1. ESTATE 1980
A un certo punto la vita di ogni essere umano sulla terra finisce. Lunga o breve, felice o infelice, liscia o sconnessa che sia stata.
E così, il 22 agosto 1980 il portone della splendida cattedrale di Parma si apriva per l’ultimo saluto a una donna di quasi 85 anni morta due giorni prima. Il suo nome, Celestina Bottego.
Sorretto da alcune donne, il feretro era uscito da una grande casa nel quartiere di San Lazzaro, alla periferia orientale della città. Tante persone lungo le strade percorse dal carro funebre scortato dai vigili urbani in motocicletta e diretto a piazza Duomo, tantissime quelle che parteciparono alle esequie in un clima di forte commozione e che al termine della liturgia si sciolsero in un lungo e intenso applauso mentre la bara usciva dalla cattedrale, di nuovo portata a spalle da quelle donne. Il corteo si avviò quindi verso la tomba di famiglia al cimitero cittadino della Villetta.
Doveva certamente trattarsi di una persona importante, a giudicare dal funerale: presiedeva il vescovo di Parma Amilcare Pasini; attorno a lui, oltre a tanti presbiteri diocesani, c’erano il vescovo di Fidenza Mario Zanchin, il sottosegretario della Congregazione vaticana per l’Evangelizzazione dei popoli Tiziano Scalzotto, il superiore generale dei Saveriani Gabriele Ferrari e molti missionari di quella congregazione, fra cui i vescovi Giovanni Gazza e Faustino Tissot. Nelle navate, tante religiose, a cominciare da un folto gruppo di Missionarie di Maria-Saveriane; poi le persone arrivate da San Lazzaro, ex alunne e alunni di alcune scuole di Parma, socie e soci di Azione cattolica, donne e uomini di diversa provenienza. Inoltre, centinaia furono i telegrammi e le lettere spediti da quanti, pur desiderandolo, non poterono partecipare fisicamente al rito funebre.
La bionda quindicenne che settant’anni prima era arrivata dagli Stati Uniti a San Lazzaro non si sarebbe certo mai immaginata una simile conclusione per i suoi giorni terreni.
2. LA NIPOTE DEL MONUMENTO
Sono arrivata al sabato sera e naturalmente, dopo un po’ di festa per l’arrivo, sono andata a letto tardi. Al mattino dopo, gli altri dormivano ancora, mi sono svegliata al suono delle campane di San Lazzaro, e ho cercato di chiedere a mia sorella quando si poteva andare a Messa. Non mi sono fatta capire e allora mi ha portata nella stanza dei genitori perché mi spiegassi.
In quella domenica autunnale del 1910, nella prima campagna a est della città di Parma, Celestina Bottego aveva bisogno non di logopedia, come potrebbe sembrare, ma di qualcuno che le facesse da interprete: nata a Glendale (Ohio) nel 1895 e vissuta poi con i genitori, una sorella e un fratello a Butte, un centro minerario nello Stato del Montana, l’italiano non lo parlava. La sorella Maria, al contrario, pur essendo anche lei venuta alla luce oltreoceano, nel 1893, non parlava più l’inglese: il padre Gian Battista Bottego l’aveva portata con sé, insieme al terzogenito Vittorio, quando nel 1901 aveva deciso di tornare nella casa da dove era partito vent’anni prima. Celestina e la madre Mary Healy – figlia di emigrati irlandesi, che Gian Battista aveva conosciuto in California e sposato nel ١٨٩٢ – avrebbero dovuto raggiungerli poco dopo, ma alla fine erano passati nove anni.
L’intoppo comunicativo del primo risveglio italiano è un piccolo assaggio di quanto la nuova arrivata sperimenterà nei mesi successivi: «Tutto nuovo: lingua, ambiente familiare e religioso molto diverso, scuola».
Negli anni successivi Celestina imparerà non solo altre lingue, ma altri linguaggi; vivrà spazi e ruoli diversi e la sua esperienza religiosa assumerà forme differenti. Cambierà molto pur restando sempre sé stessa e continuando a «svegliarsi al suono delle campane». Chissà se e quanto l’emigrazione al contrario vissuta da ragazza l’avrà segnata e aiutata, nel percorso originale e non previsto in cui si avventurò.
Di avventura, del resto, ne sapevano qualcosa anche suo padre e suo zio, come lei stessa racconterà molti anni dopo:
Il papà studente del liceo classico era pieno di iniziativa e amava occuparsi di cose estranee allo studio come falegnameria e piccoli esperimenti che portavano un po’ di disordine e discussione col nonno che lo vedeva trascurare lo studio.
Un giorno il nonno, stanco di contrastare con lui, gli diede 300 lire (a quel tempo era una bella somma) dicendogli che andasse e facesse quel che volesse. Andò in Francia dove lavorò per un po’ di tempo. Col guadagno prese il biglietto per il piroscafo che l’avrebbe portato in America.
Il papà per natura era taciturno, ma a volte ci raccontava le sue avventure (taciturno nel senso di poche parole, ma non musone).
Ricordo che si è trovato una volta negli Stati del Sud degli Stati Uniti ed era stanco di stare là. Decise di partire ma non aveva denaro sufficiente per il viaggio piuttosto lungo. Dopo aver girato nella stazione per vedere come fare pensò di appollaiarsi su un gradino della parte anteriore della locomotiva. Era notte e nessuno poteva vederlo.
Presto sentì il freddo della notte e andando verso il Nord cominciò a nevicare. Così si è trovato come agghiacciato una parte del corpo più esposta mentre l’altra parte era bollente essendo appoggiato e aggrappato a una parte della locomotiva.
Durante i vent’anni passati negli Usa ha viaggiato molto e ha conosciuto molte possibilità di lavoro, e dopo aver fatto le sue esperienze si è fermato in Butte dove ha costruito case e fu azionista nelle miniere di rame-argento di Butte-Montana.
Gian Battista Bottego, secondo la figlia, «aveva uno spirito avventuroso e intraprendente come il fratello». Cioè come quel Vittorio, nato nel 1860, che dopo il ginnasio aveva intrapreso la carriera militare e sognava di esplorare terre sconosciute. Gian Battista lo capiva bene, ma era anche preoccupato, come gli scrisse in una lettera datata 12 giugno 1882:
Caro fratello,
ho ricevuto l’ultime due lettere che m’indirizzasti qui a Chester; e mi recarono al pari dell’altra, grandissimo piacere; ed insieme alla tua ne ricevetti pur finalmente una di casa nostra. Ora al fine sono contento; a questa ho risposto, alle tue ora rispondo. […]
Oh quanti, quanti cari pensieri mi si affollano in capo mentre ti sto scrivendo! Ma già, benché muta fosse la tua lingua, pur ben vedeva che gli stessi desideri, le stesse brame come nel mio s’agitavano nel tuo petto, vedeva in te quell’irrequieta noia di tutte le cose e quell’ansia d’aver fatto che pur tormenta e diletta ad un tempo; però non mi torna per nulla nuova la tua lettera, e intendo come la carriera da te intrapresa non possa trattare di viva speranza al tuo animo.
Ma che farem noi con questi cervelli così balzani? Seguirli? Io l’ho fatto, ed a me spetta pagarne il fio o il raccoglierne il frutto; sia però nell’uno come nell’altro caso, non me ne avrò a pentire, poiché entrambi mi mostreranno quel ch’io valga, e il conoscerlo m’è tardi.
Ma tu pure avventurarti non te ’l consiglio; e non è forse abbastanza per un padre ed una madre l’incertezza dell’esito di un figlio, che non aumentarla dell’altro?
A me non era ignota la beatitudine e la dolcezza di una vita campestre divisa assieme a cari genitori e parenti; sarebbe a te forse tanto senso di beatitudine ignoto? No certo, tu l’intendi. Ma corre nelle nostre vene un medesimo sangue bollente e incauto forse sotto ragione, e a te doppiamente, poiché il consiglio di buon fratello si aggiunge.
Non ti consiglierò io a lasciare la carriera da te intrapresa, né dissuadere te ’l voglio, ma tu usa l’avviso tuo che, in qualunque modo farai, sarà ben fatto. Però l’andare a cercare gloria e fama in paese straniero mi sembra strano, e strano a te pur...