C'era una volta la crisi
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C'era una volta la crisi

Un paese in emergenza. Le ragioni per sperare

  1. 96 pagine
  2. Italian
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C'era una volta la crisi

Un paese in emergenza. Le ragioni per sperare

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La crisi? Non una, ma quattro, secondo questo libro: crisi economica, finanziaria, ambientale e...di felicità. Ma l'autore non si crogiola nell'analisi del perché siamo arrivati a questo punto, ci invita piuttosto ad appenderci a tre «fili di speranza». «Il progresso verso una felicità sostenibile - scrive Becchetti - è a portata di mano se agiamo efficacemente in tre direzioni: il voto con il portafoglio, la riforma della finanza e l'inversione del declino nel nostro paese».Riforma della finanza...una missione impossibile? Eppure qualcosa si muove, come la crescita del consenso attorno alla penalizzazione dei movimenti finanziari speculativi. Altre proposte, realistiche, sono sul tappeto. Tutti i cittadini-consumatori, poi, hanno in mano una leva che è il voto con il portafoglio: «Nessuna azienda è così grande da poter ignorare i suoi clienti».Per questo osiamo dire: «C'era una volta la crisi». L'essenziale è che arriviamo a scoprire, come questo libro ci aiuta a fare, «la superiorità della razionalità del noi rispetto a quella dell'opportunismo individuale».

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Informazioni

Editore
EMI
Anno
2014
ISBN
9788830721838
Argomento
Business
Capitolo 1: PREPARARE L’USCITA DALLA CRISI
Siamo sicuri di essere come ci dipingono?
Uno dei problemi chiave che ci impediscono di superare le quattro drammatiche crisi che ci sovrastano (economica, ambientale, finanziaria e di felicità) è rappresentato dalla visione angusta dell’uomo e dell’impresa che una certa cultura ci impone. Questa visione ci impedisce di sfruttare appieno le potenzialità che avremmo per uscire da questa difficile situazione.
Concepire le persone come miopemente auto-interessate e individualiste e le imprese unicamente come massimizzatrici di profitto, come la cultura economica ha fatto per troppo tempo, è non solo sbagliato (nella maggior parte dei casi le persone e le imprese non si conformano affatto a quel modello), ma rende più difficile la soluzione dei problemi che abbiamo davanti. Gli individui puramente auto-interessati finiscono paradossalmente per generare meno benessere per sé e per gli altri nelle relazioni economiche. In altre parole, l’auto-interesse miope genera bassi livelli di fiducia che avviliscono le relazioni e la produttività sociale.
Il problema è espresso magistralmente da un apologo di Hume, che recita: «Il tuo grano è maturo oggi, il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se oggi io… lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo nessun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che domani tu mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma il maltempo sopravviene e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di una garanzia» (Hume, Trattato sulla natura umana, 1740, libro III).
La situazione disegnata in questo apologo è tutt’altro che rara e rappresenta la normalità dei «dilemmi» che viviamo in tutti i rapporti sociali ed economici. In quelle situazioni che gli economisti chiamano «dilemma del prigioniero», «giochi di fiducia», «dilemmi del viaggiatore» esistono ingredienti comuni: superadditività, interdipendenza negli esiti, informazione imperfetta sulle «qualità della controparte», incompletezza delle coperture contrattuali e inefficienza della giustizia. In questi contesti la fertilità economica dipende dalla qualità delle relazioni, che genera fiducia e disponibilità a cooperare.
Esistono e si diffondono sempre di più esempi di economia nei quali chi partecipa esce dalla gabbia del riduzionismo ed elementi come fiducia, condivisione, dono e gratuità arricchiscono le relazioni e aumentano la fertilità sociale risolvendo al meglio questi dilemmi. Il libro di Roberta Carlini L’economia del noi ne offre una bella panoramica. Pensiamo a quelle banche e imprese cooperative che non hanno perso lo slancio dell’ispirazione originaria, al microcredito, al peer to peer social lending che si diffonde in modo crescente sulle piattaforme informatiche, ai gruppi di acquisto solidale, all’economia di comunione, al commercio equosolidale, alle banche e alla finanza etica e in genere a tutte le imprese che si sforzano di compiere passi in direzione della responsabilità sociale. Sono luoghi di economia liberata nei quali è possibile coniugare creazione di valore economico con sostenibilità sociale e ambientale. Dove i lavoratori non desiderano andare in pensione per poter fare qualcosa di bello nella loro vita, perché lo stanno già facendo.
La crisi finanziaria globale ci dice, tra le altre cose, che un approccio riduzionista alla concezione dell’individuo e al modo ottimale di risolvere i problemi della società è ormai al capolinea. Il paradigma anglosassone di cui ci siamo nutriti per molto tempo sostiene essenzialmente che gli individui sono monadi che si comportano in modo opportunista cercando di accrescere il proprio interesse economico. Con un salto logico poi stabilisce che il modo migliore per risolvere i problemi è quello di costruire regole ottimali che limitino al massimo la possibilità di nocumento reciproco evitando gli incentivi perversi. Nei casi più estremi si ipotizza che basti lo spontaneismo delle forze economiche e la mano invisibile della concorrenza per trasformare la somma di pulsioni egoistiche in un risultato socialmente utile.
Questo modo di ragionare naufragato nei fatti (siamo circondati dalle macerie della deregulation, da esempi di politici tutt’altro che disinteressati) non fa altro che confermare una contraddizione teorica presente sin dall’inizio. Se tutti gli uomini sono opportunisti ed egoisti chi fa le regole virtuose? Non i politici che, piuttosto che pensare al bene del paese, si preoccuperanno principalmente di arricchirsi e di essere rieletti. Non i regolatori che finiranno per essere catturati dai regolati che, con la loro potenza di fuoco economica, avranno buon gioco a promettere vantaggi economici superiori in cambio di resa al conflitto d’interesse e alla corruzione. Insomma in un mondo siffatto non esiste deus ex machina in grado di portare dall’esterno un’etica che l’esempio della somma degli egoismi in azione non certo crea e forse contribuisce a deteriorare.
La possibilità di cambiamento nasce proprio dalla scoperta che il paradigma antropologico riduzionista di cui sopra è non solo avvilente e dannoso, ma anche profondamente sbagliato. L’idea che il mondo sia popolato da monadi miopemente auto-interessate è infatti contraddetta da studi sempre più numerosi. La stragrande maggioranza delle persone nei paesi occidentali dona denaro, una quota vicina alla metà della popolazione dona tempo. Negli esperimenti di laboratorio in cui si simulano scelte tra diversi comportamenti con incentivi monetari la quota di coloro che si comportano coerentemente con il modello dell’homo oeconomicus è assolutamente minoritaria e tende in alcuni casi addirittura a zero.
Nel 2011, Christoph Engel ha raccolto le evidenze di 328 diversi esperimenti per un totale di 20.813 osservazioni da diversi paesi del mondo, dimostrando che solo il 36% degli individui si comporta da homo oeconomicus. Questa quota scende drasticamente se consideriamo che gran parte degli esperimenti sono condotti con studenti, tra i quali la proporzione di homines oeconomici è maggiore. La quota degli individui solamente auto-interessati scende sotto il 20%, infatti, nel campione dei soggetti di mezza età.
Hayek diceva argutamente che l’homo oeconomicus è la vergogna di famiglia degli economisti. Sen affermava già nel 1976 che si tratta di un «folle razionale», perché privo di due componenti fondamentali dell’agire umano quali la sympathy (ovvero la passione per l’altro) e il commitment (il dovere morale).
Gli studi sulla felicità confermano in modo significativo i limiti del paradigma riduzionista, evidenziando che il comportarsi da homo oeconomicus non aiuta ad aumentare la propria soddisfazione di vita. I fattori più importanti per la soddisfazione di vita degli individui sono il successo della loro vita di relazioni e il tempo dedicato alle relazioni sociali (oltre che ovviamente all’occupazione e al reddito). Questi studi confermano anche l’importanza della motivazione del commitment già sottolineata da Sen. Le persone scelgono consapevolmente di compiere alcune azioni (come prendersi cura di familiari o persone malate) che riducono la loro felicità per conformità a norme morali e sociali. Da questi studi emerge chiaramente che la dimensione delle relazioni è fondamentale e pervasiva. Gli individui non sono monadi, ma persone inserite in una trama di relazioni che influisce in modo fondamentale sul loro benessere.
La premessa per superare la crisi risiede in un approccio che sappia andare oltre il riduzionismo economicista che affligge il pensiero economico tradizionale nelle sue tre ben note dimensioni: l’uomo, l’impresa e il valore. Tutte e tre sono e possono, infatti, essere molto di più di quanto affermi il pensiero dominante. La razionalità del «noi», il capitale sociale e l’energia delle relazioni possono aumentare di gran lunga la soddisfazione di vita e la fertilità economica e gran parte delle relazioni individuali (e persino tra paesi) si svolgono in situazioni dilemmatiche dove cooperazione e spirito di squadra sono fondamentali per superare opportunismi e crisi di fiducia paralizzanti.
Quello che passa sopra le nostre teste (e quello che possiamo fare)
Gli indignati italiani hanno identificato i colpevoli della crisi globale nel sistema finanziario e nelle banche. La crisi dei subprime porta sull’orlo del fallimento i grandi intermediari finanziari. Gli interventi di salvataggio degli stati gonfiano i debiti pubblici e la crisi bancaria si trasforma in crisi di finanza pubblica. Ciò che è considerato insopportabile è che le grandi banche d’affari privatizzino i profitti e socializzino le perdite. Che continuino a scommettere con i soldi dei salvataggi pubblici contro la stabilità finanziaria dei loro stessi salvatori. Che ancora oggi, in piena crisi per un sistema di incentivi perversi, i grandi manager facciano correre rischi incredibili ai loro intermediari finanziari mettendoli il più delle volte sul lastrico e ne escano con buonuscite miliardarie. A confronto le responsabilità della casta politica sono marachelle.
Se non interveniamo subito, rischiamo che la protesta perda di lucidità e diventi cieca allo scoppiare della prossima inevitabile crisi. Non capendo, ad esempio, che la Banca d’Italia ha giocato un ruolo fondamentale nell’impedire con la qualità della sua vigilanza che le banche italiane esagerassero con i derivati del credito. Che le responsabilità maggiori sono quelle della finanza anglosassone e di parte di quel mondo accademico finanziario d’oltreoceano di cui il documentario, premiato con l’Oscar, Inside the job ha messo a nudo i conflitti d’interesse con lo stesso mondo delle banche d’affari.
C’è bisogno che le energie della società civile italiana e internazionale vengano spese su obiettivi concreti.
Primo, una piattaforma di riforme dei mercati finanziari per riportare il gioco d’azzardo nei suoi porti naturali (scommesse sportive, poker) e fuori dai valori sensibili di attività finanziarie fondamentali per riportare la finanza stessa al servizio dell’economia reale. Il paradosso di oggi è che i paesi emergenti che sono in forte crescita (Cina, India, Brasile, economie asiatiche) hanno tutti forme di controllo sui movimenti di capitali finanziari a breve, mentre siamo diventati noi il porto franco della finanza senza regole, con tutte le conseguenze devastanti del caso. La piattaforma deve includere tre o quattro proposte semplici, dando forza alle componenti più lungimiranti delle istituzioni internazionali che si battono per la loro attuazione (legge Dodd-Frank negli Usa, proposte della commissione Vickers nel Regno Unito, proposta Barroso per la tassa sulle transazioni).
Le proposte sono: riduzione sensibile della leva bancaria delle banche troppo grandi per fallire, divieto per le banche di fare trading in proprio con i depositi dei clienti (Volcker rule), regolamentazione di tutti i mercati Over the counter (Otc) e tassa sulle transazioni finanziarie dando forte appoggio alla proposta franco-tedesca e dell’Unione Europea. È necessario da questo punto di vista vincere le resistenze dei britannici che dicono che la tassa non può essere applicata se non a livello mondiale. Sono resistenze assurde, perché chi parla è il paese con la Tobin tax più alta d’Europa (5 per mille), che pagano tutti coloro che diventano proprietari di azioni quotate alla Borsa di Londra. Gli inglesi con questa tassa raccolgono circa 5 miliardi di sterline l’anno e hanno così separato i veri investitori dagli speculatori che, per aggirare la tassa e comprare e vendere vorticosamente, hanno inventato dei derivati che consentono di scommettere sulle variazioni di prezzo senza acquistare i titoli (contracts for differences). Per aumentare il gettito della tassa ed evitare l’elusione, come propone la commissione Barroso, basta tassare anche i derivati o (come negli Stati Uniti) proibire i contracts for differences.
Secondo, la società civile deve scoprire la forza del voto con il portafoglio. L’economia siamo noi, con i nostri consumi e risparmi. Solo premiando con la nostra spesa le aziende all’avanguardia nel tutelare ambiente e lavoro mentre producono e creano valore possiamo costruire un’economia al servizio della persona. Stiamo attraversando un cambiamento di lungo termine nel quale, attraverso la delocalizzazione produttiva, i bassi salari dei diseredati di tutto il mondo producono uno spostamento verso il basso del costo del lavoro nei paesi ad alto reddito. Usare i tradizionali strumenti dal lato dell’offerta (scioperi, carbon tax) non fa altro che aumentare i divari di costo, rendendo ancora più difficile produrre da noi. Bisogna lavorare dal lato della domanda, stabilendo regole che incentivino la responsabilità sociale e ambientale (Ive socialmente responsabili e green consumption taxes) e premiare quei prodotti dei paesi del Sud del mondo (come quelli del commercio equosolidale) che accelerano la crescita di benessere e dignità dei lavoratori in quelle aree. La globalizzazione ci costringe a lavorare per il benessere degli ultimi, unica strada per salvare anche il nostro. Le vie d’uscita esistono, ma è necessario lavorare tutti insieme nella direzione giusta.
La prima crisi finanziaria globale ha generato un drammatico peggioramento delle finanze pubbliche dei paesi occidentali, riducendo per decenni le risorse disponibili per il finanziamento di beni e servizi pubblici. Le exit strategies su cui gli esperti stanno lavorando dimostrano che il ritorno alla situazione debitoria pre-crisi richiederà tempi lunghissimi.
Sono proprio le politiche monetarie espansive e i tassi d’interesse a zero, necessari per far ripartire le economie dopo la recessione generata dal disastro finanziario, a fornire nuove ...

Indice dei contenuti

  1. C’ERA UNA VOLTA LA CRISI
  2. Introduzione: LA CRISI E I TRE FILI DI SPERANZA
  3. Capitolo 1: PREPARARE L’USCITA DALLA CRISI
  4. Capitolo 2: LE TRE COSE DA FARE SUBITO. Riforma della finanza, voto con il portafoglio e fermare il declino dell’Italia
  5. Conclusione: LE ALI DI UNA NUOVA LIBERTÀ
  6. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI