DIO IN QUARANTENA
Teologia del Covid-19?
Si può fare una teologia del Covid-19? È possibile pensare teologicamente il coronavirus? Che cos’ha da dire la parola umana su Dio di fronte alla pandemia che da alcune settimane stravolge la nostra vita e la storia del mondo? Dio e coronavirus sono due termini che possono stare in una stessa frase che non sia di senso negativo? Possono coniugarsi nella medesima proposizione al di fuori dell’imprecazione e dell’orazione, albergare insieme nell’alveo del ragionamento e della speculazione, non elucubrazione fine a sé stessa, esercizio arido e fuori luogo, ma in quanto timido tentativo di domandarsi se un senso esiste, qui e ora, a quanto stiamo vivendo?
Ad uno dei suoi indimenticabili personaggi, Chaim Potok, scrittore ebreo, newyorkese fino al midollo restando osservante dei precetti della Torà, fa dire, parlando con un suo allievo che decide di lasciare l’ambiente chiuso e asfittico delle scuole rabbiniche tradizionali per avventurarsi nella terra inesplorata dello studio critico della Bibbia: «Non è il problema della verità che mi preoccupa. Voglio sapere se il punto di vista religioso ha un significato oggi. Trova una risposta, Lurie. Fa’ a pezzi la Bibbia e vedi se è qualcosa di più, oggi, dell’Iliade o dell’Odissea. Trova quella risposta».
Ecco il nocciolo della questione, o il caso serio della fede, direbbe von Balthasar: «Sapere se il punto di vista religioso ha un significato oggi». Questo è ciò che spinge queste righe a inoltrarsi, timide e incerte, rapsodiche e fuggenti per principio, sul crinale del ragionamento teologico.
Meglio tacere?
Il silenzio, di fronte a quanto stiamo vivendo, potrebbe essere la risposta più adatta. Per un duplice motivo: primo, per la preparazione forse non adeguata di chi scrive. Secondo, per la rischiosità di avventurarsi in territori inesplorati.
Così come avvenne con l’assurdo di Auschwitz – l’uomo che si fa volenteroso carnefice dell’altro uomo, non prima di averlo ridotto a una cosa, scartabile a piacimento senza alcuna etica che possa reclamarne il conto –, anche la teologia balbetta di fronte al diffondersi di un male che non si vede, di cui non si può trovare un responsabile, dal quale ci possiamo sì parzialmente difendere nascondendoci dagli altri, ma non definitivamente salvare. Almeno non tutti. Le parole della fede, della fede cristiana – salvezza, giustificazione, misericordia – sembrano svuotarsi di significato dal di dentro. Qualcuno in questi giorni ha scritto che la chiesa è stata la grande assente. Qualcun altro ha chiesto una parola chiara ai pastori d’anime.
Nota bene di metodo: qui non seguiamo le polemicucce social che intrattengono i patiti da tastiera: messe sì, messe no, preti salariati versus monaci pensanti, misure drastiche giuste o errate, vescovi igienisti, eucaristie clandestine. Fino alla somma e involontaria bestemmia: «Se l’eucaristia è l’unica cosa che può fermare il virus, perché impedire le messe?». Come se credere nel Dio incarnato significasse rinunciare alla ragione. Gratia supponit naturam era assioma di quel fine cervello – Tommaso d’Aquino – la cui inter...