1. PAROLE NEL VENTO
Come foglia sbalzata dal vento e poi risucchiata da un improvviso turbine, mi ritrovo perduto chissà dove. Attorno a me solo dune e un assordante silenzio… anche di Dio. Sono prigioniero del Sahara, il grande deserto tutto sabbia, sole e stelle. Perso nei miei pensieri, cerco nel vuoto la risposta ai miei tanti perché. Un ritornello risuona in me: «La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento».
Tutto inizia la sera del 17 settembre 2018. Dopo cena mi ritrovo come al solito nel mio ufficio per dare uno sguardo alla posta elettronica e preparare un pensiero sulle letture della messa del mattino seguente. Tutto è calmo alla missione di Bomoanga, piccola località nel sud-ovest del Niger a circa 60 chilometri dal confine con il Burkina Faso e 125 dalla capitale Niamey.
Il villaggio conta poco più di 800 abitanti e per la maggior parte sono dell’etnia gurmancé, ma vi è pure un quartiere peul (i peul sono conosciuti anche come fulani). La popolazione è dedita alla pastorizia e alla coltivazione della terra. Le famiglie convivono in armonia nel rispetto degli usi e costumi locali e delle fedi professate. La religione tradizionale e quella islamica sono praticate dai più, anche se molti giovani si orientano ultimamente verso la fede cristiana (cattolica e protestante).
Il mio confratello è ritirato in camera e si riposa; dalla sera precedente soffre di malaria e non ha neppure cenato. Sono passate da poco le 21:30 e io sono già in pigiama.
È da appena una settimana che sono ritornato in missione, dopo due mesi in Italia. Domenica 16 settembre celebro la messa con la comunità di Bomoanga e insieme salutiamo la giovane suora che, dopo un solo anno di presenza tra noi, ci lascia per un altro impegno in Burkina Faso. La sua giovinezza e dinamicità hanno fatto tanto bene ai ragazzi, che sono venuti numerosi, dai tre villaggi limitrofi, per questo momento di saluto. Hanno preparato canti e danze in suo onore. È la festa liturgica della Santa Croce; tanti simboli e gesti coinvolgono tutta la comunità.
Dopo l’omelia, invito tutti i ragazzi ad apporre un segno sul poster che riproduce la croce che parlò a san Francesco d’Assisi: è il nostro regalo-ricordo per la giovane suora in partenza. Mentre i numerosi bambini sfilano, io accolgo i due nuovi nati con il rito dell’entrée en église. I genitori mi raggiungono all’altare e chiedo ai due papà di dire pubblicamente il nome scelto per loro. Dopo aver proclamato il nuovo nome cristiano, le rispettive mamme li porgono a me, perché li accolga ufficialmente e li presenti all’assemblea. Tutti acclamano con un fragoroso applauso e con gli yiigimi tradizionali, le grida di acclamazione tipiche delle donne gurmancé di questa regione. Quindi traccio il segno della croce sulla fronte di ciascun bambino con l’olio dei catecumeni. Le donne e gli anziani della comunità concludono il breve rito di accoglienza con benedizioni e auspici di salute e di felicità rivolti ai neonati e ai loro genitori.
Dopo la messa, ci ritroviamo per il pranzo comunitario, rallegrato da canti e danze. Nel tardo pomeriggio accompagno in automobile la suora con i suoi bagagli a Makalondi, da dove ripartirà l’indomani in corriera per la sua nuova missione di insegnante in Burkina Faso, in una scuola elementare gestita dalle sue consorelle. Niente lasciava presagire ciò che si preparava nell’ombra. Con il senno di poi, assorto tra le dune del Sahara, mi vengono in mente due episodi che potrebbero essere letti come segni premonitori di sventura.
Il primo riguarda la brusca interruzione di ogni comunicazione. Qualche giorno prima avevo scritto al confratello Silvano che mi era impossibile comunicare con lui sulle frequenze amatoriali della radio, come eravamo soliti fare ogni mattino dopo colazione. Avevo constatato, al mio rientro dalle vacanze, che il filo dell’antenna era spezzato e gli annunciavo che non era più mia intenzione riparare il ponte radio. WhatsApp è più rapido ed efficiente anche a Bomoanga. Da Pentecoste 2016, infatti, il villaggio dispone di un’antenna-ripetitore di 80 metri che permette un buon collegamento internet. Silvano mi invitava a valutare bene questa decisione. Se avessi sospeso definitivamente l’antico collegamento radio, lui pure avrebbe smontato il suo. Ormai eravamo rimasti soltanto noi due, tra i missionari Sma, a comunicare con questo mezzo.
Il secondo segno è di qualche ora prima del rapimento e preannuncia solitudine. La sera di lunedì 17 settembre sono in chiesa con largo anticipo per la messa delle 18:30. Dopo un tempo di preghiera personale, mi preparo per la celebrazione. Con mia sorpresa noto che nessuno si presenta per la messa, nemmeno gli abituali collaboratori. Il confratello prete è giustificato perché soffre di malaria. Ipotizzo che le suore siano assenti per la loro riunione di comunità a Makalondi, come accade ogni tanto. L’animatore del centro parrocchiale mi aveva informato che avrebbe fatto un giro al mercato e probabilmente avrebbe fatto tardi. La responsabile del Centro nutrizionale l’ho vista occupata a seguire i neonati malnutriti. Così inizio la messa in solitudine. In undici anni di presenza a Bomoanga è la prima volta che mi capita di celebrare senza nessun fedele. Spero che almeno un ritardatario si affacci per concludere insieme l’eucaristia. Solo sono entrato in chiesa e solo ne esco.
La notte del rapimento
Dopo la messa mi siedo a tavola. Il cuoco Michel ha preparato la cena, che consumo nel silenzio della sera; mi ritiro subito dopo in camera. Tutta quella quiete stava per tramutarsi in tempesta. Mi fa ancora male ripensare a quella sera…
Ricordo di aver fatto due telefonate. La prima a una suora che sarebbe partita l’indomani per l’India per i funerali della mamma. Mi ringrazia per le condoglianze e mi chiede di non dimenticare di accompagnare all’aeroporto di Niamey la piccola Christine del villaggio di Ipaadi. Deve andare in Francia lunedì 24 settembre per un’operazione urgente al cuore, necessaria a correggere una malformazione congenita. Rassicuro la suora che me ne occuperò personalmente. Con le missionarie di Madre Teresa di Calcutta, che gestiscono un piccolo ospedale nella capitale, nel quartiere di Saga, ho da anni una bella collaborazione. Presso di loro faccio trasferire regolarmente i casi difficili di neonati malnutriti e di adulti sofferenti di varie patologie (tra cui l’aids) che necessitano di terapie appropriate. Le suore assicurano a tutti cure gratuite con un surplus di amore e competenza professionale.
Il secondo contatto è in chat con mio nipote Nicola per un problema del computer. Mi assicura che mi invierà un aggiornamento software, necessario per il funzionamento della stampante. Mentre prendiamo gli ultimi accordi sento strani rumori fuori dalla finestra del mio studio. Chiedo in francese e poi in gurmancema, la lingua locale: «Chi è?». Nessuna risposta. Penso sulle prime a un animale di passaggio, ma, ripetendosi la stranezza, decido di alzarmi per andare a vedere: sono io, infatti, che mi occupo di notte del deposito-farmacia e talvolta capita che qualcuno, che non conosce bene la missione, cerchi l’accesso dietro casa.
Varcata la porta, illumino la notte con la torcia e vedo alla mia destra tre fucili puntati contro di me. Faccio un sobbalzo. Mi esce da dentro un forte grido. Vengo subito accerchiato. Sono attimi concitati e convulsi. Esplodono in aria tre colpi di arma da fuoco e mi ritrovo con le mani legate dietro la schiena.
Uno di loro mi urla in gurmancema: «Lighi!», che significa «soldi». Penso a dei ladri, così rientro in casa seguito dal gruppo. Indico lo zainetto con il portafoglio. Prendono quanto vi trovano e gettano a terra i docume...