Capitolo 1
Il lavoro e le donne
Due fasi a trent’anni di distanza
Sulle tracce dei problemi del presente
Le figlie degli uomini colti
hanno sempre pensato i loro pensieri
così alla buona;
non a tavolino, nel proprio studio,
nella solitudine tranquilla di un chiostro
all’università.
Hanno pensato mentre rimestavano la minestra,
mentre dondolavano la culla.
Virginia Woolf, Le tre Ghinee
Capire, interpretare, analizzare e infine rilanciare. Trovare le parole adatte, vista l’indispensabile, e urgente, necessità di superare i modi dello “sviluppo” attuale che sta trascinando l’umanità verso l’autodistruzione. In questo percorso accidentato, sento l’importanza di partire da alcune genealogie. Rosa Luxemburg ci consegna, da donna, una acuta sintesi degli insegnamenti di Karl Marx. Essi consistono non tanto in una costruzione dottrinaria relativa al campo economico ma in questo: “La concezione dialettico/materialistica della storia, che rappresenta esclusivamente un metodo di ricerca, un paio di geniali pensieri conduttori, che permettono la visione di tutto un nuovo mondo, aprono le infinite prospettive della verifica autonoma e danno ali allo spirito per i più arditi voli in territori inesplorati”.
A questa ispirazione originaria, aggiungo ciò che, a proposito di materialismo, specifica Lea Melandri: «Essere materialisti vuol dire riconoscere che le contraddizioni non sono state individuate una volta per sempre, che ce ne saranno altre». E aggiunge: «Il rapporto uomo-donna è una contraddizione di fondo che permette di dare radicalità e carattere rivoluzionario alle lotte” poiché non consente alla teoria di “avere i piedi freddi” o di “perdersi nell’astratto e scorporato delle leggi economiche e nelle teologie di una rivoluzione che non ha perso l’antica abitudine di adorare i padri”, ma tiene sempre nel dovuto conto corpo, sessualità, quotidianità.
In questo percorso proverò sforzarmi di esprimere qualcosa che preme ma fatica a compiersi. La scrittrice Clarice Lispector ricorda quanto sia “remota”, per quanto “stranamente famigliare”, la parola: “C’è qualcosa che mi sfugge di continuo. Quando non mi sfugge guadagno una certezza: la vita è un’altra. Ha uno stile soggiacente”. Questo avviene perché
«la parola si riferisce sempre a una cosa e questa cosa per me è sempre inarrivabile. Ognuno di noi è un simbolo che ha a che fare con simboli […] tutti soltanto riferimenti del reale. […] E se ci capiamo attraverso il simbolo è perché possediamo gli stessi simboli e la stessa esperienza della cosa in sé. Ma la realtà non ha sinonimi».
1.1. Lo sguardo delle donne sul lavoro tra gli anni Settanta e gli anni Duemila: una sintesi retrospettiva
Per spiegare perché mi sono tanto occupata del tema lavoro in rapporto al genere e di trasformazioni della produzione che influenzavano la composizione del lavoro e la sua organizzazione, debbo rispondere, banalmente: perché riguardava un sempre più ampio numero di donne, tra loro io, date determinate condizioni. Riguardava la mia esistenza, la mia quotidianità, e avevo urgenza di capire che cosa mi trovavo davanti.
Siamo a metà degli anni Novanta e il mio è uno sguardo che si posa su contesti a capitalismo più maturo e avanzato. Mi trovo a Milano, nel cuore del capitalismo biocognitivo e relazionale (che all’inizio viene indicato con il termine “postfordismo”) il quale attecchisce maggiormente nelle aree del Nord rispetto a quelle del Sud d’Italia e del mondo. Qui, più esplicitamente che altrove, decolla quel “terziario avanzato” che, insieme al “terziario umile”, cioè le donne straniere che accompagnano il processo, tende a inglobare la maggior parte del lavoro femminile, in quel dato momento storico. Da un lato, porta le donne europee, o americane, fuori dalle case, nello spazio pubblico del lavoro produttivo, dall’altro spinge a emigrare le cittadine di altre parti del pianeta come loro sostitute nel lavoro domestico e riproduttivo all’interno di quelle che vennero allora chiamate “catene della cura”. In un doppio senso: catene che ti vincolano al lavoro di cura, tra affetto e potere, e alla sua organizzazione con forme di sradicamento e di commercio dei sentimenti, ma anche catene che legano le donne autoctone e le donne immigrate in un unico processo, tra gerarchie di classe molto evidenti.
Da femministe, in tante, ci siamo occupate di lavoro in quegli anni anche per il fatto che l’Italia è stata un laboratorio straordinario per quanto riguarda le riforme complessive del mercato del lavoro, spalancando la porta alla generalizzazione della precarietà. In questo contesto, i femminismi italiani, danno origine a una sfaccettata produzione di inchieste, auto-inchieste, riflessioni, saggi, mappature, azioni politiche che partono dalla precarietà esistenziale, dalla condizione precaria, la quale rompe la dicotomia della divisione sessuale del lavoro, si impernia sull’inclusione differenziale o precarizzazione differenzialmente distribuita, tenendo presente il ruolo delle donne migranti.
Le donne, immerse nelle trasformazioni esistenziali del lavoro intermittente o a partita Iva, sono state spesso anticipatrici nell’osservare gli effetti di ciò che è stata chiamata “soggettivazione del lavoro”. Lia Cigarini, avvocata ed esponente della Libreria delle donne di Milano, scrive nel 1997:
È curioso che siano state proprio le donne a dare così tanta importanza al lavoro. Non tanto, però, se si pensa che sono entrate nel mondo del lavoro in modo massiccio, di colpo, negli ultimi dieci anni. Questo evento è vissuto come una nascita collettiva delle donne nel fare mondo. Le nascite sono eventi felici, nonostante la fatica, la sofferenza. Ma soprattutto la nascita comporta una valorizzazione, un innamoramento.
A partire da questo passaggio cruciale,...