PAOLO, MISSIONE
NEL CUORE DELL’IMPERO
Penso che, come missionari, dobbiamo recuperare, per la nostra spiritualità e strategia missionaria, la figura di Paolo di Tarso, il primo missionario di Gesù sulle strade dell’Impero romano. I nostri modelli missionari, da san Francesco Saverio in avanti, sono straordinarie figure di grande spessore, ma appartengono al periodo dell’imperialismo europeo entro cui si è svolta l’epopea missionaria nel Sud del mondo.
L’impressionante mole di ricerca contemporanea su Paolo ci sta aiutando a riscoprirlo e a rivalutarlo. Tre filoni ci hanno aiutato in questa riscoperta: primo, gli studi di Ed Parish Sanders e altri, a partire dagli anni Sessanta, ci hanno fatto capire che Paolo è un ebreo e che il suo pensiero è profondamente ebraico, pur esprimendosi in greco; secondo, l’identificazione delle lettere autentiche di Paolo, da cui partire per capirne la mente e l’azione. Oggi, la maggioranza degli studiosi ritiene che solo sette delle quattordici lettere a lui attribuite siano sue: Prima lettera ai Tessalonicesi, Prima lettera ai Corinzi, Lettera ai Galati, Lettera ai Filippesi, Lettera a Filemone, Seconda lettera ai Corinzi e Lettera ai Romani; terzo, la nuova consapevolezza che non si può leggere Paolo senza collocarlo nel contesto dell’Impero romano, come dimostrano tantissimi studi, soprattutto anglo-americani. Questa revisione è stata possibile grazie sia all’archeologia, sia a una migliore conoscenza storica dell’Impero romano. È grazie a tutto questo che possiamo oggi leggere, in maniera «altra», anche la Lettera ai Filippesi.
Voglio però essere chiaro: io non sono un biblista, sono solo un appassionato ascoltatore della Parola che si rifà al meglio della ricerca biblica contemporanea. In questi anni ho cercato di approfondire le lettere di Paolo utilizzando la ricerca della cosiddetta «nuova prospettiva», così ben rappresentata da studiosi come Neil Elliott, Nicholas Thomas Wright, James Dunn, Robert Jewett. È da questa prospettiva che nasce la mia lettura di Filippesi, un tentativo di lettura nato dalla necessità di ricomprendere Paolo nel contesto imperial-romano. Ecco perché è fondamentale capire, prima di tutto, in quale contesto si colloca la piccola ekklesia di Filippi.
Filippi
Il nome «Filippi» è stato dato nel 356 a.C. dal macedone Filippo, papà di Alessandro il Grande, a un piccolo insediamento che crebbe lentamente, diventando una bella cittadina. Questa, dopo la conquista della Grecia, cadde insieme alla Macedonia nelle mani di Roma. Quando poi, nel 42 a.C., Ottaviano e Marco Antonio sconfissero, proprio a Filippi, gli assassini di Cesare, la città divenne un importante simbolo ideologico per Roma. Infatti, dopo che nel 31 a.C. Ottaviano sconfisse Marco Antonio nella battaglia di Anzio, il princeps rifondò la colonia di Filippi, che prese, in suo onore, il nome di Colonia Iulia Augusta Philippensis. Ottaviano vi collocò un migliaio dei suoi pretoriani, dando loro della terra (è così che si pagavano i legionari vittoriosi!).
Al di là della storia, è importante capire la composizione sociale di Filippi. Mi rifaccio a una interessante ricerca in proposito, fatta dal biblista e archeologo britannico Peter Oakes, che ha speso dieci anni negli scavi di Pompei, Tessalonica e Filippi. Oakes ha calcolato che la popolazione di Filippi si aggirava sui 10mila abitanti, a cui bisogna aggiungerne, però, altri 5mila che vivevano nelle campagne circostanti. Filippi era una piccola colonia agricola, ma con una popolazione plurietnica. Quello che più colpisce è che a Filippi c’era, al tempo di Paolo, una massiccia presenza di Romani e istituzioni romane: a Filippi – sostiene Oakes – i Romani governavano senza la mediazione dei Greci, mentre in Oriente vigeva la prassi opposta; la lingua latina era molto usata; i Romani possedevano quasi tutta la terra, avevano l’assoluto controllo politico in città, monopolizzavano la ricchezza e lo status sociale. Il mantenimento delle stratificazioni sociali in un apparato piramidale era un imperativo dell’ordine sociale romano della città.
Oakes stima che la proporzione di Romani rispetto ai Greci era di uno a due. I Greci di Filippi erano economicamente dipendenti dai Romani: i marmisti lavoravano per i Romani; i cacciatori di bestie feroci lavoravano per l’arena dei Romani; i piccoli commercianti vendevano ai Romani; i Greci che lavoravano la terra, lo facevano per i Romani. In nessuna altra città dove aveva fondato una chiesa, Paolo trovò una così massiccia presenza romana.
Piccola comunità
Paolo fondò a Filippi una comunità cristiana (ekklesia) subito dopo la Conferenza di Gerusalemme, cioè circa nell’anno 50; Paolo ne parla nella Prima lettera ai Tessalonicesi (2,2), mentre Luca ne parla negli Atti degli Apostoli (16,11-40). Oggi i biblisti ritengono che Luca non abbia conosciuto Paolo personalmente, e che scriva venti o trent’anni dopo la morte dell’apostolo.
Partendo da quanto detto sopra, Oakes sostiene che la comunità cristiana era composta dai cinquanta ai cento membri, e che il quarantatré per cento di questi fosse addetto all’espletamento di vari servizi, in città, per i Romani. Le stime di Oakes (si tratta di approssimazioni) sono queste: il venticinque per cento era povero, il sedici per cento schiavo, il quindici per cento agricoltore colono e l’uno per cento proprietario terriero. Oakes stima che una percentuale compresa tra il venticinque e il quaranta per cento dei Filippesi fosse romana; per il restante, in maggioranza erano Greci; sono dati ricavati da fonti sia bibliche sia archeologiche.
Una cosa è chiara: Oakes smonta la tesi, a lungo sostenuta, che la comunità di Filippi fosse una comunità composta di veterani romani, quindi ricca. Si è sempre ritenuto che quella di Filippi fosse una comunità tranquilla e serena, che sosteneva economicamente il lavoro missionario di Paolo. Ma allora, perché Paolo scrive una lettera a quella comunità, per di più mentre è in prigione?
È dal carcere, infatti, che egli scrive la sua lettera a Filippi: questa è l’ipotesi più accettata, oggi, dai biblisti. Luca non racconta, negli Atti degli Apostoli, che Paolo sia stato imprigionato a Efeso, racconta invece la rivolta dei devoti di Artemide contro la comunità cristiana, senza però coinvolgere Paolo (At 19,23-41). Paolo, al contrario, ne parla per ben tre volte nelle sue lettere di quel periodo. Così nella Seconda ai Corinzi: «Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte» (2Cor 1,8-9). Nella Lettera ai Romani scrive: «Salutate Aquila e Priscilla, miei collaboratori in Cristo Gesù. Per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa» (Rm 16,3). E nella Prima lettera ai Corinzi scrive di aver «combattuto a Efeso contro le belve» (1Cor 15,34).
Ma perché Paolo è stato arrestato? Perché è stato condannato a morte? Non lo sappiamo! Per ...