Prima parte
QUELL’AMORE CHE NESSUNO VEDE
IN CHE MODO DIO ABITA IL NOSTRO AMORE?
Quando a Gesù chiesero quale fosse il primo di tutti i comandamenti, egli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi» (Mc 12,29-31).
Quasi tutti, credenti o no, si dicono d’accordo sul fatto che dovremmo amare il nostro prossimo e noi stessi. Che differenza fa aggiungere l’amore di Dio? È solo un oggetto di amore in più, magari più intenso? Così come si ama la propria madre più di un cugino di secondo grado? Devo amare me stesso, e poi i miei vicini: la famiglia Rossi dall’altra parte del pianerottolo. E dopo, ah già, devo amare anche Dio. La nostra fede in Dio cambia veramente il modo in cui comprendiamo che cos’è l’amore?
L’invisibile mistero
La dottrina penetra la nostra comprensione di tutto ciò che facciamo. Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton diceva che bisogna distinguere tra coloro che professano le dottrine e sanno di professarle, e coloro che non si rendono conto di professare dottrine. Una grande filosofa, Elizabeth Anscombe, veniva a messa dai domenicani a Blackfriars, a Oxford. Era l’allieva preferita di Ludwig Wittgenstein. Una domenica ascoltò una predica del nostro amato confratello Conrad Pepler, che disse: «Tutto è uno, ogni cosa è uno». La sentirono sibilare con un sussurro teatrale: «Cripto-buddhista!».
La mia primissima lezione di teologia fu che Dio non è una potente persona invisibile, in cui alcune persone credono e altre no. Dio è il mistero profondo che si annida in ogni amore. Sant’Agostino disse: «Lei vede lui, lui vede lei, l’amore non lo vede nessuno. Eppure ciò che si ama è proprio questo [elemento] che non si vede». E questo elemento è Dio. E così la domanda che voglio esplorare è questa: che differenza fa, per noi cristiani, credere che ogni amore è una condivisione nel vasto mistero di Dio? Questo cambia il modo in cui comprendiamo che cosa significa amare?
Sia chiaro: il fatto che il cristianesimo abbia una concezione così elevata dell’amore non significa che noi cristiani amiamo meglio di chiunque altro. Alcune delle persone più capaci di amore che conosco respingono vigorosamente l’esistenza di Dio. Eppure crediamo che Dio sia all’opera in ogni amore, come il lievito che fermenta e trasforma l’uva nel vino più squisito. Il fatto che ci siano vinificatori più bravi di noi non squalifica la nostra convinzione che il vino è divino.
Un mio amico, John Rae, fu preside della Westminster School. Spesso doveva presiedere i vespri nell’abbazia, ma non sapeva dire se credesse in Dio oppure no. Così, quando andò in pensione, con quella suprema fiducia che alberga nei migliori invitò sei atei e sei cristiani a incontrarlo individualmente per aiutarlo a prendere una decisione. Diventammo cari amici e ci trovammo d’accordo sul fatto che la questione chiave era se nel suo amore per la moglie, per i figli e per gli altri ci fosse qualche indicazione di quella trascendenza infinita che i credenti chiamano Dio. Poco prima di morire mi chiamò al suo capezzale: «Senti, Timothy, lo so che voi cattolici cercate sempre di agganciare la gente all’ultimo momento… Conversioni da letto di morte! Con me non ce la farai! Ma torniamo a quella domanda: l’amore che io ho per gli altri è abitato da un mistero più profondo?». Gli dissi: «Be’, John, anche se non posso convincerti adesso, saprai presto che ho ragione io!».
È una grande domanda. Per esplorarla bene si deve guardare a tutti i diversi tipi di amore. Lo scrittore Clive Staples Lewis ne ha individuati quattro: eros, affetto, amicizia e carità. Nel XVI secolo Francesco Bacone scrisse una splendida frase: «Se manca l’amico, è meglio abbandonare la scena».
Mentre lavoro a queste pagine, entra un confratello irlandese e mi chiede: «Che scrivi?». «Un capitolo sull’amore», rispondo. Incalza: «Ma cucini sempre la stessa minestra?». Così, per impressionarlo, gli leggo un brano del Profumo delle notti sul Nilo, un romanzo dell’egiziana Ahdaf Soueif: «Ishq è l’amore che intreccia due persone, shaghaf è l’amore che si annida nelle cavità segrete del cuore, hayam è l’amore che percorre la terra, teeh è l’amore in cui perdi te stesso, walah è l’amore che racchiude in sé il dolore, sababah è l’amore che trasuda dai pori, gharam è l’amore che vuole pagare il prezzo». Mi aspetto che si stupisca e lui dice: «Sembra il menù di un ristorante indiano».
Mostrare come ciascuno di questi amori opera richiederebbe parecchie ore e farebbe addormentare tutti i miei lettori e lettrici. Ricordo sempre le parole della moglie di un vicepresidente degli Stati Uniti, Hubert Humphrey. Egli andava fiero della sua eloquenza ed era solito fare discorsi interminabili. La moglie una volta gli disse: «Hubert, il fatto che le tue parole siano immortali non significa che debbano continuare all’infinito». L’amore può essere immortale, ma cercherò di non rendere tale questo capitolo.
Quindi mi concentrerò sui due soli modi in cui credo che Dio dimori nel nostro amore, facendo fermentare il vino del Regno. Innanzitutto, il nostro amore, appartenendo a Dio, è portato a essere sia particolare sia universale. In secondo luogo, mostrerò come il nostro amore, essendo divino, ci attiri nell’intimità, ma anche renda libera l’altra persona. Possiamo fare esperienza di tensioni e perfino di crisi mentre impariamo ad amare a livello particolare e a livello universale, in modo intimo e in modo disinteressato. Probabilmente commetteremo degli errori e delle sciocchezze e sbatteremo la testa più volte. Maturiamo così, lentamente e con molte cadute, nel mistero dell’amore divino, in cui queste tensioni vengono trascese e tutto è pace.
Universale e particolare
Quindi, prima di tutto, l’amore di Dio è sia universale sia particolare. Crediamo che ogni cosa sia chiamata all’esistenza dall’amore di Dio, in ogni momento. Pensa alla persona che trovi più detestabile e odiosa. Il fatto che esista è la prova che Dio la ama. Se Dio non l’amasse, lei non esisterebbe. Qualche tempo fa ho fatto un’esperienza fortissima al riguardo. Non di essere detestato, ma della contingenza dell’essere.
Mi hanno diagnosticato un cancro e ho subito due operazioni. Una di queste mi ha fatto rischiare di perdere gran parte della capacità di parlare; per coloro che assistono alle mie conferenze poteva essere una benedizione. Improvvisamente è sorta in me la consapevolezza chiara e profonda che la mia esistenza non era necessaria, che il mio essere era sospeso sul vuoto. Mi sono sentito come uno di quei personaggi dei cartoni animati che camminano oltre il ciglio di un burrone e continuano a camminare finché, a un certo punto, vedono che sotto i loro piedi non c’è niente. Improvvisamente mi sono reso conto che la mia esistenza in ogni momento era un dono dell’amore di Dio. Il teologo Denys Turner ha scritto: «Tra la mia esistenza e il mio nulla non c’è altro che l’amore divino». Quindi l’amore di Dio è sconfinato e onnicomprensivo. Sostiene tutte le cose nell’essere.
Ma l’amore di Dio è anche particolare. Dio non ama l’umanità in generale, categoria della quale noi non saremmo altro che degli esemplari, come si può dire che qualcuno ama il whisky o i canadesi. Un tale amore sarebbe freddo e vuoto. Nel romanzo Casa desolata, Charles Dickens ci presenta la signora Jellyby, affetta da una «filantropia telescopica, come se non potesse vedere niente...