III. LA LIBERTÀ DEI SEMI
Piccoli semi, grandi sfide
Che cos’è un seme contadino?
I semi contadini sono il risultato di milioni di anni di evoluzione e di migliaia di anni di diffusione e utilizzo da parte degli agricoltori. Provengono quindi dal lavoro dei contadini, non da imprese sementiere. Racchiudono l’intelligenza della natura e al tempo stesso la cultura di tante popolazioni diverse. Prendiamo il mais. Le migliaia di varietà sviluppate dai contadini dell’America centrale derivano tutte da una sola pianta selvatica. Così in India, dove gli agricoltori hanno creato migliaia di varietà di riso a partire da un solo riso selvatico scoperto in natura. La definizione di semi contadini è quindi strettamente legata alla nozione di biodiversità.
È determinante anche il ruolo dei coltivatori che li utilizzano: l’attenzione alla selezione e alla riproduzione, fino a ottenere delle sementi performanti, sta al cuore della loro stessa sussistenza. La qualità dei chicchi che faranno germogliare e crescere condiziona l’abbondanza delle loro colture e la ricchezza nutritiva della loro alimentazione. Preservare e riprodurre i semi da un anno all’altro è per loro una preoccupazione centrale. È loro interesse ottenere la migliore semente possibile. I semi ridiventano semi in un ciclo permanente, tanto della natura quanto di chi ci lavora. Questo contribuisce alla biodiversità, alla qualità dell’alimentazione e naturalmente alla resilienza. Inoltre, il ruolo di riproduttori unisce i contadini gli uni agli altri: nessuno può fare un simile lavoro nel proprio esclusivo interesse, tutti dipendono gli uni dagli altri e operano sulle sementi in connessione con la natura.
Quali sono le differenze tra queste e le sementi ibride?
La specificità fondamentale delle sementi ibride è che non durano da una generazione all’altra: vengono rese non riproducibili alla seconda generazione. In altre parole, sono stabili e omogenee in sede di prima moltiplicazione, ma in seguito, se si tenta di riprodurle, degenerano. Il metodo di incrocio utilizzato dai sementieri ha l’obiettivo di creare varietà assolutamente instabili (non identiche nel corso delle generazioni successive). Gli agricoltori devono quindi tornare a comperarle anno dopo anno, dal momento che riprodurle è impossibile. L’industria stessa afferma che questo dà origine a un «mercato vincolato», nel quale i coltivatori sono prigionieri. Cronologicamente, il primo attentato al principio dei semi contadini viene dunque dagli ibridi, e in modo speciale dal mais ibrido. A partire da allora, le sementi sono divenute un prodotto industriale e non più una pratica contadina.
Nella mia ottica, gli ibridi non sono – semplicemente – veri semi. L’industria sviluppa una concezione delle sementi agli antipodi di quella che ho appena espresso per definire i semi contadini. La standardizzazione è uno dei due pilastri fondamentali di tale concezione. Per realizzare economie di scala e accrescere la redditività, le imprese devono vendere le stesse sementi dappertutto nel mondo. Utilizzano perciò gli stessi metodi di produzione, gli stessi fitofarmaci, gli stessi pesticidi, gli stessi erbicidi. L’uniformità è al cuore della strategia dell’industria sementiera. All’uniformità, poi, aggiunge la sterilità: impedire ai contadini di riprodurre i loro semi rappresenta l’altro fulcro di questo modello economico.
Ma perché gli agricoltori hanno sostituito i loro semi con gli ibridi? Dov’era il loro interesse? Ci può spiegare quali vantaggi si attendevano i primissimi coltivatori che hanno abbandonato le loro antiche sementi a vantaggio degli ibridi?
Le rispondo con un caso concreto, quello indiano. Il principale motivo che ha spinto i contadini verso gli ibridi (e più tardi verso gli Ogm) sta in una combinazione tra politica governativa e martellamento pubblicitario dei grandi gruppi agrochimici. Il governo ha fatto leggi che privilegiavano l’uniformità agricola e trattavano la biodiversità come una fonte di malattie. Non è che gli agricoltori si siano detti: «Adesso scelgo di abbandonare i miei semi per acquistare gli ibridi». È accaduto che il governo ha dato vita a un grande programma sulle sementi che si integrava nella politica della «rivoluzione verde». Lo Stato ha fornito nuove sementi ai coltivatori, facendo investimenti importanti.
In un primo tempo, il suo interesse era unicamente quello di mettere i raccolti al sicuro. Le sementi inizialmente scelte dovevano solo adattarsi ai trattamenti chimici che si facevano nei campi. Erano ancora riproducibili, e in ogni caso se ne faceva carico lo Stato. Poi il governo ha acquistato ibridi presso le imprese sementiere e li ha distribuiti ai contadini, che pagavano il cinquanta per cento del loro prezzo; l’altra metà la pagava ancora il governo. Gli agricoltori che avevano smesso di riprodurre i propri semi si ritrovavano così già prigionieri del sistema. Ora, la scomparsa dei semi contadini è un fenomeno particolarmente rapido: se non li riproduci per una sola stagione, in un anno non ne vedi più nemmeno l’ombra! Tutti si dicevano che avrebbero potuto contare sui semi riprodotti da un vicino, da uno zio, dagli amici di un altro villaggio… Ma nessuno li conservava. Dopo due o tre anni, il governo non è più intervenuto. È uscito dal sistema e ha dunque lasciato i coltivatori soli davanti alle imprese. Prima di essersi resi conto di quel pericolo inedito, erano già divenuti dipendenti dai sementieri, costretti ad acquistare ibridi a prezzo pieno.
Qual è stata l’influenza della pubblicità e della propaganda nella scelta di abbandonare i semi contadini?
Qualche anno prima, Stato e imprese avevano lanciato un’ampia campagna congiunta, «La sostituzione delle sementi», che si presentava con una facciata molto seria e scientifica. Il linguaggio utilizzato incitava ad abbandonare gli antichi semi, «primitivi, obsoleti, retrogradi», e ad adottare quelli «moderni e di elevata qualità». Ai più diffidenti venivano proposte 500 rupie. Non solo accettavano la somma praticamente tutti, ma andavano poi subito a comunicare la buona notizia ad altri. Ci è mancato poco, nel 2004, che la sostituzione delle sementi divenisse legge: tutti i semi tradizionali sarebbero allora scomparsi. I legislatori volevano imporre le sementi più standardizzate e proibire quelle originate dalla biodiversità.
Come vi siete opposti, all’epoca, a una simile politica?
Abbiamo lottato fino a far azzerare, nel 2004, il progetto di legge che dicevo. La nostra strategia è consistita nell’analizzare i programmi del governo e i loro obiettivi. Ci siamo resi conto che lo Stato misurava il successo di un’azienda non attraverso l’osservazione del suo rendimento ma in base al grado di sostituzione delle sementi tradizionali. A chi ne sostituiva il 90% era attribuito un esito maggiore rispetto a chi si accontentava dell’80%. Abbiamo quindi organizzato un movimento di disobbedienza e di resistenza passiva a livello nazionale: gli agricoltori si rifiutavano di sostituire i loro semi. Abbiamo anche raccolto centomila firme, che ho portato al nostro primo ministro dicendogli che Gandhi non avrebbe mai ubbidito a quella legge, così come, a suo tempo, non si era piegato alla legge che conferiva allo Stato il monopolio del sale. Nemmeno noi ci saremmo sottomessi, dunque: non era nostro dovere proteggere la biodiversità? Era inconcepibile criminalizzare la varietà delle sementi e la loro riproduzione per opera dei coltivatori.
Quali sono gli effetti nocivi degli ibridi?
La loro introduzione ha notevolmente accresciuto il rischio di cattivi raccolti. Il mais ibrido, per esempio, ha causato perdite per miliardi di rupie nello Stato di Bihar. Il riso scelto dai programmi governativi ha provocato pessimi raccolti anche nel Jharkhand. I contadini che, per reagire a tali catastrofi, si sono rivolti a nuove marche di ibridi ignoravano il fatto che spesso anche queste provenivano dalla medesima società. Le multinazionali hanno stretto degli accordi di collaborazione con le imprese indiane, in modo che non è più possibile sapere se si sta acquistando o meno la stessa semente dell’anno precedente. Lo stesso per gli Ogm: Monsanto si cela dietro sottomarche che vendono la medesima semente ai coltivatori, i quali credono di cambiarla scegliendo un’altra marca.
Come distinguere le sementi ibride da quelle Ogm?
Gli ibridi non contengono geni di altre specie, senza alcun rapporto con essi – che è invece quel che avviene con gli Ogm. Un’altra differenza è che gli ibridi non possono essere brevettati, gli Ogm sì. Questi ultimi aggiungono quindi una barriera legale: la proibizione di riprodurre i semi.
La logica che presiede all’utilizzo delle sementi Ogm parte dal principio che ogni gene all’interno della pianta possiede una funzione particolare, e che è sufficiente aggiungerne uno o sopprimerne un altro perché essa accetti, per esempio, la presenza di un erbicida che sradichi le cattive erbe all’intorno senza uccidere la pianta stessa. Ma la natura non funziona a compartimenti stagni. Nella realtà i geni funzionano tutti di concerto. La resilienza di una pianta, per fare questo caso, non è legata a un solo gene, come pure la resa, il gusto o la qualità finale del prodotto. Quindi la natura profonda di un seme, e per conseguenza l’alimentazione, non può essere sfruttata e resa oggetto di traffici.
Dopo gli ibridi, perché gli agricoltori hanno poi adottato così massicciamente gli Ogm?
Anche qui la pubblicità dell’industria sementiera ha giocato un ruolo enorme e decisivo. Monsanto ha fatto credere ai coltivatori che avrebbero ottenuto rendimenti molto alti, arrivando a utilizzare i nomi dei nostri dèi per meglio persuaderli. Sono state evocate tutte le divinità possibili per approfittare della credulità di persone senza istruzione. Del resto, da ben prima dell’arrivo degli Ogm molti contadini...