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EREDI DELLA MODERNITÀ
Gaël Giraud – Buongiorno, Felwine.
Felwine Sarr – Buongiorno, Gaël.
GG – La prima questione che mi piacerebbe affrontare con te è quella dei nostri rispettivi rapporti con la Modernità occidentale che abbiamo ereditato. Quali risorse cela per noi? E quali sono gli eventuali veleni che nasconde? Sono domande che riguardano il modo in cui questo lascito viene tradito e il modo in cui potremmo oggi appropriarcene, attraversarlo, superarlo, sovvertirlo. Come ti poni davanti a questi aspetti della Modernità?
FS – La mia prima reazione sarebbe forse la critica che Habermas ha mosso alla Modernità occidentale come progetto incompiuto. Nel XVIII secolo, da qualche parte in Occidente si decide di porre la Ragione a principio organizzatore della vita sociale al posto degli dei, degli antenati e della tradizione. Mettere la Ragione al centro di tutto ha portato a numerosi progressi in termini di modernizzazione sociale, di libertà pubbliche, di organizzazione efficiente delle società. Ma quando essa diventa strumentale, e soprattutto l’unico criterio di scelta, ne risultano delle deviazioni. Per questo, dopo la Grande depressione, le due guerre mondiali, Auschwitz, il sistema dei gulag… la fede in un avvenire portatore di progresso ha collassato. E ci rendiamo conto che quella Modernità ha aperto spazi all’insorgere di possibilità che si rivelano antagonistiche; che le luci che essa porta sono accompagnate da ombre. Non crediamo più nella promessa di un progresso lineare della storia umana, o non più come prima. E prendiamo coscienza che occorre ormai affrontare dei rischi – ecologici, sanitari e di altro tipo – e che esiste uno squilibrio tra la poderosa capacità di agire delle società umane, degli uomini e delle donne, da un lato, e, dall’altro, l’etica che conferisce senso all’azione, che la orienta, la controlla e deve metterla al servizio di ciò che potremmo chiamare il benessere globale degli uni e degli altri. Questa Modernità, peraltro, è ormai sostituita da un regime di storicità che è stato chiamato postmodernità e che è caratterizzato dalla dissoluzione di tutti i punti di riferimento tradizionali: la famiglia, le pratiche sociali autoregolatrici, ecc. Tutto questo ha inoltre condotto, in Occidente, a un rapporto col tempo definito da un’ipertrofia del presente, quello che lo storico François Hartog chiama presentismo, la quale produce un uomo-istante che sovrastima il presente rispetto alle altre modalità del tempo (il passato e il futuro).
L’uomo-istante, che non può essere che autoreferenziale, soffre di una terribile fragilità psicologica. La postmodernità si contraddistingue per essere un tempo con un futuro senza promesse – fatta eccezione per quella di poter evitare tutte le catastrofi che esso stesso preannuncia (crisi ecologica, disarticolazione delle società, catastrofi sanitarie, insicurezza crescente). Ci ritroviamo in un tempo in cui si fatica a immaginare nuove teleologie o teleonomie, dal momento che ormai fa difetto questa speranza, o fede, nel progresso.
Eppure, per imprimere una direzione alle società, i gruppi umani e le società stesse hanno bisogno di caricare di aspirazioni ben specifiche il tempo presente e il tempo a venire. In assenza di questo, siamo impossibilitati ad andare avanti. Manchiamo di un grande progetto. Un progetto di ampio respiro che offra dei fini universalizzabili in grado di impegnare gli uni e gli altri nella costruzione di una società positivamente qualificata. Aggiungerei che siamo alle prese con il discredito delle utopie, dopo che le grandi narrazioni come il comunismo o i socialismi, le quali promettevano l’avvento di una società nuova, o di un tempo nuovo, si sono liquefatte e hanno generato entropie di cui abbiamo fatto una sciagurata esperienza. Le sole aspettative che sembrano ancora sollevare entusiasmo sono quelle di un futuro tecnologico, se non di un postumanesimo.
GG – Quello che dici mi fa pensare alla tesi molto interessante e suggestiva di un saggista indiano che vive a Londra. Pankaj Mishra sostiene che c’è una profonda unità che collega il risentimento dell’elettore bianco e povero della Rust Belt che vota Trump con quello del francese che vota Le Pen – e i primi sondaggi in vista delle presidenziali francesi del 2022 lasciano intendere che il Rassemblement National di Marine Le Pen avrà la meglio sul presidente uscente o, per lo meno, che giocherà su un piano di parità con La République En Marche, il partito di Macron – e con il risentimento dell’inglese di Manchester che ha votato Brexit o del bavarese che vota Alternative für Deutschland, o ancora degli europei dell’Est, polacchi e ungheresi, che si inoltrano su sentieri antidemocratici, ma anche con il sentire dei giovani saheliani che si arruolano in Boko Haram e in altri gruppuscoli ribelli, così come degli indù che s’infiammano per un fondamentalismo nazionalista che forse minaccerà di degenerare in guerra civile se Narendra Modi dovesse essere rieletto. Secondo Mishra, all’ombra della globalizzazione mercantile in opera da una quarantina di anni è stata diffusa su scala planetaria una visione illuministica europea, la promessa di un’utopia condivisa, aperta sull’avvenire… Questa visione è stata propagata ai quattro angoli del villaggio-mondo. Gli Occidenti hanno insomma creato un’aspirazione molto forte che non sempre era presente in altri ambienti: aneliti alla democrazia, all’uguaglianza, al diritto, al rule of law (lo Stato di diritto)… E, contestualmente, tale aspirazione è stata tradita in modo estremamente violento: esplosione delle disuguaglianze, destrutturazione di numerosi legami sociali, la colonizzazione delle menti che tu a giusto titolo denunci, la distruzione delle ecumeni (gli spazi abitati dagli esseri umani) del pianeta. Gli Occidenti avrebbero in tal modo provocato un risentimento generalizzato nei confronti della loro propria utopia. Mishra sottolinea che l’Europa aveva già commesso il medesimo errore nel XIX secolo, ma che allora la diffusione della promessa tradita, un ideale in qualche sorta farmacologico – e con essa tutta la frustrazione che ne era discesa –, era rimasta limitata al Vecchio Continente.
Un secolo dopo, abbiamo ripetuto lo stesso processo, ma questa volta su scala mondiale. In un certo senso, questa tesi, se è corretta, ci riporta a quello che dicevi: come onorare veramente quello che può esserci ancora di fecondo nella promessa della Aufklärung, e come si resiste alla tentazione, o ci si sbarazza di essa, di una razionalità strumentale nel senso di Habermas? Noi sappiamo fin dalla prima Scuola di Francoforte – Adorno e Horkheimer – che la razionalità strategica, quella che si rifiuta di interrogarsi sui fini ultimi della nostra esistenza collettiva, è capace di condurre al gu...