Frontiera Amazzonia
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Frontiera Amazzonia

Viaggio nel cuore della terra ferita

  1. 397 pagine
  2. Italian
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Frontiera Amazzonia

Viaggio nel cuore della terra ferita

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L'Amazzonia non è un mondo altro, lontano ed esotico. È lo specchio del nostro. Ed è una questione di vita o di morte. Nostra, loro, di tutti.Oro, petrolio, rame, legname, coltivazioni intensive. Le sfavillanti ricchezze dell'Amazzonia oggi sembrano assumere i colori tetri della sua rovina. Lo sfruttamento dei beni naturali in quell'area del pianeta causa una spoliazione drammatica delle sue risorse che interessa – letteralmente – tutto il mondo: ogni cinque bicchieri d'acqua che beviamo, uno viene dall'Amazzonia.Ma questa non è solo una questione ecologica: i drammi sociali generati da tale abuso selvaggio stanno sconvolgendo popolazioni indifese, lasciate in balia della legge del più forte. Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, giornaliste che non si rassegnano al sentito dire, hanno seguito il corso del Rio delle Amazzoni. E qui raccontano la terra amazzonica e i popoli che vi abitano tramite un prisma di situazioni-limite, ad esempio lo sfruttamento selvaggio delle miniere di rame nella Cordillera ecuadoriana e i traffici di legname che grondano sangue sulla Triple frontera tra Colombia, Brasile e Perù. Danno voce a chi resiste alla forza dell'agrobusiness in Brasile e prestano ascolto agli indios che rifiutano di abiurare al proprio stile di vita. Il racconto delle ferite dell'Amazzonia odierna, che troviamo in queste pagine, è illuminato dalle storie delle tante persone che ogni giorno lottano perché la bellezza di quella terra e la dignità di quelle genti restino vive e continuino a parlarci.

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Informazioni

Editore
EMI
Anno
2019
ISBN
9788830724532
CAPITOLO 1
MADRE DE DIOS, LA SORGENTE AVVELENATA
Giallo-oro. Puerto Maldonado, Perù
Uno squillo prolungato. Sul display appare un numero sconosciuto. Luis Alberto Sánchez, però, non esita a rispondere. «Fa’ che sia lei», dice tra sé. Dal microfono filtra una voce impastata. «Ho sonno. Non riesco a dormire. Venite presto…». Le parole pesano come macigni. Le forze cedono. Isabel è sfinita. Il castigliano si annebbia e riaffiora il quechua, la lingua madre. Così si esprimeva a Puno, la sua città, immersa nel silenzio maestoso della Cordigliera. Quel silenzio che ora le manca. Isabel darebbe anche ciò che non ha per un giorno senza la musica prepotente lanciata nell’aria dagli stereo accesi 24 ore su 24. Da quando è arrivata, un mese fa, non riesce a chiudere occhio. Ora, però, l’incubo potrebbe finire. Lo spera con tutta sé stessa. Per questo, è riuscita a trovare il coraggio nonostante i suoi 15 anni. Ha sfidato la paura. E ha chiamato il giovane capo della procura antitratta di Puerto Maldonado. È la terza volta nell’ultima settimana. Sempre dal cellulare di un cliente. Un giovane gentile a cui ha detto di voler salutare la famiglia. Invece, ha telefonato al magistrato. Il numero l’ha avuto da un’altra ragazza. Non è difficile comunicare con Luis Alberto Sánchez, lui stesso cerca di diffondere il più possibile i suoi contatti perché le vittime di tratta sappiano a chi rivolgersi.
Le informazioni di Isabel, però, sono confuse. L’adolescente non sa dove si trova. Nell’intervallo tra una chiamata e l’altra ha cercato di raccogliere qualche dato. Il procuratore ha intuito la zona: Balata, uno delle migliaia di accampamenti minerari illegali che arricchiscono le mafie e deturpano la selva. In ogni caso, sa che deve agire in fretta. «Le giovani sono spostate di frequente, senza preavviso. Gli stessi avamposti di estrazione non durano più di sei mesi», spiega il procuratore antitratta.
Quel 18 gennaio 2018, però, è una data particolare per Puerto Maldonado. Entro 24 ore, papa Francesco sarebbe atterrato nella capitale della biodiversità, il cuore della regione amazzonica di Madre de Dios, per iniziare il suo itinerario in terra peruviana. Da giorni, le operazioni di salvataggio sono congelate. Ufficialmente per questione di sicurezza. Non è difficile supporre, però, che le autorità locali e nazionali vogliano evitare di richiamare l’attenzione delle centinaia di giornalisti presenti su una questione scomoda come il traffico di esseri umani.
Sánchez non è il genere di persona che si dà per vinta facilmente. Dopo l’ultimo colloquio con Isabel si attacca al telefono e tempesta di chiamate i piani alti. Alla fine, il via libera al blitz arriva. Mentre il pontefice riceve l’abbraccio amazzonico dei popoli di Madre de Dios, arriva, per bocca dello stesso Sánchez, la notizia: Isabel non è più una schiava dell’oro sporco. Come le altre migliaia e migliaia di bimbe e donne-trofei, vendute ai forzati delle miniere clandestine. Cave tossiche a cielo aperto che divorano la foresta e le vite degli esseri umani.
La concomitanza di eventi non poteva essere più opportuna. Per la saggezza ancestrale dei popoli indigeni, l’Amazzonia è donna, è madre. Di certo, proprio i volti femminili delle sue figlie riassumono lo scempio attuale. Visi sfregiati, lacerati, tumefatti da un’economia di rapina. In cui la casa comune è trasformata in risorsa da sfruttare e i suoi popoli in ricambi a basso costo dell’ingranaggio del profitto a oltranza. È questa «l’economia che uccide». In pochi luoghi come in Amazzonia il suo potere letale appare con tanta evidenza. Qui, a Madre de Dios, caduto il velo della civiltà, l’occhio umano percepisce con inequivocabile chiarezza come devastazione ambientale e catastrofe sociale siano le due facce di una medesima, tragica, realtà.
Se, come dicono molte comunità indigene amazzoniche, la «Bibbia è scritta sugli alberi», l’enciclica Laudato si’ è incisa nei suoi fiumi avvelenati e nelle rocce nude. Dove «i gemiti di sorella terra si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo».
Eppure, il 19 gennaio 2018, «l’economia che uccide» ha mancato il bersaglio. Almeno una volta. Isabel è libera.
È già cominciato, dalla sorgente
«Ho voluto iniziare da qui la visita in Perù. Grazie per la vostra presenza e perché ci aiutate a vedere più da vicino, nei vostri volti, il riflesso di questa terra. Un volto plurale, di un’infinita varietà e di un’enorme ricchezza biologica, culturale, spirituale. Quanti non abitiamo queste terre abbiamo bisogno della vostra saggezza e delle vostre conoscenze per poterci addentrare, senza distruggerlo, nel tesoro che racchiude questa regione. E risuonano le parole del Signore a Mosè: “Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo”. Prego per voi e per la vostra terra benedetta da Dio, e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie! Tinkunakama».
Le nuvole sfumano nell’intreccio d’acque dei fiumi Tambopata e Madre de Dios. Calda e liquida, l’aria avvolge il Coliseo di Puerto Maldonado, dove 4000 rappresentanti delle diverse comunità indigene dell’Amazzonia si sono riuniti per vedere papa Francesco. Lo hanno atteso sulla terra rossa in cui vive e muore la foresta. Con 21 mesi di anticipo sull’inizio ufficiale. Là è iniziato il sinodo sull’Amazzonia. Come a Bangui, il papa utilizza e spalanca porte di servizio, perché il grido di dolore e di resistenza degli ultimi possa risuonare al petto della chiesa universale e del mondo. E ha scelto di indire il viaggio dalle sorgenti. Perché il Grande fiume da cui l’Amazzonia prende vita e nome ha la sua origine proprio negli anfratti delle monumentali montagne peruviane. Là, nella cordigliera Chila, alle pendici del monte Mismi, dove sgorga l’Apurimac, che vuol dire «grande oratore» in quechua, l’idioma parlato dagli eredi degli Inca. Lo stesso idioma con il quale il papa ha salutato le popolazioni indigene a Puerto Maldonado: «Tinkunakama», «al prossimo incontro». Sebbene i 390 popoli amazzonici parlino lingue differenti, il quechua ha il suono materno della sorgente. Un idioma familiare alle varie comunità. Non a caso è stato quello in cui i primi missionari provarono a raccontare la buona notizia del Vangelo. «Tinkunakama», allora, non è solo un saluto di circostanza ma la possibilità di un incontro possibile con e per la foresta di uomini e donne sparsi su 7 milioni e mezzo di chilometri quadrati di terra, alberi e acqua.
Nelle viscere di Madre terra
Non c’è separazione. L’acqua, la terra e il cielo hanno la stessa sfumatura ambrata dell’oro grezzo. Adesso, però, non è il verde foresta, con le sue infinite gradazioni, il colore dominante a Madre de Dios, ma il giallo ocra. La stessa tinta del metallo vorace e implacabile che divora le viscere della selva e le sue genti. Eppure, questa regione che prende il nome dall’omonimo fiume – uno dei molti affluenti del Rio delle Amazzoni – nei suoi oltre 85.000 chilometri quadrati di estensione custodisce la maggior diversità biologica dell’Amazzonia peruviana. Tra gli alberi, è racchiuso un mosaico di 1000 specie di uccelli, 132 di rettili, 155 di anfibi, 1200 di farfalle, molte delle quali in via di estinzione. È possibile perfino incontrare felini rari e stupendi come il puma e il tigrillo, un enorme gatto selvatico, protagonista – insieme con il «vecchio che leggeva romanzi d’amore» – dell’omonimo romanzo di Luis Sepúlveda. Il 44 per cento della zona è stato, dunque, dichiarato area protetta, con la costituzione delle riserve Alta Purús, Amarakaeri, Parco nazionale Manu, Parco nazionale Bahuaja-Sonene e Tambopata. Scrigni intangibili, in teoria. In pratica, finora, la fame d’oro ha avuto la meglio sulla preservazione.
Del resto, Madre de Dios è sempre stata considerata dal centro decisionale politico di Lima un bacino di risorse da estrarre per ritagliarsi uno spazio nelle rotte del commercio internazionale.
Prima dell’oro metallico, alla fine dell’Ottocento ci fu l’«oro bianco», il caucciù, la gomma naturale ricavata della Hevea brasiliensis, albero tipico dell’Amazzonia. Madre de Dios, la regione boliviana del Beni e quella colombiana del Putumayo furono gli epicentri della produzione. A creare i primi accampamenti peruviani fu Carlos Fermín Fitzcarrald, l’avventuriero protagonista del celebre film di Werner Herzog. Il boom del caucciù coincise con una delle epoche più tragiche per l’Amazzonia e i suoi popoli. Solo i nativi erano in grado di riconoscere gli alberi della gomma, grazie al verso degli uccelli che vi fanno il nido. Nonché di sopportare lo straziante lavoro di seringueiro, che implica lo stare avvinghiati alle piante tutto il giorno, per estrarre manualmente il lattice, poi coagulato. Si trattava di un impiego contro natura per gli indigeni: ferire gli alberi fino a fare uscire dalla loro pelle il sangue bianco e viscoso era considerato un abominio. Lo facevano solo perché costretti. Nel senso letterale del termine. Le caucherías erano razzie durante le quali gli indios venivano catturati e condannati alla schiavitù del caucciù. Vigilati a vista da guardie armate, per ogni minima infrazione erano sottoposti a punizioni aberranti, inclusa l’amputazione di arti.
Nessuno saprà mai quante vite siano state ingoiate dalla febbre del caucciù. Lo scrittore Wade Davis parla di dieci indigeni assassinati per ogni tonnellata prodotta. Oltretutto, la violenza feroce provocò un trauma culturale e sociale fortissimo nella mentalità india che, tuttora, si riflette nella cronica sfiducia nei confronti dello stato. Gli Harakbut, uno dei popoli di Madre de Dios, arrivarono a un passo dall’estinzione. Se riuscirono a fermarsi in tempo, fu grazie a un missionario domenicano giunto a queste latitudini all’inizio del Novecento. Si chiamava José Álvarez Fernández, ma gli Harakbut l’avevano soprannominato «papà anziano e saggio», nella loro lingua apaktone. Lo stesso nome con cui gli Harakbut hanno chiamato papa Francesco.
L’industria brutale della Hevea e della sua gomma vegetale andò avanti per decenni, fino a quando, con la fine della seconda guerra mondiale, quella sintetica non la scalzò dal centro del mercato internazionale. La brama mondiale di materie prime s’è spostata sulla castagna, quindi sul legname. All’inizio degli anni Duemila, con il prezzo del metallo alle stelle, è esplosa la «febbre dell’oro». E con essa si sono moltiplicate le miniere.
A Madre de Dios, in realtà, l’attività estrattiva si è iniziata negli anni Settanta, in concomitanza con la conclusione dell’esperienza delle missioni domenicane di San José de Karene e Puerto Luz. Centinaia di coloni delle province limitrofe hanno approfittato dell’assenza di testimoni scomodi per invadere le terre dei sette popoli indigeni della regione: Harakbut, Yine, Amahuaca, Shipiboconibo, Eseeja, Matsiguenga e Quichuaruna. L’immigrazione è stata massiccia. Tuttora, i nativi rappresentano appena l’8 per cento dei quasi 350.000 abitanti.
Lungo le rive dei fiumi, ricchi del metallo, sono comparse le prime cave a cielo aperto. Avamposti artigianali, che si basavano sull’impiego di poche macchine e molto lavoro umano. L’impatto c’era, ma non così invasivo come nel caso delle miniere professionali. A subirlo, in particolare, erano le comunità indigene espropriate dei loro territori.
Il conflitto si è protratto per decenni. Lo stato, incapace di risolverlo, ha finito per accettare lo status quo e dare una sorta di riconoscimento alle miniere artigianali, seppure in forma precaria, all’inizio dell’attuale millennio. A questo punto, però, lo scoppio di un nuovo boom dell’oro aveva già modificato completamente lo scenario di Madre de Dios.
La febbre dell’oro
Due sono stati i detonatori della grande esplosione aurifera. Il primo, dall’anno 2000, la costruzione della monumentale autostrada Interoceanica. Oltre 5000 chilometri d’asfalto che collegano il Perù al Brasile senza passare per la Bolivia. Il gigantesco cantiere, rimasto aperto ben oltre un decennio e costato quattro volte la somma pattuita,
ha richiamato migliaia e migliaia di immigrati dal resto del paese. Soprattutto dalle zone più povere. Per questo, molti, una volta terminato l’impiego, sono stati arruolati – o meglio intrappolati – nel circuito dell’oro. Nel frattempo, l’estrazione ha smesso di essere un’attività di sussistenza. L’incremento esponenziale, vent’anni fa, del prezzo del metallo sul mercato mondiale l’ha trasformata in un business miliardario.
Dall’inizio del Duemila, il valore dell’oro ha preso a lievitare al ritmo del 18 per cento all’anno, fino al record di più 360 per cento in un decennio. Il picco è stato raggiunto nell’agosto 2011, quando un chilo è stato quotato 60.000 dollari. I margini di profitto per i produttori sono rimasti enormi nonostante il calo degli anni successivi: nel 2018, il prezzo di un chilo d’oro è sceso intorno ai 40.000 dollari. Al contempo, una marea umana di disperati dalle Ande si è riversata nella zona alla ricerca di una possibilità di esistenza, per quanto disumana. Solo tra il 1993 e il 2007, Puerto Maldonado ha raddoppiato la propria popolazione raggiungendo quota 60.000 abitanti.
Data la cronica assenza dello stato e la corruzione dilagante, è stato facile per le mafie insinuarsi nel giro d’affari. Non si tratta solo di gruppi criminali locali. Le bande attive a Madre de Dios, in genere, lavorano con le grandi organizzazioni: dai narcos colombiani alla nostra ’ndrangheta, come hanno dimostrato una serie di inchieste delle autorità peruviane fin dal 2012.
Sotto la loro tutela, l’attività si è professionalizzata con l’impiego di macchin...

Indice dei contenuti

  1. PREFAZIONE di Cláudio Hummes
  2. INTRODUZIONE
  3. CAPITOLO 1 MADRE DE DIOS, LA SORGENTE AVVELENATA
  4. CAPITOLO 2 L’INGANNO DELLA CORDIGLIERA DEL CÓNDOR
  5. CAPITOLO 3 I POZZI NERI DI SUCUMBÍOS
  6. CAPITOLO 4 LA NARCO-AMAZZONIA DEL PUTUMAYO
  7. CAPITOLO 5 IL LEGNO INSANGUINATO DELLA TRIPLE FRONTERA
  8. CAPITOLO 6 NELLE TERRE ANCESTRALI DEL JAVARÍ
  9. CAPITOLO 7 LA SOIA KILLER DEL RORAIMA
  10. CAPITOLO 8 GLI INVISIBILI DI MANAUS
  11. CAPITOLO 9 «MISSION» DAL RIO DELLE AMAZZONI
  12. APPENDICE UNA RETE PER L’AMAZZONIA
  13. RINGRAZIAMENTI