didattica

Cercare nella moderna Atene una risposta alla domanda dell’antica Gerusalemme1,2

Zygmunt Bauman
Il saggio Teologia politica (concepito da Carl Schmitt nel 1922 e rielaborato dieci anni più tardi, senza omettere il minimo dettaglio, in un volume dal titolo Il concetto di «politico») si proponeva di rappresentare per la teoria politica ciò che il Libro di Giobbe era stato per il giudaismo, e attraverso il giudaismo per il cristianesimo.
L’opera era intesa, pensata e scritta per dare risposta a una delle più pressanti domande fra quelle «nate a Gerusalemme»: il tipo di domanda che la più pregnante delle idee concepite a Gerusalemme, quella di un mondo monocentrico, governato da un solo e unico Dio, onnipresente e onnipotente, creatore delle stelle, delle montagne e dei mari, giudice e salvatore di tutta la Terra e di tutta l’umanità, non avrebbe potuto non ispirare. Una domanda che non sarebbe potuta affiorare in nessun altro luogo, e tanto meno tra gli ateniesi, i quali vivevano in un mondo affollato da grandi e piccole divinità appartenenti a nazioni grandi e piccole; né avrebbe potuto emergere tra gli antichi ebrei dal «Dio tribale», per lo meno non fino a quando il loro Dio, al pari del Dio dei Greci, aveva condiviso la Terra (e persino Canaan, la loro minuscola patria) con gli innumerevoli altri dèi appartenenti a tribù ostili. Gli ebrei in ogni caso non si sarebbero posti quella domanda nemmeno se il loro Dio avesse rivendicato il dominio sull’intero pianeta, dal momento che il Libro di Giobbe ne prefigurava la risposta prima ancora che la domanda fosse stata interamente formulata e potesse iniziare ad assillarli sul serio. Quella risposta, vale la pena ricordarlo, non avrebbe potuto essere più semplice: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore».
Una simile risposta non esigeva discussioni né dibattiti, ma solo una rassegnata obbedienza. Non aveva bisogno di un commento erudito per risultare convincente, né di profuse note a piè di pagina. La domanda a cui l’idea di un solo e unico Dio avrebbe condotto sarebbe potuta emergere solo dopo che Gesù, profeta ebreo, avesse dichiarato che il Dio onnipotente era anche il Dio dell’Amore, e dopo che il suo discepolo san Paolo avesse portato la Lieta Novella ad Atene — un luogo in cui le domande, una volta sollevate, sembravano destinate a trovare una risposta coerente con le leggi della logica. Il fatto che la risposta non fosse a portata di mano testimonia l’accoglienza piuttosto tiepida che gli ateniesi riservarono a san Paolo, e spiega perché, nel rivolgersi «ai greci», egli preferisse inviare le proprie missive ai Corinzi, ben meno sofisticati sotto il profilo filosofico.
Nel mondo dei Greci (un mondo policentrico, come i mondi degli altri innumerevoli popoli politeistici) c’era un Dio distinto per ogni proposito e ogni esperienza umana, così come per ogni situazione e occasione, e dunque c’era una risposta per ogni interrogativo passato e futuro — e soprattutto una spiegazione per qualsiasi incongruenza nelle azioni divine passate e future, e una ricetta per improvvisare nuove spiegazioni (ancorché a priori sensate) nel caso emergessero nuove incongruenze. Per prevenire, o per lo meno neutralizzare retroattivamente lo scetticismo della logica umana, erano necessarie molte divinità, animate da finalità contraddittorie, al pari degli uomini; divinità perennemente in lite, che sabotavano la buona riuscita delle imprese degli altri dèi, si tenevano il broncio e si vendicavano degli scherzi e degli oltraggi subiti proprio come accade tra gli esseri umani; dèi le cui saette potevano essere deviate dai bersagli desiderati tramite il lancio di altre saette, scoccate dagli archi di altri arcieri, anch’essi divini. Gli dèi potevano mantenere la propria autorità divina e assicurarsi che rimanesse indiscussa e incontestata solo congiuntamente, facendo fronte comune con il loro gruppo, il più possibile numeroso — così che il motivo per cui un dio o una dea aveva mancato di mantenere le proprie promesse divine potesse sempre essere attribuito a una maledizione parimenti divina di un altro fra i residenti dell’affollato pantheon, in modo che nessuno potesse prendersela con una divinità in quanto tale, o che la sua sommaria saggezza potesse essere messa in discussione.
Tutte queste comode interpretazioni dell’irritante casualità che governava la distribuzione della grazia e della riprovazione divine — casualità palesemente sorda e immune alla devozione e all’empietà, ai meriti e ai peccati degli esseri umani — divennero inutili una volta che l’idea stessa di pantheon fu negata, e che il Dio «unico e solo» ebbe ascritto a sé il dominio assoluto e indivisibile, totale e indiscusso, screditando qualsiasi altra divinità (gli dèi tribali, «parziali» o «specializzati») in quanto falsa e ingannatrice, e facendo di tutto per dimostrarne l’impotenza. Assumendo il potere assoluto e la sovranità piena e indivisibile dell’universo, il Dio della religione monoteista si assunse l’assoluta responsabilità della buona e della cattiva sorte che il destino riservava agli uomini — della cattiva stella dei miseri come (per dirla con Goethe) della «lunga serie di belle giornate» di coloro che sono baciati dalla fortuna. Potere assoluto significa «nessuna scusa». Il Dio premuroso e protettivo non ha rivali, ma non dispone neppure di una spiegazione sensata e tanto meno ovvia da offrire per le sciagure che tormentano gli esseri umani a lui assoggettati.
Nel Libro di Giobbe, la spaventosa casualità della Natura viene presentata come espressione della spaventosa arbitrarietà del suo Sovrano; vi si proclama che «Dio non è tenuto a rendere conto delle proprie azioni ai suoi devoti, né tanto meno a scusarsi con loro»: come affermò lapidariamente Leszek Kołakowski, «Dio non ci deve nulla» (né giustizia, né una scusa per l’assenza di giustizia). L’onnipotenza di Dio contempla la facoltà di cambiare idea, dire una cosa e farne un’altra; implica la volubilità e il capriccio, il potere di compiere miracoli e ignorare la logica della necessità alla quale gli esseri a Lui inferiori non hanno altra scelta che sottostare. Dio può colpire a suo piacimento, e se si trattiene dal farlo è solo perché tale è la sua (buona, benevola, amorevole) volontà. L’idea che gli esseri umani possano controllare l’agire di Dio tramite qualsiasi mezzo, compresi quelli che Dio stesso raccomanda (la totale e incondizionata sottomissione, una docile e devota obbedienza ai suoi ordini e la perfetta aderenza alla legge divina), è una bestemmia.
In radicale contrapposizione con la Natura muta e insensibile che Egli governa, incarna e personifica, Dio parla e impartisce ordini. Si accorge se i suoi ordini vengono o no eseguiti, premia gli obbedienti e punisce gli indocili. Egli non è indifferente a ciò che gli uomini, deboli come sono, pensano e fanno. Tuttavia, al pari della Natura muta e insensibile, non è vincolato da ciò che gli uomini pensano o fanno. Può fare eccezioni, e la logica della coerenza e dell’universalità non gli impedisce di esercitare quella Divina prerogativa (miracolo significa in definitiva la violazione di una regola, l’elusione della coerenza e dell’universalità). L’obbligo incondizionato di una norma è infatti, per definizione, inconciliabile con l’autentica sovranità — con il potere assoluto di decidere. Per essere assoluto, il potere deve includere il diritto e la capacità di trascurare, sospendere o abolire la norma, ovvero commettere atti che agli occhi di chi li riceve appaiono come miracoli. L’idea di Schmitt della sovranità di colui che governa tende a imprimere una concezione prestabilita dell’ordine divino sulla matrice dell’ordine legislativo dello Stato: «Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. […] L’ordinamento giuridico si basa su una decisione e non su una norma».3 Il potere di esentare è al tempo stesso fondamento dell’assoluto potere di Dio e della continua, incurabile paura umana che deriva dall’insicurezza — paura che nessuna devozione basta a dissipare e a cancellare per sempre. E questo, secondo Schmitt, è esattamente ciò che accade quando il sovrano umano non ha le mani legate da norme. In virtù di tale potere di esenzione, gli esseri umani sono vulnerabili e incerti quanto lo erano all’epoca che precedette la Legge. Adesso però la loro paura non li indurrà a nutrire colpevoli dubbi sull’onnipotenza della sovranità. Al contrario, renderà quell’onnipotenza ancora più ovvia e imperiosa.
E questo ci conduce al tema della paura cosmica, o primigenia, che secondo Michail Bachtin è all’origine tanto della religione quanto della politica.
Cercando di svelare il mistero del potere terreno e fin troppo umano, Michail Bachtin, uno dei più grandi filosofi russi del secolo scorso, prese le mosse da una descrizione del timore cosmico: quell’emozione umana, fin troppo umana, suscitata dalla celestiale, ultraterrena magnificenza dell’universo; quel tipo di paura che precede il potere creato dall’uomo e che ne costituisce il fondamento, il prototipo e l’ispirazione.4 Il timore cosmico, nelle parole di Bachtin, è la trepidazione che si prova di fronte all’incommensurabilmente grande e all’incommensurabilmente potente: di fronte alla volta stellata, alla massa imponente delle montagne, al mare e alla paura degli sconvolgimenti cosmici e delle catastrofi naturali. In fondo al timore cosmico troviamo, è bene ricordarlo, l’irrilevanza dell’essere spaventati, pallidi ed effimeri di fronte all’enormità dell’eterno universo; l’assoluta debolezza, l’incapacità di resistere, la vulnerabilità del corpo umano inguaribilmente mortale, fragile e indifeso che la vista della «volta stellata» e della «massa imponente delle montagne» rivelano; ma anche la consapevolezza che non è nel potere degli uomini afferrare, comprendere o elaborare mentalmente quella potenza che si manifesta nella pura e semplice grandiosità dell’universo. Quell’universo sfugge a ogni comprensione. Le sue intenzioni sono sconosciute, le sue future mosse imprevedibili e, anche se indovinate, irresistibili. Quand’anche la sua azione seguisse una logica o un piano predefiniti, questi si sottrarrebbero alla capacità umana di comprendere. E così il timore cosmico è anche il terrore dell’ignoto e di ciò che è indomito: in breve, il terrore dell’incertezza.
Vulnerabilità e incertezza sono anche le due qualità della condizione umana che forgiano l’altra paura, la paura ufficiale cioè la paura del potere umano, creato e detenuto dagli uomini. La paura ufficiale è costruita sul modello del potere sovrumano così come è riflesso (o piuttosto emanato) dal timore cosmico.
Bachtin suggerisce che il timore cosmico venga usato da tutti i sistemi religiosi. L’immagine di Dio, sovrano supremo dell’universo e dei suoi abitanti, è modellata sulla base della familiare paura della vulnerabilità e della trepidazione di fronte all’impenetrabile e irreparabile incertezza. Tuttavia, una volta che se ne sia impossessata una dottrina religiosa, il timore cosmico primitivo e primordiale subisce una fatidica trasformazione.
Nella sua forma originaria e spontanea, è la paura di una forza anonima e muta. L’universo fa paura, ma non parla. Non esige nulla. Non fornisce istruzioni su come procedere, non è minimamente interessato a ciò che gli esseri umani, spaventati e vulnerabili, fanno o si esimono dal fare. Non possono essergli rivolte adulazioni o offese né offerti sacrifici. Parlare alla volta stellata, alle montagne o al mare e tentare di ingraziarsi i loro favori non ha alcun senso. Non possono sentirci, e anche se potessero non ci ascolterebbero, e tanto meno ci risponderebbero. È inutile provare a guadagnarsi il loro perdono o la loro benevolenza. Né, malgrado tutta la loro terrificante potenza, potrebbero esaudire i desideri dei penitenti, pur ammesso che avessero a cuore la loro condizione; a far loro difetto non sono solo gli occhi, le orecchie, le menti e i cuori, ma anche la capacità di scegliere e il potere della discrezionalità, e quindi anche la capacità di agire secondo la propria volontà e accelerare o rallentare, interrompere o capovolgere il corso degli eventi. Le loro mosse sono imperscrutabili ai piccoli esseri umani, ma anche a loro stessi. «Sono», come dichiara il Dio della Bibbia all’inizio della sua conversazione con Mosè, «ciò che sono». Punto. Senza tuttavia affermare nemmeno questo.
«Io sono Colui che sono» sono le prime parole che la fonte sovrumana di paura cosmica pronuncia in quel memorabile incontro avvenuto in cima al monte Sinai. Una volta che queste parole furono pronunciate, proprio per il fatto che erano state pronunciate, quella fonte sovrumana cessò di essere anonima, benché si astenesse dal presentarsi per nome e rimanesse al di là del controllo e della comprensione umana. Gli esseri umani rimasero vulnerabili e incerti quanto prima, e dunque terrorizzati — ma qualcosa di enormemente importante era accaduto alla fonte della loro paura cosmica: essa aveva smesso di essere sorda e muta, aveva acquisito il controllo della propria condotta.
Da quel momento in poi poteva essere benigna o crudele, poteva premiare o punire. Poteva avanzare delle richieste e subordinare la propria condotta al fatto che queste venissero o meno onorate. Non solo poteva parlare, ma era possibile anche parlarle, compiacerla o irritarla.
E così, curiosamente, quella straordinaria trasformazione dell’universo in Dio, che trasformò degli esseri terrorizzati in schiavi degli ordini divini, ebbe anche, indirettamente, l’effetto di rafforzare gli uomini. Da quel momento in poi gli esseri umani dovettero essere docili, sottomessi e condiscendenti — ma potevano anche, almeno in teoria, fare qualcosa per assicurarsi di uscire illesi dalle terribili catastrofi da loro temute, o per propiziarsi ciò che desideravano. Poterono godere di notti senza incubi e piene di speranza in cambio di giorni pieni di acquiescenza. «Vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte […] tutto il monte tremava molto», tanto che «tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore». Ma tra tutto quel tumulto e quel frastuono agghiacciante e prodigioso si udì la voce di Dio: «Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli». «E tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!”» (Esodo, 19). Ovviamente soddisfatto da quella promessa d’incrollabile obbedienza, Dio promise al popolo che l’avrebbe condotto in una «terra dove scorrono latte e miele» (Esodo, 33), e gli propose un patto: voi mi ascolterete e mi obbedirete, e io vi renderò felici. Un accordo solenne è un contratto che, una volta accettato, vincola entrambe le parti. O almeno questo è ciò che dovrebbe accadere, e che ci si aspetta che accada.
Tuttavia, vediamo che, se questo racconto ha lo scopo di descrivere in che modo il timore cosmico si sia trasformato in timore «ufficiale» (come suggerisce Bachtin), esso non è soddisfacente, o forse appare incompleto. Vi si legge che gli uomini giunsero a essere limitati in ogni loro azione da un codice di leggi (che fu spiegato loro nei minimi particolari dopo che essi ebbero firmato un assegno in bianco in cui promettevano di obbedire ai desideri di Dio, qualunque essi fossero), ma suggerisce anche che Dio, una volta trasformato nella fonte di timore «ufficiale», si ritrovava a sua volta limitato e vincolato dalla pietà per il suo popolo. E quindi, paradossalmente, che Dio (o la Natura che Egli rappresentava) aveva acquisito volontà e discrezionalità per poi cederle a sua volta! Con il semplice espediente di essere docile, il popolo poteva obbligare Dio a dimostrarsi benevolo. Gli uomini acquisirono così un rimedio evidente (si sarebbe tentati di dire: infallibile) contro la vulnerabilità, liberandosi dello spettro dell’incertezza — o almeno tenendolo a distanza di sicurezza. A patto di osservare la Legge alla lettera, non sarebbero stati più né vulnerabili né tormentati dall’incertezza. Senza vulnerabilità e incertezza, però, non vi sarebbe stata la paura; e senza la paura non vi sarebbe stato il potere. Se è vincolato a delle norme, Dio onnipotente rischia di diventare una contradictio in adiecto — una contraddizione in termini —, un Dio senza poteri. Ma un Dio senza poteri non è una forza sulla quale si possa fare affidamento per adempiere alla promessa di rendere il popolo sua «proprietà particolare tra tutti i popoli». Era quel paradosso che il Libro di Giobbe era determinato a risolvere.
Violando sfacciatamente una dopo l’altra le norme dell’alleanza di Dio con la sua «proprietà particolare», la storia di Giobbe appariva del tutto incomprensibile ai cittadini di uno Stato moderno concepito come un Rechtsstaat. Risultava infatti inconciliabile con ciò che essi erano stati abituati a ritenere il significato degli obblighi contrattuali che ispiravano la loro vita, e quindi anche con l’a...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Libertà e sicurezza: un caso di Hassliebe
  3. Commento a Libertà e sicurezza: un caso di Hassliebe
  4. La civiltà freudiana rivisitata – oppure: Che cosa si crede sia successo al principio di realtà?
  5. Commento a La civiltà freudiana rivisitata – oppure: Che cosa si crede sia successo al principio di realtà?
  6. Il dibattito su Freud (risposta agli psicoanalisti)
  7. Commento a Il dibattito su Freud (risposta agli psicoanalisti)
  8. Cercare nella moderna Atene una risposta alla domanda dell’antica Gerusalemme,
  9. Commento a Cercare nella moderna Atene una risposta alla domanda dell’antica Gerusalemme
  10. Corrispondenza
  11. Bibliografia