L'amore dell'ultimo milionario
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L'amore dell'ultimo milionario

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Ultimo romanzo di Fitzgerald, rimasto incompiuto e tradotto per il cinema da Elia Kazan, L'amore dell'ultimo milionario è la storia di un produttore cinematografico di Hollywood, Monroe Stahr (interpretato nel film da Robert De Niro), figura dichiaratamente ispirata a quella di Irving Thalberg, golden boy della mgm dal 1924 al 1936. Stahr è un self-made man autoritario ma illuminato, geniale nelle intuizioni che guidano il suo lavoro. Ha la patina dell'eroe romantico, non tanto per il modo in cui sopporta il peso delle responsabilità, quanto perché una malattia fatale allunga su di lui l'ombra della tragedia. Vedovo della diva Minna Davis, s'innamora di una donna umile e sensuale, mentre sullo sfondo della depressione economica combatte una battaglia cruenta per il controllo della casa di produzione in cui lavora. Già pubblicato con il titolo Gli ultimi fuochi, in una versione infedele e rabberciata, L'amore dell'ultimo milionario viene ora riproposto con la cura filologica e il rigore che spettano di diritto a un maestro del romanzo del Novecento. Monroe Stahr emerge da queste pagine incompiute come l'ultima incarnazione dell'eroe fitzgeraldiano, dopo Jay Gatsby e Dick Diver. Nella malattia che lo opprime, ma che non gli impedisce di aprirsi a un nuovo amore e di lottare per la propria arte, non è peraltro difficile intravedere un autoritratto commovente e autunnale dello stesso scrittore, e degli ultimi, sofferti anni della sua breve vita.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788833893785
Argomento
Literature
Categoria
Classics

/
L’amore dell’ultimo milionario

/
Capitolo uno

Anche se non sono mai comparsa sullo schermo, nel cinema ci sono cresciuta. Alla festa per i miei cinque anni c’era anche Rodolfo Valentino, o almeno così mi hanno raccontato. Lo dico solo per farvi capire che ancor prima dell’età della ragione avevo già sotto gli occhi gli ingranaggi che facevano girare quel mondo.
Un tempo avevo pensato di scrivere le mie memorie, La figlia del produttore, ma a diciott’anni è difficile che ti riesca una cosa del genere. E comunque meglio così, sarebbero state banali come una vecchia rubrica mondana di Lolly Parsons. Mio padre era nel cinema come un altro poteva essere nel cotone o nell’acciaio, e per me era normale amministrazione. Nel peggiore dei casi accettavo Hollywood con la rassegnazione di un fantasma assegnato a una casa infestata. Sapevo cosa avrei dovuto pensarne, ma mi ostinavo a non farmene spaventare.
Facile a dirsi, ma più difficile da far capire alla gente.
A Bennington c’erano professori di letteratura che si fingevano indifferenti a Hollywood o ai suoi prodotti, ma in realtà la odiavano. La odiavano in modo viscerale, come una minaccia alla loro esistenza. E ancora prima, quand’ero in collegio dalle monache, una suorina mi aveva chiesto di farle avere un copione per «insegnare come si scrive per il cinema», così come aveva fatto per i saggi e i racconti. Glielo feci avere, e immagino che ci avrà pensato e ripensato, ma poi in classe non ne fece mai cenno, e alla fine me lo restituì con aria mezza stupita e mezza offesa e senza dire una parola. La stessa reazione che un po’ mi aspetto da questa storia.
Si può dare Hollywood per scontata come facevo io, oppure liquidarla con il disprezzo che riserviamo a ciò che non riusciamo a capire. O che si potrebbe capire, ma solo confusamente, a sprazzi. Si contano sulle dita di una mano le menti che sono riuscite a contenere tutt’intera la complessa equazione del cinema. E per una donna forse l’unico modo di avvicinarsi davvero a quell’equazione è cercare di comprendere uno di questi uomini.
Il mondo dall’aeroplano, quello lo conoscevo bene. Papà ce lo faceva prendere per fare avanti e indietro da scuola e dal college. Ero al penultimo anno quando morì mia sorella: cominciai a viaggiare da sola, e volare mi faceva sempre pensare a lei, mi sentivo solenne e malinconica. A volte sull’aereo c’era qualcuno del cinema che conoscevo, e ogni tanto capitava uno studente carino – ma durante la Depressione succedeva di rado. Assediata com’ero dai ricordi di Eleanor e da quell’acuta sensazione di strappo da costa a costa, non dormivo mai sul serio in viaggio, o almeno mai prima di aver lasciato i piccoli, desolati aeroporti del Tennessee.
Quella volta il volo era così turbolento che ben presto i passeggeri si divisero tra chi cercava di addormentarsi subito e chi non voleva addormentarsi affatto. Due di questi ultimi erano seduti proprio di fronte a me. Dai frammenti della loro conversazione ero quasi sicura che fossero di Hollywood. Di uno si vedeva proprio: un ebreo di mezza età, che a tratti parlava un po’ esagitato e a tratti si chiudeva in un silenzio inquietante, come una molla pronta a scattare. L’altro, un tipo robusto sulla trentina, pallido e insignificante, ero certa di averlo già visto da qualche parte. Forse era anche venuto a trovarci. Magari quand’ero molto piccola, e quindi non c’era da offendersi se non mi riconosceva.
La hostess – alta e bella, una bruna vistosa del genere che andava forte all’epoca – mi chiese se doveva prepararmi il letto.
«...E, cara, le porto un’aspirina?» Si appoggiò al bracciolo della mia poltrona oscillando pericolosamente da una parte all’altra sbatacchiata dal primo uragano estivo, «...oppure un nembutal?»
«No».
«Sono stata così presa da tutti gli altri che non ho avuto tempo di occuparmi di lei». Mi si sedette accanto e assicurò la cintura di tutt’e due. «Vuole una gomma?»
Il che mi ricordò di sbarazzarmi di quella che mi rigiravo in bocca da ore. La avvolsi in un pezzetto di carta strappato da una rivista e la infilai nel portacenere a scatto.
«Riconosco le persone carine», approvò la hostess, «quando incartano la gomma prima di infilarla lì dentro».
Per un po’, così sballottati nella penombra della cabina, sembrava di stare in un ristorante chic in quei momenti crepuscolari tra un pasto e l’altro: aspettavamo tutti qualcosa – senza sapere perché. Persino la hostess, credo, doveva continuare a ripetersi il motivo per cui era lì.
Parlammo di una giovane attrice che conoscevo, e che aveva volato con lei verso Ovest due anni prima. Era il periodo più nero della Depressione, e l’attrice si era messa a fissare fuori dal finestrino con tale intensità che lei aveva temuto volesse buttarsi. Poi però si era scoperto che non aveva paura della povertà, ma solo della rivoluzione.
«So che cosa faremo io e la mamma», le aveva confidato. «Ce ne andiamo allo Yellowstone e viviamo in semplicità finché non sarà tutto passato. E poi ritorniamo. Gli artisti non li ammazzano, lo sai?»
Quella frase mi divertì. Mi evocò la buffa immagine dell’attrice e di sua madre nutrite da qualche orso destrorso che portava loro miele, e da dolci cerbiatti che rimediavano dalle madri un po’ di latte in più per loro e poi si accoccolavano lì vicino per offrirsi, di notte, a far da cuscini. A mia volta raccontai alla hostess dell’avvocato e del regista che avevano spiegato a papà il loro progetto, una sera di quei giorni perigliosi. Semmai l’esercito dei veterani diseredati avesse conquistato Washington, l’avvocato teneva una barca nascosta sul Sacramento: sarebbe risalito controcorrente a forza di remi per qualche mese, per poi ritornare «perché c’è sempre bisogno di avvocati dopo una rivoluzione, per sistemare gli aspetti legali».
Il regista era più incline al disfattismo. Teneva pronto un vecchio vestito con tanto di camicia e relative scarpe – non disse mai se fossero suoi o roba presa dai costumisti. La sua intenzione era Scomparire tra la Folla. Ricordo che papà gli disse: «Ma ti vedranno le mani! E capiranno che da anni non le usi per lavorare. E poi ti chiederanno la tessera del sindacato». E quello fece il muso lungo e si incupì mentre mangiava il dessert. Mi sembravano così ridicoli e meschini.
«Suo padre è un attore, Miss Brady?», mi chiese la hostess. «Sono sicura di aver già sentito questo nome».
Sentendo nominare Brady, tutti e due gli uomini dall’altra parte del corridoio alzarono la testa. Un’occhiata di sottecchi – di quelle da Hollywood, che sembra sempre si guardino alle spalle. Poi quello giovane, pallido e robusto si slacciò la cintura di sicurezza e venne a piazzarsi accanto a noi.
«Lei è Cecelia Brady?», chiese in tono accusatorio, come se avessi cercato di nasconderglielo. «Mi pareva di averla riconosciuta. Sono Wylie White».
E questo avrebbe potuto anche non dirlo perché in quell’istante un’altra voce esclamò: «Scansati, Wylie!», e un uomo lo sfiorò nel corridoio andando verso la cabina di pilotaggio. Wylie White sussultò; poi, con un certo ritardo, gli gridò dietro in tono di sfida:
«Io prendo ordini solo dal pilota».
Riconobbi il tipo di battute che si scambiano a Hollywood i potenti e i loro subalterni.
La hostess lo rimproverò:
«Abbassi la voce, per favore. Ci sono passeggeri che dormono».
Solo a quel punto mi resi contro che il tipo dall’altra parte del corridoio, l’ebreo di mezza età, si era alzato a sua volta per fissare con palese, libidinosa avidità l’uomo appena passato. O piuttosto fissava la sua schiena, mentre quello con la mano accennava una specie di saluto, uscendo dalla mia visuale.
«È il secondo pilota?», chiesi alla hostess.
Lei stava slacciando la nostra cintura per abbandonarmi a Wylie White.
«No. Quello è Mr. Smith. Ha uno scompartimento privato, la “suite nuziale”... la usa da solo, però. Il secondo pilota è sempre in uniforme». Poi si alzò: «Vado a chiedere se pensano di scaricarci a Nashville».
Wylie White era sconvolto. «Perché?»
«C’è una tempesta in arrivo dalla valle del Mississippi».
«Significa che dovremo stare qui tutta la notte?»
«Se continua così!»
Un vuoto improvviso segnalò che sarebbe andata proprio così. Fece cadere Wylie White nella poltrona di fronte alla mia, scaraventò la hostess in direzione della cabina di pilotaggio e mandò a sedere l’ebreo. Dopo quelle esclamazioni di disgusto affettate e compassate che si confacevano a degli habitué del volo, ci mettemmo tranquilli. Seguirono le presentazioni.
«Miss Brady... Mr. Schwartze», disse Wylie White. «Anche lui è un grande amico di suo padre».
Schwartze annuì con tale veemenza che mi sembrò di sentirgli dire: «È vero. Dio mi è testimone, è vero!»
Una frase che avrebbe potuto pronunciare a voce alta, in un altro momento della sua vita; ma era chiaramente un uomo a cui era accaduto qualcosa. Incontrarlo era come imbattersi in un amico che ha fatto a botte o ha avuto un incidente e ne è uscito devastato. Lo guardi e gli chiedi: «Che cosa ti è successo?» E quello risponde qualcosa di incomprensibile tra i denti rotti e le labbra gonfie. Non riesce nemmeno a raccontare.
Fisicamente, Schwartze era illeso: il marcato profilo persiano e le palpebre livide e oblique erano congeniti, come il rossore attorno al naso irlandese di mio padre.
«Nashville!», esclamò Wylie White. «Significa che andiamo in albergo. Non arriveremo sulla costa fino a domani sera... se va bene. Mio Dio! A Nashville ci sono nato».
«Allora dovrebbe essere contento di rivederla».
«Mai! Sono quindici anni che ne sto alla larga. Spero di non vederla mai più».
L’avrebbe rivista invece, perché l’aereo andava inequivocabilmente giù, sempre più giù, come Alice nella buca del coniglio. Con la mano a coppa contro il finestrino vidi sulla sinistra, in lontananza, la città sfocata. Il segnale verde Allacciare le cinture – Vietato fumare era acceso fin da quando erav...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Indice
  3. Introduzione di Goffredo Fofi
  4. Prefazione di Paolo Simonetti
  5. L’amore dell’ultimo milionario
  6. Appendice
  7. Nota di traduzione