Collera e luce
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Collera e luce

Un prete nella rivoluzione siriana

  1. 144 pagine
  2. Italian
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Collera e luce

Un prete nella rivoluzione siriana

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L'inferno della guerra civile scoppiata in Siria, dopo mesi di contestazioni popolari analoghe a quelle delle altre «primavere arabe», non poteva indurre uno come Paolo Dall'Oglio alla scelta del silenzio. Padre Paolo ha imparato a conoscere e amare la gente siriana attraverso una condivisione di vita lunga vent'anni. In questo libro, ritrova il fi lo rosso della sua biografi a che lo ha condotto all'incontro con l'islam nel Medio Oriente, e in quella maniera così intensa e duratura. Ma, soprattutto, l'autore racconta il contesto di questa sanguinosa rivoluzione vista così da vicino. Per questo può elaborare un'analisi alternativa a quelle spesso affrettate dei media, capace di prendere in conto anche le «ragioni» dei «terroristi». E schierandosi nettamente contro Bashar al-Assad, di cui aveva osservato il carattere dispotico in tempi non sospetti, nonostante il buon trattamento che, per ragioni politiche, il suo regime riservava alla minoranza cristiana. Lotta per la libertà, e strumentalizzazioni di tale lotta; dialogo con i musulmani, e posizioni (differenziate) dei cristiani; negoziati falliti, e volontaria impotenza dell'Occi dente; la determinazione dei giovani: tutti i volti e i temi del dramma siriano e mediorientale trovano posto nella mente e nel cuore, nell'umana collera e nella luce della fede di padre Dall'Oglio.

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Informazioni

Editore
EMI
Anno
2014
ISBN
9788830721821
Argomento
Storia
1. IMPEGNARSI
Provengo da una famiglia in cui il dibattito politico aveva il suo posto a tavola. In effetti durante i pasti, in compagnia dei miei genitori, delle mie quattro sorelle e dei miei tre fratelli, le nostre discussioni erano sempre accese! Giovanni, il mio fratello minore, adottava posizioni razziste per farmi arrabbiare. Dichiarava, per esempio, che si sarebbe dovuto costruire un muro attorno all’Africa. Io, naturalmente, andavo subito fuori dai gangheri! L’ironia della faccenda è che, oggi, lui lavora come medico in Uganda ed è passato attraverso l’iniziazione tribale. È sposato con una donna africana e hanno tre figli!
Mio padre Cesare, avvocato, è stato segretario generale del movimento sindacale agrario cristiano. Uomo di grande lucidità, non concepiva il mondo in bianco e nero e non riusciva nemmeno a rassegnarsi al grigio. La sua azione politica era orientata al perseguimento della giustizia sociale e dell’equità. Gli anni del Concilio Vaticano II11 hanno segnato una svolta per la chiesa cattolica nel suo rapporto con il mondo comunista, all’epoca in piena logica di guerra fredda. Essa tentava di sbarazzarsi della propria immagine legata al mondo capitalista. A casa mia, maturavano un’aspirazione e una forte inclinazione pro-europee e federaliste. Oggi riconosco le basi ignaziane della personalità di mio padre, che ogni anno praticava gli esercizi spirituali. Era membro della Commissione Giustizia e Pace italiana, in quanto esperto delle questioni relative al lavoro. Quella commissione rappresentava uno dei frutti del Vaticano II, dove la questione sociale era diventata di primaria importanza.
Partecipò alla Resistenza fin dall’età di vent’anni. Arrestato dai tedeschi con suo fratello minore, Francesco, furono entrambi torturati perché rivelassero dove si trovavano alcuni inglesi che si erano nascosti in montagna. Vedendo il fratello più piccolo torturato davanti ai suoi occhi, prese la decisione di rivelare il nascondiglio, poiché sapeva che gli inglesi sarebbero stati fatti prigionieri e non uccisi sul campo come invece avveniva per i partigiani. In seguito, vi fu un processo in cui i due fratelli vennero condannati a morte. La sentenza non fu eseguita immediatamente, grazie alle loro relazioni soprattutto ecclesiastiche e al coraggio della loro madre, la quale, ovunque fosse possibile, domandava che venissero graziati. L’esecuzione fu rinviata a un’altra data, mentre una terza persona, condannata al pari loro, venne giustiziata. Poterono fuggire dalle parti di Assisi durante la ritirata dei tedeschi verso il Nord. Rientrato a Roma, mio padre si impegnò in politica mentre la sua sorella più piccola, Rosanna, una letterata di grande sensibilità, sprofondava lentamente nella malattia mentale, la sola forma di resistenza che fosse in grado di opporre. Io l’ho conosciuta molto debole, già malata. I suoi fratelli erano stati torturati, adesso era lei a crollare a pezzi.
Credo che per tutta la sua vita mio padre si sia chiesto se non avrebbe dovuto morire sotto la tortura nazista con suo fratello. Questo sentimento di vergogna per aver fallito la propria morte io lo ritrovo in me. Mio padre ha seguito il suo destino. Si è comportato ragionevolmente secondo la sua attitudine morale. Cesare è sempre stato un uomo di dovere e di misericordia. Per me, inconsciamente, la preoccupazione di non fallire la propria morte è rimasta molto viva e interviene nelle mie scelte. La paura di non morire là dove si dovrebbe, quando si dovrebbe e per le giuste ragioni.
Ho preso ben presto una piega politica di sinistra, in reazione a mio padre, democristiano. Era il mio modo di emanciparmi dall’imponente figura paterna. Assai giovane, militavo nel movimento delle comunità di base dei «cristiani per il socialismo». In occasione di una manifestazione contro l’imperialismo americano e contro la presenza in Vietnam, venni condotto a una stazione di polizia, dove trascorsi la notte. Un’altra volta, ho sperimentato la custodia cautelare dopo un violento alterco nei pressi del liceo con militanti di estrema destra.
Nel 1973, sono stato arrestato davanti all’ambasciata americana dove avevamo organizzato un sit-in contro il golpe compiuto da Pinochet in Cile con l’aiuto degli Stati Uniti. Il giudice in seguito mi prosciolse, dal momento che ero già novizio dai gesuiti, ai quali avevo sinceramente dimenticato di parlare di questa faccenda.
Ben presto la questione palestinese è divenuta essenziale per il socialista che ero, giacché rappresentava un punto di attrito tra l’imperialismo occidentale e l’emancipazione dei popoli. Se da un lato ero sensibile all’ideale dei kibbutzim socialisti israeliani, dove avrei voluto trascorrere un’estate, d’altro canto solidarizzavo con la lotta palestinese. Ricordo una lunga e animata conversazione con un giovane ebreo della comunità romana che difendeva lo stato di Israele. Eravamo entrambi in attesa della visita medica per il servizio militare; io avevo diciott’anni, eravamo alla vigilia della guerra del 1973. La legittimità del ritorno degli ebrei in Israele era e rimane una questione pesante. Personalmente non ho mai messo in dubbio la fondatezza di tale ritorno e della creazione di uno stato israeliano, restando al contempo solidale con gli arabi cristiani e musulmani vittime dell’ingiustizia. D’altronde, ho sempre subito il fascino della Terra Santa in tutta la sua complessità: era il periodo successivo al Concilio Vaticano II e veniva sviluppandosi un forte movimento biblico innamorato della terra di Israele.
Proprio nel 1973 ho compiuto il mio primo viaggio all’estero, dal Tevere fino al Giordano. La cicogna che mi ha portato, infatti, aveva starnutito sopra Roma e io, poi, sono «tornato» in Oriente a piedi. Una delle prime tappe del mio viaggio, insieme a tre amici, è stata la visita quasi casuale al campo di sterminio di Dachau, in Germania. Si era appena stabilita in quel luogo una comunità religiosa contemplativa – cosa che mi aveva profondamente colpito. Abbiamo rapidamente attraversato il mondo comunista, l’ex Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Bulgaria, per giungere a scoprire il mondo musulmano, la Turchia, la Siria, la Giordania. Nella valle del Giordano abbiamo dormito sotto le stelle e ricordo di avere avuto un incubo. Ho svegliato i miei compagni gridando: «Vedo dei carri armati, artiglieria e un esercito che viene verso di noi!». Era un mese e mezzo prima della guerra di ottobre...
Al momento di entrare in Palestina, siamo stati respinti dall’esercito israeliano. Il senso di superiorità che i giovani soldati di Tsahal ostentavano mi ha molto turbato: forse esprimevano in quel modo la loro paura, comunque non erano corretti nei confronti dei palestinesi con cui noi viaggiavamo. Ho percepito, tra l’anziano palestinese al mio fianco e la donna soldato di fronte, l’impossibilità di comunicare. C’era un abisso culturale impressionante.
Dopo questo tentativo fallito e il mio servizio militare, ho desiderato nuovamente visitare la Palestina. Nel 1975, scopro l’ambiente arabo: l’ospitalità beduina sotto una tenda mentre percorro a piedi la Galilea, le vie islamo-cristiane di Nazaret all’alba. Mi ricordo di una passeggiata in Samaria, a Nablus. Da Betlemme a Gerusalemme si poteva, all’epoca, viaggiare a piedi, la strada era ancora abbastanza libera, senza muri. È strano che allora io non sia andato a Khalil-Hebron, la città di Abramo. Come se quella città mi attendesse oggi per portare a compimento il mio pellegrinaggio. Nel corso di quel viaggio, la solidarietà araba si è impressa nella mia anima: assolutamente non contro gli ebrei, bensì a favore del ristabilimento della giustizia e senza mai negare il peso della tragedia del popolo di Israele.
Rientrato nell’ottobre del 1975 in noviziato dai gesuiti, si dibatteva allora la questione della guerra in Libano. Ci si schierava con facilità a sinistra o a destra, dalla parte dei palestinesi oppure da quella delle milizie cristiane che agivano secondo una modalità fascista.12 La presa della Karantina, un campo palestinese, per liberare dall’accerchiamento l’enclave cristiana a est di Beirut, è stata una battaglia spaventosa. Io, in quel momento, analizzavo la situazione più in termini di scontro di classe che non su un piano identitario. In realtà i cristiani libanesi non erano tutti a fianco dei falangisti. Esisteva una sinistra cristiana libanese solidale con il progetto rivoluzionario arabo e filopalestinese, che era, all’epoca, principalmente sunnita. Gli sciiti restavano, per la maggior parte, estranei alla guerra in quel periodo.
Nel 1976, durante il mese di esercizi spirituali sui coli romani, avverto una chiamata a servire l’incontro islamo-cristiano. Non un richiamo dell’Oriente romantico, ma la netta consapevolezza che tale questione costituirà una priorità apostolica, la prossima posta in gioco importante dopo il comunismo. È questa preoccupazione che ha guidato tutto il resto della mia vita.
A Beirut nel 1977-78 studiavo l’arabo e varcavo spesso la frontiera tra la parte cristiana e quella musulmana della città, per superare la cristallizzazione comunitaria. Nello stesso periodo, l’assassinio di Aldo Moro per mano delle Brigate rosse creava in Italia uno stato di guerra. Occorre ricordare che esistevano allora dei legami tra le Brigate rosse e gruppi palestinesi di estrema sinistra, al punto che alcuni italiani erano venuti a combattere con i palestinesi.
Visitai diverse volte la Siria e sentivo una certa attrazione per quella nazione che tentava di stabilire un socialismo arabo. I cristiani vi giocavano ancora un ruolo essenziale, in particolare nelle regioni rurali, mentre le élite cittadine sceglievano l’emigrazione.
Nel settembre 1978, durante la battaglia nel quartiere di Achrafieh nella zona est di Beirut, la questione del prendere le armi mi si è posta in maniera radicale. Non nutrivo il minimo odio per i siriani che bombardavano la città, volevo battermi non per odio degli uni, ma per amore degli altri. Avrei voluto difendere i bambini che scendevano in strada con le armi in pugno. In preghiera nella cappella sventrata, al momento di decidere se impegnarmi a combattere, avevo accolto queste parole che, in arabo, avevo udito nel più intimo dell’anima: «Io voglio conservarti per un momento che verrà dopo questi tempi (Ourîduka-lizamân baada hâdha z-zaman)». Ho ubbidito a quella parola, ma provo ancora oggi un sentimento di vergogna per avere abbandonato, in quel momento, il popolo libanese. Nulla a che vedere con la scelta della nonviolenza. In Italia non ero stato obiettore di coscienza, anche se avrei potuto utilizzare il privilegio clericale che mi avrebbe esonerato dal servizio militare. Avevo voluto fare il soldato per difendere la Costituzione italiana, che era allora in pericolo. Durante la naia, con i miei commilitoni avevamo affrontato la questione di un eventuale colpo di stato militare di destra e il modo in cui avremmo reagito. Avevamo ideato un piano per occupare la caserma, prendere le armi ed entrare in clandestinità!
Nell’estate 1980, ritorno a Gerusalemme per studiare l’ebraico. È in tale occasione che ho conosciuto meglio la società israeliana, ho visitato Yad Vashem, il grande memoriale della Shoah. C’era la fotografia di una donna in un campo di sterminio, di una magrezza insostenibile, e davanti a quella foto gigantesca una donna israeliana, con un bambino in braccio, gli diceva: «Ecco i nostri antenati». La mia insegnante di ebraico, Rifka, con cui si era creato un legame d’amicizia, veniva da una famiglia greca sfuggita allo sterminio. Ero amico anche di un giovane ebreo di origine irachena. Mi aveva invitato a celebrare lo shabbat con la sua famiglia. Uno shabbat arabo ebraico: le luci delle piccole lanterne galleggiavano in un piatto pieno d’olio e il mio amico, capofamiglia, procedette alla benedizione; poi mi portò in una piccola sinagoga sefardita per la preghiera. Tra noi parlavamo in arabo.
Durante quel periodo vi erano stati gravi scontri alla frontiera nord. Israele era penetrato in territorio libanese e il mio sentimento di solidarietà faceva sì che io mi sentissi aggredito insieme agli arabi. La tensione in Cisgiordania era molto forte. Soprattutto a Gerusalemme. Quell’estate, contemplando la Spianata delle Moschee che era stata quella del Tempio, mi domandavo fino a quando quello spazio sacro sarebbe stato occupato dall’una o dall’altra comunità, prima di diventare uno spazio di riconoscimento reciproco e di fraternità. Prima di lasciare Israele, ho scritto una lettera in ebraico al ministro della Cultura per ringraziarlo della borsa di studio che mi era stata assegnata e lo informavo che, da allora in poi, avrei offerto la mia vita per la compassione e la pacificazione, nella giustizia, della regione.
Poi c’è stato un appassionante anno a Damasco, nel 1980-1981. Si sentiva crescere la tensione nel paese. I Fratelli musulmani volevano rovesciare il potere e i servizi di sicurezza erano in fermento. Io ero stato accolto come uditore alla facoltà di diritto musulmano dell’università. Tra gli studenti, un giovane sunnita di Hama che voleva andare a proporre l’islam all’Occidente mi disse: «Tu e io siamo uguali, tu vuoi predicare il cristianesimo e io l’islam». Oggi, verrebbe qualificato come islamista. Non l’ho più rivisto e probabilmente è scomparso nel massacro che ha colpito la sua città l’inverno seguente.
All’epoca, il regime di Hafez al-Asad tentava di integrare il clan alawita del presidente nel mosaico musulmano del paese. Il leader religioso sciita libanese Musa as-Sadr (scomparso nella Libia di Gheddafi nel 1978) aveva emesso un parere legale, una fatwa, secon...

Indice dei contenuti

  1. COLLERA E LUCE
  2. INTRODUZIONE
  3. LETTERA A UN GIOVANE EUROPEO
  4. 1. IMPEGNARSI
  5. 2. COMPRENDERE E PERSEVERARE
  6. 3. ACCETTARE O FUGGIRE
  7. 4. COMBATTERE
  8. 5. OPERARE PER LA MEDIAZIONE
  9. 6. A RISCHIO DI ISLAMIZZAZIONE
  10. 7. PREFIGURARE L’AVVENIRE
  11. 8. LA SIRIA NEL CUORE
  12. SCHEDA CRONOLOGICA – La Siria dal Mandato francese ai nostri giorni
  13. Ringraziamenti