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UNA VOCE DISSONANTE
Avvertimento mafioso
Quella sera padre José Maria Di Paola era di fretta. Aveva invitato alcuni preti di altre villas a discutere di come avrebbero potuto dare una mano nelle attività di prevenzione del dengue che, in quei giorni del 2009, i centri sanitari dei quartieri si trovavano a fronteggiare. Erano quasi le 20,30 di lunedì 20 aprile; gli altri lo stavano già aspettando.
Pedalava verso casa sua, nella Villa 21-24 di Barracas, sulla bicicletta che gli avevano regalato pochi giorni prima con i colori rosso e bianco dell’Huracán, la squadra di calcio di cui è tifoso. Magro, vestito in jeans e giubbotto sportivo azzurro, i capelli lisci – castani, come le sopracciglia arcuate –, di diverso rispetto a un qualsiasi abitante di quel quartiere della zona sud di Buenos Aires aveva soltanto il collarino bianco da prete sul colletto della camicia.
Passando dall’avenida Amancio Alcorta, sente una voce maschile: «Padre Pepe!?».
Si ferma. Perché non dovrebbe? Tutti lo chiamano così in quel quartiere, con il suo soprannome e riconoscendolo come «padre». Guarda nella direzione da cui l’hanno chiamato. Il posto è piuttosto scuro e desolato. C’è un uomo fermo, solo. Pepe scende dalla bicicletta e gli si avvicina. Pensa che l’uomo gli chiederà di andare a visitare qualche malato o che gli domanderà qualcosa sulle attività della parrocchia. Invece no. «Rajáte de acá, vas a ser boleta: vattene da qui o sei morto. Quando la televisione la smette con questa storia della droga, sei morto. Te l’hanno giurata», sono le sue parole.
Il prete sta per replicare, ma si ferma perplesso. Guarda l’uomo negli occhi. Non lo riconosce. Ha capelli scuri e circa quarant’anni. Non è del quartiere. L’uomo si gira e comincia a camminare verso via Alcorta. «Si fermi, si fermi, venga qua…». Ma l’altro non si ferma. E Pepe non lo segue.
Veniva da una riunione con i coordinatori dell’Hogar San José, la prima iniziativa per la prevenzione delle droghe e della violenza che aveva fondato dodici anni prima, poco dopo essere arrivato come parroco di Caacupé. Avevano organizzato le attività del sabato, la giornata di lavoro più fitta in quella casa che funge da centro diurno, dove oltre un centinaio di adolescenti (tutti maschi) va a fare colazione, a giocare a calcio, a studiare, a pranzare e a confrontarsi con gli adulti.
Risale in bicicletta e prosegue verso la parrocchia. Lì lo aspettano i suoi amici. Non dice niente. Non vuole distogliere la conversazione dal tema che li ha riuniti. Parlano del dengue. Ma padre Pepe continua a vedere il volto di quell’uomo e a sentir risuonare la sentenza: «Sei morto». Conclusa la riunione, racconta tutto ai preti che abitano con lui e ad altri sacerdoti amici.
Si preoccupano. Tutti loro, prima o poi, hanno ricevuto avvertimenti da parte di chorros o di transas (malviventi e spacciatori), per dirla con il gergo villero. Ma stavolta è diverso. Quell’uomo ha trasmesso a padre Pepe un messaggio che veniva da un altro luogo e che il sacerdote ha inteso come un messaggio mafioso. Rajá e boleta sono termini in uso a Buenos Aires, che non appartengono al gergo villero. «Perché proprio padre Pepe?», si chiedono i preti, e concludono che i mandanti della minaccia devono essersi infastiditi per gli interventi del parroco di Caacupé sui mezzi di comunicazione. Nelle ultime due settimane il suo volto e la sua voce hanno occupato (molto spazio su tutti i canali della radio e della televisione. Poiché è il coordinatore del gruppo di sacerdoti per le villas de emergencia, i giornalisti si sono rivolti a lui per avere spiegazioni sul consumo incontrollato di paco e sull’eventuale riduzione dell’età di imputabilità dei delitti, dopo che un minorenne di Barracas aveva commesso un omicidio.
Tutto il paese, tre giorni dopo (23 aprile 2009), sente la risposta di padre Di Paola che quel messaggero non ha voluto ascoltare: «Mi riesce difficile pensare di dovermene andare per una minaccia e non per un avvicendamento legato all’organizzazione della nostra chiesa. Non posso dire che cosa succederà domani, ma per adesso non penso di andarmene dalla villa. La gente di qui è la mia famiglia. Questo per me non è uno di quei lavori in cui è possibile cambiare ufficio», dichiara il sacerdote davanti alle telecamere della televisione e ai microfoni di tutte le radio. Ora tutta l’Argentina conosce padre Pepe.
Per cinque ore il prete racconta a ogni giornalista, infinite volte, quel che gli è successo. Resta rinchiuso dalle 16 alle 21 nel campo di calcetto del centro giovanile nonché scuola professionale Padre Daniel de la Sierra, che egli stesso ha avviato nel 2002 in un edificio che fino a poco tempo prima ospitava una cartiera: la seconda delle sue iniziative rivolte alla formazione e alla prevenzione delle droghe e della violenza. Sulla sua agenda è annotato che all’indomani dovrebbe percorrere, aula dopo aula, tutte le scuole della zona per invitare gli allievi alle svariate attività proposte dalla parrocchia. Invece andrà in procura a sporgere una denuncia penale per minacce di morte.
Nel corso di quell’interminabile conferenza stampa, padre Di Paola non rimane mai solo. A distanza e con discrezione, lo accompagnano altri preti del gruppo. «Meno male che sono venuti. Parlare da solo non è lo stesso che farlo con loro accanto». Non fanno altro che stare lì, bevendo mate e conversando con i giornalisti che si rivolgono a loro.
Lo scenario – il campo di calcetto imposto da padre Pepe come condizione indispensabile agli architetti che hanno ridisegnato la vecchia fabbrica –, gli attori principali – i preti – e i comprimari – i giornalisti – erano gli stessi di venti giorni prima (3 aprile 2009), quando, in un’altra conferenza stampa, avevano detto a tutta la società che la responsabilità della diffusione delle droghe, quella che finisce per incrementare la violenza, non è dei villeros bensì del narcotraffico: «Se un ragazzo ha un’arma in mano è perché qualcuno gliel’ha data». Avevano anche affermato che lo spazio della villa, «in quanto zona franca, luogo dove la polizia non entra», può favorire questo fenomeno. Infine, avevano messo a disposizione la loro esperienza di prevenzione, recupero e reinserimento affinché potesse riuscire utile ad altri settori. Erano consapevoli della rabbia che le loro parole avrebbero potuto provocare e di quanto quella partita sarebbe stata difficile. Nonostante ciò, avevano messo la palla a centrocampo, le avevano posato un piede sopra e avevano soffiato nel fischietto.
In quella conferenza stampa del 3 aprile il numero dei sacerdoti (undici) e dei seminaristi (cinque o sei) era all’incirca lo stesso di quello degli organi d’informazione che avevano risposto all’invito. In occasione della denuncia della minaccia di morte, invece, i miei colleghi si sono triplicati.
E su undici sacerdoti, dieci erano giovani e barbuti. Sono finiti i tempi in cui, anche nella chiesa, dietro ogni barba si vede un terrorista pronto a nascondere esplosivi dappertutto. Alcuni curas villeros avevano capelli un po’ lunghi, quanto basta per aggiungere un tocco d’informalità e naturalezza all’apparente rigidità del collarino da prete che tutti indossavano con orgoglio. Si presentavano con abiti piuttosto eleganti, con camicie ben stirate. Non corrispondevano al cliché del prete dei poveri che può immaginarsi chi conosca gruppi cattolici progressisti o di sinistra, dov’è abbastanza comune che il sacerdote porti i capelli lunghi, sciolti o con il codino, e che indossi magliette o camicie come quelle che gli operai usano per lavorare e non il collarino da sacerdote, come se volesse conservare l’anonimato.
Il 23 aprile l’argomento era diverso e il livello di tensione drammatica era cresciuto, ma il copione è rimasto lo stesso. «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»: entrambi gli incontri con giornalisti di testate non confessionali sono cominciati in modo atipico, «con un momentino di preghiera». I curas villeros hanno invitato tutt...