La speranza non è ottimismo
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La speranza non è ottimismo

Note di fiducia per cristiani disorientati

  1. 112 pagine
  2. Italian
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La speranza non è ottimismo

Note di fiducia per cristiani disorientati

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E se la miglior immagine per definire il credente fosse quella dell'acrobata, colui che capovolge il proprio sguardo per osservare il mondo secondo un'altra logica, in questo caso quella della fede, pur restando appoggiato alla terra? Papa Francesco ha sancito che «la cristianità è finita»: in Occidente è tramontata l'epoca in cui la fede cristiana sembrava qualcosa di acquisito, quando la religione era un comun denominatore e credere poteva costituire un dato di fatto acclarato. Con la sagacia che i suoi affezionati lettori gli riconoscono, Adrien Candiard inizia proprio da qui, per par-lare di speranza: dal vedere in faccia la realtà, senza trastullarsi in falsi teoremi, bensì partendo da quel che abbiamo sotto gli occhi. Perché è qui che Dio chiama il credente a diventare un acrobata, ovvero a guardare il mondo e i giorni con gli occhi della fede. Praticando così la vera speranza, alla scuola del profeta Geremia, maestro nello scrutare il bene presente oltre ogni desolazione. Questo libro, breve quanto rivoluzionario, ci insegna una prospettiva diversa: il cristiano ha come orizzonte l'eternità, che inizia «qui e ora», spiega Candiard, nelle nostre occupazioni più normali.

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Informazioni

Editore
EMI
Anno
2021
ISBN
9788830725171








SPERANZA
E FALSE SPERANZE
«Vivendo in un mondo infelice, dobbiamo essere ai suoi occhi i professionisti della speranza», scriveva quasi settant’anni fa, provocando i cristiani con un piccolo libro tonico, fra Ambroise-Marie Carré.3 Come rileggere senza arrossire questo compito che egli ci assegnava? Se il ruolo dei cristiani è ridare una speranza al mondo, direi che noi, presi collettivamente, siamo dei mediocri professionisti. Non parlo, evidentemente, dei cristiani ammirevoli che tutti conosciamo, i quali hanno saputo trasmetterci la fede e sanno diffondere attorno a sé gioia di vivere, entusiasmo, voglia di fare bene. Ce ne sono, grazie a Dio, nelle parrocchie, nei quartieri, nelle associazioni, negli ambienti di lavoro, dovunque attorno a noi. Ci rendono la vita più facile, più felice. Non so se siano dei «professionisti» della speranza: per lo meno sono degli splendidi dilettanti.
Parlo piuttosto del nostro contributo in quanto cristiani al dibattito pubblico, con le sue mode, le sue idee più o meno nuove, le sue angosce e le sue passioni collettive. E su questo terreno trovo proprio noi cristiani piuttosto poveri di speranza. Ancor più poveri dei nostri compatrioti, e non dico poco.
Siamo preda di una depressione sociale generalizzata, e non mi dilungherò su questo perché ne conosciamo tutte le coordinate, le cause e gli effetti dall’a alla zeta. Sappiamo che l’economia va male, procede di crisi in crisi. Io sono nato nel 1982 e, da quando ho l’età di interessarmi dell’attualità, non ho mai sentito parlare che di crisi economica: a questo punto non è più una crisi, è una malattia cronica. E questo non preoccupa unicamente i finanzieri e gli industriali che hanno grandi fortune da perdere. Sappiamo che dietro le cifre un po’ deprimenti che descrivono lo stato della nostra economia c’è la disoccupazione, c’è l’angoscia di perdere l’impiego, che fa accettare condizioni di lavoro quali che siano, ci sono attività distruttrici e attività distrutte, nella scuola regnano stress e scoraggiamento, ci sono drammi concreti che superano di gran lunga i problemi dei grandi business cui potremmo riservare solo un’alzata di spalle.
E sappiamo che la disperazione è ancora più profonda di questo. Se avessimo soltanto a che fare con la questione dell’efficacia del nostro modello economico! Ma noi soprattutto viviamo in un mondo che cambia sempre più in fretta, senza che il senso di tanti sconvolgimenti ci appaia mai con chiarezza. Di qui nascono interrogativi senza fine, e sempre più inquietanti, sulla nostra identità. Quando arriviamo a domandarci chi siamo, è segno che la crisi è già molto avanzata.
Non si tratta solamente degli sbarchi di immigrati spinti all’esilio dalla guerra o dalle disuguaglianze clamorose del nostro pianeta. Naturalmente le migrazioni, fenomeno peraltro non nuovo, mettono in discussione il quadro culturale cui eravamo avvezzi e che ci sembrava imperituro. È una situazione evidentemente scomoda, tanto più inquietante in quanto non si vede bene quale nuovo quadro culturale, anche meticciato e aperto sul mondo, possa emergere e venire a sostituire Corneille e Racine, le Favole di La Fontaine borbottate fin dai sei anni di età e «i Galli nostri antenati».4 L’Italia è sembrata rimanere a lungo immune da questi dibattiti identitari; ma la crescita dell’immigrazione, recente rispetto alla Francia, vi ha fatto sorgere le stesse inquietudini riguardo alla continuità di una cultura autenticamente nazionale.
C’è però qualcosa di disonesto nell’accusare l’immigrazione di essere l’unica responsabile di questo malessere, come invece si compiacciono a ripetere certi polemisti avidi di spiegazioni semplici. La questione è ben più profonda di questo, più seria che non la messa in pericolo di una cultura a motivo dell’arrivo di altre culture; anche all’interno di una stessa famiglia, quali sono i nonni che possono vantarsi di capire ancora i loro nipoti? Trasmettere la propria cultura in seno alla propria famiglia appare come una missione impossibile. Questa reciproca incomprensione tra generazioni, in un mondo dove i punti di riferimento cambiano a velocità da capogiro, è infinitamente dolorosa, perché ci tocca al cuore di noi stessi, al cuore di ciò che ci sembra essere l’essenziale, di ciò che è degno di essere trasmesso. Non è cosa nuova che tra generazioni ci si intenda a fatica, e che i più giovani ritengano gli anziani inadatti ai tempi moderni; la novità è che questo non è mai stato così vero come adesso. Quale capitale di esperienza e di bellezza si può mai trasmettere quando ci si sente già superati, quando la tecnologia, certamente, ma anche gli assetti morali o i criteri estetici cambiano a tutta velocità? Trasmettere una cultura è pretendere, in qualche modo, di spiegare il mondo a chi è più giovane. Ma come spiegare ciò che non si capisce più?
Sono qui riuniti tutti gli elementi di un malessere profondo; ma la situazione diventa tragica quando si aggiunge, a questi movimenti di fondo così destabilizzanti, l’esplosione di una violenza inattesa e incomprensibile. Dopo decenni di una pace che si credeva definitiva, difesa dalle minacce esterne grazie a una forza militare dissuasiva, gli attentati che hanno insanguinato la Francia a partire dal 2015 hanno dimostrato che, con ogni evidenza, l’Europa non era uscita dalla storia e che la pace perpetua è solo un’altra utopia. Nulla è acquisito una volta per sempre, e sicuramente non la sparizione della violenza.
Va inoltre annotato che forse la cosa più insopportabile, in questi attentati, è il loro carattere di incomprensibilità. Tutti a cercare di capire, di spiegare l’inspiegabile. Perché l’angoscia non nasce solo dalle difficoltà oggettive. Essa viene anche dal fatto che queste difficoltà resistono alla nostra comprensione. Una disgrazia non è meno grave quando si riesce a spiegarla, ma è più sopportabile. È per questo, d’altronde, che così spesso preferiamo una spiegazione aberrante all’assenza di spiegazioni: i nostri antenati davano ragione delle calamità con il peccato, per quanto il vangelo si opponga formalmente a questo genere di ipotesi; e avremmo torto a farci beffa di loro sapendo che, secondo un sondaggio recente, un francese su cinque crede, oggi, che gli Illuminati, una sette bavarese esistita nel XVIII secolo per una decina scarsa di anni, tirino i fili dell’economia mondiale. Non si tratta di organizzare una gara delle spiegazioni più strambe o più deliranti, ma non è molto difficile vedere come le società reagiscano, in questo, come gli individui: colpiti da un cancro, molti uomini e donne istruiti e razionali s’interrogano sulla causa della loro disgrazia, su quello che hanno fatto per meritarselo. E dal momento che la medicina non dispone, in generale, di molte risposte per simili interrogativi poco scientifici, costoro sono disposti ad affidarsi al primo guru che passa capace di fornire loro una spiegazione, anche la più stravagante, anche la più ridicola. Un senso grottesco è sempre meglio che nessun senso.
Ora, i cambiamenti sempre più rapidi che dobbiamo affrontare non sono unicamente incomprensibili: sono anche distruttivi delle cornici esplicative che permettevano di capire il mondo reale. Lungo gli interi secoli XVIII, XIX e XX, i cambiamenti economici, sociali e culturali sono stati accompagnati da una spiegazione potente che ha strutturato il nostro immaginario e la cui scomparsa ha lasciato un enorme vuoto: la speranza nel progresso, continuo, ineluttabile, generale. Il mondo cambiava, certo, ma per migliorare. Lasciare il cavallo per il trattore era un grosso sconvolgimento non sempre gradevole della maniera di vivere, del paesaggio, ma intanto ci si lasciava la fame alle spalle, cosa evidentemente consolante. Quella speranza, quella falsa speranza, che contava sul senso della storia per migliorare le cose, è morta e sepolta: tutto continua ad andare sempre in fretta, e anche più in fretta, ma noi non ci guadagniamo più granché. Perdere il lavoro in cambio di uno smartphone puzza troppo di imbroglio. Tanto più che il progresso non prometteva solamente una società dell’abbondanza – alla quale non crediamo più. Doveva essere generale: non solo economico e sociale ma anche politico, intellettuale e morale. Adesso invece vediamo l’avvenire attraverso i tristi colori di un riscaldamento climatico di cui nessuno osa più negare la realtà, e di una catastrofe ecologica pressoché inevitabile e ovviamente alquanto ansiogena.
Noi abbiamo ormai un grande avvenire dietro le spalle. Ciò che ci viene promesso non è più granché desiderabile. Progredire, per noi, non è più migliorare ma evitare di peggiorare le cose: consumare meno in fretta le nostre risorse, degradare di meno i suoli e l’atmosfera, insomma astenersi dal distruggere troppo il pianeta. Peraltro, che siano possibili dei progressi, e auspicabili, nessuno lo mette in discussione; che essi siano il frutto ineluttabile della storia, il che spiegherebbe gli sconvolgimenti che subiamo, nessuno può più crederlo. Ora, il progresso non dava soltanto un senso, dava anche una speranza. Noi ci ritroviamo perciò privati e dell’una e dell’altro.
Questo, per quel che riguarda il malessere generale. Ma c’è anche un malessere specifico, quello dei cristiani. Mentre la speranza è, come abbiamo appreso, una virtù, anzi una virtù teologale, una virtù di prim’ordine, di prima qualità, una virtù che si è meritata una magnifica poesia da parte di Charles Péguy, noi cristiani non parliamo mai di speranza. «Siate pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi», ci esorta l’apostolo Pietro (1Pt 3,15). Ma per dare speranza al mondo bisognerebbe averne uno stock in magazzino. Ora, lungi dal rafforzare la nostra speranza, spesso la nostra fede la rende ancor più fragile.
Il problema è che la fede, dalle nostre parti, non gode di buona salute. La chiesa retrocede. Come credenti, viviamo più una via crucis che non una marcia trionfale.5 Certo, in Europa non subiamo persecuzioni, felicemente. Di più: non è raro incontrare una comunità cristiana dinamica, un prete entusiasta, dei cristiani luminosi. Ma non è il caso di soffermarsi troppo sulle statis...

Indice dei contenuti

  1. PREFAZIONE di Erio Castellucci
  2. INTRODUZIONE
  3. SPERANZA E FALSE SPERANZE
  4. SPERARE PER LA VITA ETERNA
  5. CONCLUSIONE
  6. RINGRAZIAMENTI
  7. NOTA ICONOGRAFICA a cura di Giuseppe Frangi