Nelle mani dei mercati
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Perchè il TTIP va fermato

  1. 167 pagine
  2. Italian
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Perchè il TTIP va fermato

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TTIP: se lo conosci lo eviti. Per decifrare la sigla bisogna sapere l'inglese (e allora traduciamolo: Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti), ma per capirne il contenuto basta conoscere le imprese. Ormai quelle che contano sono le multinazionali, imprese così grandi per cui nessuna nazione contiene abbastanza consumatori da assorbire tutti i loro prodotti. Per espandersi hanno bisogno di scorrazzare liberamente per il mercato-mondo in modo da collocare in ogni punto del pianeta le loro merci standardizzate. Ma l'ostacolo sono le leggi nazionali che in nome dell'ambiente, della salute, dell'occupazione pongono limiti all'andirivieni delle multinazionali e delle loro merci dannose. Ed ecco accordi come il TTIP, che hanno lo scopo di mettere la museruola ai parlamenti nazionali per obbligarli a eliminare ogni regola che limiti il profitto e gli affari. Se vuoi evitare di trovarti la tavola inondata di cibi Ogm, di avere ogni servizio pubblico dominato da multinazionali, di dover sborsare miliardi di euro per indennizzare multinazionali che reclamano i danni per leggi emanate a difesa del bene comune, questo è il momento di organizzarci per dire no al TTIP.Contiene l'appello di Alex Zanotelli contro il «Partenariato Translatlantico per il Commercio e gli Investimenti»

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Informazioni

Editore
EMI
Anno
2016
ISBN
9788830723061
1
IL TTIP, UN’IDEA CHE PARTE DA LONTANO
Le fasi di un percorso
Definire un punto di partenza delle relazioni transatlantiche è in realtà un esercizio di stile. Molti sono stati gli scambi, le relazioni e i conflitti dalla tarda epoca moderna fino ai giorni nostri. Ma il consolidamento di un asse Usa-Ue, se non altro in termini di politiche economiche e di libero mercato, non si può ridurre alla risultante di relazioni sempre più approfondite e condizionate (non poco) da cinquant’anni di guerra fredda e di politiche neocoloniali in Medio Oriente per l’accesso alle risorse energetiche. Va inserito nel periodo che va immediatamente dopo il crollo del Muro di Berlino e della Cortina di ferro, quella fine degli anni Ottanta che ha visto la vittoria socialmente violenta del neoliberismo reaganiano a Washington e thatcheriano a Londra, e che ha fatto dire a Francis Fukuyama che la Storia era finita. Al di là delle relazioni già in essere a livello multilaterale (la Nato dal punto di vista della sicurezza, il Gatt, più tardi sostituito dal Wto, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale sul lato economico finanziario, il G7 sulla questione della governance, giusto per citarne alcuni), dai primi anni Novanta si sviluppano vere e proprie piattaforme di confronto e di cooperazione tra le due sponde dell’Atlantico con l’obiettivo di integrare sempre più i due mercati.
Il 27 febbraio del 1990, sotto l’egida del presidente statunitense George W. Bush e del presidente della Commissione europea Jacques Delors, prende corpo la Transatlantic Declaration, con l’obiettivo di consolidare un terreno comune di confronto «per una consultazione intensa e regolare».
I tre principali obiettivi erano la liberalizzazione economica, la cooperazione nella lotta al crimine, al terrorismo internazionale e al degrado ambientale, e la cooperazione scientifica e culturale. Una base di partenza che non si sviluppò secondo le aspettative, al punto che le diplomazie transatlantiche dovettero mettere in campo più creatività per riempire un gap che, secondo gli interessi economici dominanti, si sarebbe dovuto colmare al più presto.
Fu per questo che nel 1995, durante il vertice Usa-Ue di Madrid, fu lanciata la New Transatlantic Agenda che tra le aree prioritarie vedeva un contributo «all’espansione del commercio mondiale e alla promozione di relazioni economiche più strette» per la liberalizzazione del commercio di beni e servizi e degli investimenti, sia sul versante bilaterale che su quello multilaterale. Un passo ulteriore per sancire la sempre maggiore influenza che gli Stati Uniti cercano di avere sulle relazioni commerciali con l’Europa dopo la caduta della superpotenza sovietica, un’espansione che aveva già visto la conclusione di trattati bilaterali di liberalizzazione degli investimenti con Paesi dell’ex Est socialista (come la Polonia).4
Bisognerà però arrivare all’aprile 1998 per trovare una strada maestra che, con il passare degli anni, porrà le basi per il Ttip. Non a caso aveva un nome simile, Transatlantic Economic Partnership, e vedeva tra i principali obiettivi «la rimozione delle barriere tecniche al commercio di beni attraverso un ampio processo di mutuo riconoscimento e/o di armonizzazione» di regole e standard accompagnato, entro il 2010, dall’eliminazione di «tutte le tariffe sui beni industriali», «la formazione di un’area di libero scambio per i servizi» e «l’ulteriore liberalizzazione nelle aree degli appalti pubblici, dei diritti di proprietà intellettuale e degli investimenti». Un programma onnicomprensivo, che prevedeva persino un meccanismo di early warning, un vero e proprio preavviso informato della controparte su ogni eventuale nuova regolamentazione messa in agenda dai Parlamenti e dai governi che potesse condizionare gli scambi commerciali tra i due Paesi. Lo stesso meccanismo previsto successivamente nella regulatory cooperation del Ttip, ma con una sostanziale differenza: mentre nel Tep si parlava di processo di consultazione senza che fosse richiesta una revisione della normativa in fieri (e neppure un coinvolgimento degli organi legislativi), il Ttip prevede un ulteriore sviluppo, con un coinvolgimento quasi esclusivo dei soli organismi tecnici e con l’obiettivo di mettere in discussione alla radice le normative proposte.
Gli spazi dove discutere e procedere su obiettivi tanto ambiziosi sono svariati, ma con pesi paradossalmente diversi: il Dialogo transatlantico tra legislatori (Transatlantic Legislators’ Dialogue), che avrebbe dovuto creare collaborazione tra Parlamento europeo e Congresso statunitense, non ha svolto il compito assegnatogli anche per limiti intrinseci (vi partecipavano solo i parlamentari interessati, non le commissioni realmente coinvolte nel processo legislativo); degli altri Dialogue creati (il Transatlantic Consumer Dialogue - Tacd, per i consumatori; il Transatlantic Labour Dialogue - Tald, con il coinvolgimento dei sindacati; il Transatlantic Environmental Dialogue - Taed, sulle questioni ambientali; il Transatlantic Business Dialogue - Tabd, con il settore privato) solo quest’ultimo fu realmente sostenuto e coinvolto (basti pensare che l’Environmental Dialogue sospese le attività nel 2000 dopo un taglio dei finanziamenti da parte statunitense).5
Il Tabd rappresenta le 200 principali multinazionali transatlantiche6 ampiamente coinvolte nel processo di integrazione dei due mercati; basti pensare che, secondo una ricerca del Robert Schuman Center for Advanced Studies,7 il Tabd avrebbe partecipato «attivamente al sistema transatlantico di early warning, identificando nei suoi rapporti annuali quelle normative e regolamentazioni che potevano creare ostacoli agli investimenti e al commercio transatlantico». E sarà proprio il Tabd a spingere maggiormente per un processo negoziale più deciso e diretto: la Transatlantic Trade and Investment Partnership o, per gli amici, Ttip.
Bisognerà in verità aspettare la progressiva crisi del sistema multilaterale per dare spazio e nuova energia ai trattati bilaterali di libero scambio. Il negoziato di Doha, lanciato nel novembre del 2001 alla Ministeriale del Wto in Qatar, non ha risposto alle aspettative di chi avrebbe voluto sdoganare in pochi anni l’Agenda per lo Sviluppo (Doha Development Agenda - Dda). La crescita di peso e di influenza dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) all’interno dei negoziati, sia direttamente nel gruppo informale del G20 che più indirettamente nel G77, ha di fatto impedito una chiusura in tempi brevi del negoziato commerciale multilaterale; basti pensare che l’unico accordo realmente sancito in ambito Wto è stato concluso nel dicembre 2013 a Bali, in Indonesia, sulle questioni di agevolazione degli scambi (riguardanti soprattutto le dogane) e sul Food Sovereignty Act indiano (sull’intervento pubblico in agricoltura), ma nessun passo avanti è stato fatto sulla Dda, al punto che la questione della liberalizzazione dei servizi è portata avanti in un negoziato plurilaterale parallelo (il Tisa), mentre sono saltati i negoziati per la conclusione di trattati bilaterali.
Dopo aver investito per anni principalmente sul multilaterale, nel 2007 l’Unione europea con il suo commissario al Commercio Mandelson ha presentato la sua nuova politica commerciale. Il documento Global Europe: Competing the World8 disegna il quadro delle politiche commerciali europee del terzo millennio, ed ecco che a fianco del multilateralismo appare l’esigenza di stringere più Fta (Free Trade Agreements, accordi di libero scambio) al di fuori dell’arena del Wto. Una politica che ha portato a concludere decine di trattati,9 gli ultimi dei quali hanno aperto il mercato con i Paesi centroamericani (nel 2013), con Singapore e con il Canada (nel 2014). Proprio l’accordo con il Canada, il Ceta, in attesa di ratifica da parte del Parlamento europeo, è stato identificato da molti – Commissione europea in testa – come un trattato modello a cui il Ttip si potrà ispirare.
È un suggerimento utile, perché permette di capire come potrebbero essere affrontate e risolte alcune questioni (come gli organismi geneticamente modificati, gli Ogm, per nulla esclusi dal Ceta ma piuttosto gestiti secondo un «approccio basato sulla scienza», lo stesso usato dalla Food and Drug Administration, ben lontano dal principio di precauzione europeo), ma anche quali problemi potrebbero emergere, visto che, ad esempio sulle Indicazioni geografiche, le lobby americane hanno già detto che non si ripeterà quello che si è visto nel Ceta, chiudendo definitivamente la porta a qualsiasi ambizione di tutela del Made in Italy.
Ridistribuzione dal basso verso l’alto
Il Ttip è, nei fatti, il punto di arrivo di un processo spinto principalmente dalle lobby economiche transatlantiche. Le grandi corporations vedono nell’abbattimento delle normative e degli standard una grande occasione di profitto, grazie al risparmio nei costi di transazione, ma anche grazie a una maggiore penetrazione di mercato da parte dei prodotti fino ad oggi limitati per questioni regolamentari.
Ma il Ttip ha anche una componente geopolitica, imperniata sugli Stati Uniti e sul loro tentativo di ritornare al centro dello scenario mondiale limitando l’espansione delle grandi potenze emergenti come la Cina.
Non è un caso che, parallelamente al Ttip, gli Stati Uniti stiano trattando anche la Transpacific Partnership (Tpp) con 11 Paesi del ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione - Perché il Ttip riguarda tutti
  2. 1 - Il Ttip, un’idea che parte da lontano
  3. 2 - Il Trattato transatlantico: tariffe o regolamentazioni?
  4. 3 - Il Ttip, un’occasione di crescita. Forse
  5. 4 - Il Ttip e l’agricoltura
  6. 5 - Il Ttip e l’attacco ai servizi pubblici
  7. 6 - La protezione degli investitori: dallo Stato di diritto allo Stato di mercato
  8. 7 - Gli impatti del Ttip sull’ambiente
  9. 8 - Mobilitarsi per il futuro di tutti
  10. Postfazione di Ugo Biggeri
  11. Sitografia