DIO, PATRIA E COMPLOTTI
CONTRO IL GASTRONAZIONALISMO
Atteggiamenti divisivi, sciovinisti e perfino razzisti passano anche dalla tavola e dal cibo. ATTRAVERSO LA DIFESA DI UN’IDENTITÀ CHE SPESSO NON ESISTE O È INVENTATA, E CHE È PIENA DI CONTRADDIZIONI CLAMOROSE
• di Michele Antonio Fino
Gastronazionalismo (People, 2021) è uscito a fine agosto 2021 a valle di un’attività che si è svolta per anni nelle aule dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, un piccolo ateneo nato e cresciuto nonostante il pregiudizio molto snob verso il cibo faccia sì che molti intellettuali non solo mangino male, ma soprattutto pensino in termini poco logici riguardo alla rilevanza che la produzione e il consumo di alimenti hanno, sia in termini generali, sia specificamente rispetto alla fase storica in cui ci troviamo a vivere. Come e cosa mangiamo, infatti, determinano conseguenze assai rilevanti sul pianeta che ci ospita.
L’indagine del libro non si svolge su un piano teorico generale, per cui non avremmo avuto né gli strumenti adatti né l’ambizione di riuscire in una summa compiuta, bensì sugli aspetti salienti degli atteggiamenti divisivi, esclusivi, sciovinisti e infine anche razzisti che il cibo tuttora legittima come una bolla entro la quale i caratteri del civile e dell’argomentato non trovano necessariamente casa. Il libro nasce dall’acquisita consapevolezza che un lessico nazionalista e a tratti anche violento intorno al cibo dipende dalla sottovalutazione di un complesso fenomeno sociale: nel tempo delle identità liquide, una presunta identità gastronomica nazionale diventa un’occasione di appartenenza, opposizione agli altri, rivendicazione di superiorità.
La tavola recita così un ruolo che ci sembra l’ideale corrispettivo dello stadio, dove la parte belluina e istintuale si sfoga in accessi che debbono rimanere intorno al campo di calcio per esercitare una funzione che, in bonam partem, si vuole trattare come catartica mentre forse è semplicemente una reliquia di bestialità, affiorante dal nostro passato mai abbastanza lontano per essere (finalmente) dimenticato. Un esempio di ciò? Anche alle persone cui repelle l’ascolto di una frase quale “I tedeschi sono orribili!” non ripugna lo slogan contro i crucchi dagli spalti né sembra troppo greve catalogare la cucina tedesca (e così qualsiasi altra cucina europea) come pessima o comunque ineluttabilmente inferiore a quella della Penisola. La cosa sarebbe ridicola se non fosse tragica.
Ridicola perché porta seco delle vere e proprie perle degne di Ennio Flaiano: quando anni fa l’arcivescovo di Bologna propose di fare per le Feste dei tortellini ripieni di pollo, inclusivi anche per tutti coloro che il maiale non lo consumano, fu subissato di beceri slogan (da stadio, what else?) circa la sua sudditanza rispetto agli islamici (perché gli ebrei comunque non contano), l’attacco che egli portava alla VERA tradizione, il suo relativismo etico. Peccato che in tutti i ricettari felsinei fino alla prima metà del Novecento il tortellino risulti sempre o quasi ripieno di pollo, e per una ragione banale: la carne di pollo era costantemente disponibile nelle aie, essendo il bipede piumato facilmente sacrificabile in vista di una ricorrenza quanto di una visita inattesa, mentre il nino (o gosino o nimel, perché tanto più un animale è importante, tanti più sono i terionimi) si macellava una volta l’anno e giusto in quella sacra occasione si potevano gustare gli avanzi in qualche piatto d’occasione o in qualche ripieno.
L’identità, quella vera, per sua intrinseca natura è costrutto di relazioni,
PER DEFINIZIONE COSTANTEMENTE IN EVOLUZIONE, NATURALMENTE SFUGGENTE A OGNI FISSITÀ Sicché l’eretico arcivescovo ecumenico risulta, al vaglio della storiografia, essere il più sincero fautore di una tradizione autentica, che però non conta nulla, perché il nazionalismo sta all’identità come il filtro su Instagram sta alla modella: non è ciò che è a contare, ma ciò che si vuole mostrare, issare, vantare, contrapporre, esaltare. L’idea di nazione – non a caso impietosamente derubricata a deriva collettiva dell’individualismo romantico da un gigante come Federico Chabod – è solo un consolatorio simulacro di identità, sterilmente ipostatizzato in un momento del tempo e dello spazio, mentre l’identità, quella vera, per sua intrinseca natura è costrutto di relazioni, per definizione costantemente in evoluzione, naturalmente sfuggente a ogni fissità.
Il contrasto tra identità e nazione è l’elemento portante della riflessione su cui si svolge lo sviluppo di Gastronazionalismo: infatti, da una critica del misunderstanding, senza sottacere la situazione che ha permesso di trovarci al punto in cui siamo, si snoda tanto l’analisi di carattere teorico generale, quanto l’esame di una serie di casi che sono considerati quali sintomi (o emblemata) del fenomeno sistemico. La società liquida del benessere, propria di quello che trent’anni fa si autoproclamava come il Primo Mondo, ci regala (almeno da un punto di vista teorico e con un efficace camuffamento delle reali difficoltà di carattere socio-economico) una libertà di cambiare ruoli, classe, lavoro e vita senza precedenti nella storia della nostra specie. Teoricamente, oggi nessun* ha una strada tracciata davanti a cui non possa sfuggire, ruoli che non possa evitare di svolgere, impegni cogenti che non abbia assunto in prima persona e se anche li avesse assunti, che non possa liberamente dismettere, come qualcosa che non gli/le va più.
Ciò rappresenta per molti versi la liberazione della persona dalle catene della predeterminazione, ma non c’è dubbio che per qualcun* rappresenti altresì una perdita di punti cardinali che, per quanto opprimenti in qualche caso, erano comunque solidi, attestati da una tradizione, confortevoli nella loro rigidità, affidabili e soprattutto mai bisognosi di giustificazione. L’erede del farmacista continuava l’attività a vita e nessuno aveva da ridire rispetto a rendite di posizione né il soggetto della successione ereditaria aveva di che preoccuparsi: se era più capace del genitore, meglio, altrimenti, nessun problema. La sua sarebbe stata una parentesi meno luminosa in una storia di professionisti già scritta, in cui le generazioni altro non erano che capitoli.
La più potente forma di surrogato identitario, costruita tra
XIX e
XX secolo,
TORNA FUORI DALL’ARMADIO BLINDATO IN CUI CI SIAMO ILLUSI DI AVERLA CHIUSA Nel tempo in cui viviamo, la libertà di cambiare ruoli (sebbene divenire notai* senza discenderne sia sempre meno agevole che divenire fiorai* provenendo da una schiatta di notai*) ci consente di navigare senza limitarci al piccolo cabotaggio ma proprio questo genera in una larga fetta della popolazione un bisogno di appartenenza che una cultura condivisa dovrebbe riempire, legittimando la fragilità e il cambiamento, esaltando la nobiltà del viaggio senza mete obbligate, mentre una narrazione simile non c’è e una cultura positiva della vita condotta liberamente non esiste o se esiste è appannaggio di circoli troppo ristretti (gli unici che possono apprezzarla perché non sentono il peso opprimente della paura). E allora ecco che la più potente forma di surrogato identitario, costruita tra XIX e XX secolo, torna fuori dall’armadio blindato in cui ci siamo illusi di averla chiusa, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, e si ripropone: sul palcoscenico politico e perfino sulle nostre tavole. Signore e signori, riecco la Nazione.
E se in ambito politico qualche traccia di memoria cellulare continua a operare, proteggendoci, sebbene gli anticorpi divenuti ottuagenari ci lascino sempre più soli a ogni 25 aprile, alla tavola imbandita di questo inizio di XXI secolo, tutto l’armamentario sciovinista degno della propaganda colonialista dei primi decenni del Novecento ritorna ad animare i discorsi e guidare le scelte, che da culinarie si fanno economiche e, temiamo, preparano quelle politiche.
I casi dell’hamburger halal, in Francia, e del formaggio halloumi, a Cipro, servono egregiamente a spiegare come dietro l’apparenza di questioni di tutela del consumatore, del benessere animale o della tradizione nazionale si celino interessi politici ben precisi, concentrati sull’affermazione di un gruppo linguistico-culturale su un altro, sul mantenimento in condizione di minorità di una parte di popolazione rispetto alla quale, se è più difficile negare parità civile nel tempo dell’uguaglianza sancita dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, si può comodamente ribadire lo status di diverso (e implicitamente inferiore) attraverso scelte di regolamentazione e tutela apparentemente neutrali, perché alimentari. A consentire quest’azione è il fenomeno della patrimonializzazione della tradizione alimentare.
In Gastronazionalismo si mette sotto la lente critica il processo di patrimonializzazione della cultura che in termini giuridici si è tradotto non solo nella nascita e nello sviluppo delle DOP e delle IGP, ormai trent’anni fa, ma soprattutto nelle derive di quel processo, nei fenomeni pervasivi e capillari di frammentazione esclusiva e negli esiti tragicomici di quelle vicende.
Nell’espressione ‘il nostro cibo’ l’aggettivo non è possessivo:
NON SI TRATTA INFATTI DI UNA PROPRIETÀ, NÉ INDIVIDUALE NÉ COLLETTIVA La patrimonializzazione della cultura, di cui la patrimonializzazione delle tradizioni gastronomiche è un sottoinsieme, ha trovato una tappa storica fondamentale nella creazione del patrimonio immateriale e orale dell’Unesco. In particolare, è stato decisivo il momento in cui questo novero è andato a includere non solo espressioni poetiche, musicali, linguistiche ma anche produzioni economicamente rilevanti, fra le quali anche quelle alimentari. Il sigillo dell’Unesco su quanto fino a quel momento era comunque rimasto in un’area di pertinenza dell’economia agricola, o connessa all’economia agricola, ha dotato di nuove fondamentali frecce l’arco nazionalista.
Caso emblematico è l’inizio di questa vicenda: nel 2010 viene inserita nella lista del patrimonio universale Unesco la dieta mediterr...