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IL GENIO CHE CI HA IMBALLATO
Non è un caso che l’Homo sapiens dei Trenta Gloriosi anni postbellici di grande ripresa economica, detto anche «uomo moderno», abbia ceduto al fascino della plastica. A partire dalla sua scoperta di fine XIX secolo, e poi con la sua democratizzazione nell’effervescente ricostruzione del dopoguerra, questo materiale aveva tutte le carte in regola per sedurci.
Osservate il signor Rossi che pesca, la signora Maria che cucina e Pierino che va a scuola. Per portare a casa il pescato del giorno, le verdure dal mercato, i quaderni o la merenda in classe, possono scegliere tra una scatola di legno (ingombrante), un cesto di vimini (rigido), un secchio di metallo (che si arrugginisce), un sacco di carta (fragile) o di tessuto (sensibile all’acqua) oppure una borsa in pelle (pesante e cara). Ed ecco che si presenta ai loro occhi, grazie alla magia del petrochimico, un contenitore al tempo stesso flessibile e solido, che pesa meno di niente, costa ancora meno e non teme l’umidità. Irresistibile!
L’incantesimo che funziona con la borsa della spesa o con la cartella è lo stesso che funziona con tutto il resto. Le massaie delle prime riunioni Tupperware si prostrano davanti a recipienti che sono più leggeri di quelli di vetro e al contempo più resistenti. Vanno in brodo di giuggiole davanti a tovaglie su cui basta passare la spugna per far sparire le macchie, davanti a camicette in poliestere che si asciugano in un batter d’occhio e non devono essere stirate.
Allo stesso modo sono conquistati dal genio della plastica gli ingegneri dell’industria automobilistica e aeronautica: che cosa sognare di meglio per alleggerire auto e aerei, per proiettare i loro bolidi ancor più veloci e più lontano, sbalordendo anche i più scettici? Che cosa di più adatto per alleggerire le finestre delle case? Che cosa di più vantaggioso per concepire confezioni nelle quali si può conservare una fetta di prosciutto per due settimane? Idee che fino a quel momento erano pura fantascienza.
L’uomo moderno cede insomma alla tentazione: consentendogli di fare meglio, di più e più in fretta, la plastica amplifica le sue capacità. Gli promette di conquistare – due piccioni con una fava – tempo libero e benessere.
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Io sono nata negli anni Sessanta, quando la plastica cominciava a sedurre gli abitanti dell’Occidente. Come per tutti i figli del boom, i miei primi ricordi d’infanzia sono impregnati di questo materiale esaltante del quale sarei divenuta, molto tempo dopo, una tra gli specialisti mondiali. Quantunque i nostri genitori fossero dei braccianti, con pochi soldi in tasca, potevano però permettersi di soddisfare il nostro entusiasmo di bambini per i polimeri, che condividevamo con la maggior parte dei nostri coetanei. I primi oggetti che ci attrassero devono essere stati i sandali «ragnetto» in PVC, ideali per camminare nel ruscello sotto la nostra casa nell’Ardèche. A dispetto dei sassolini che a volte vi si incastravano, è bastata una sola estate per buttare fuori moda le espadrillas di tela o quelle ciabatte di cuoio che non si asciugavano mai e si deformavano al primo passo falso nell’acqua.
All’epoca, si entusiasmava per la plastica anche l’Accademia Nobel. L’anno precedente la mia nascita, si erano visti assegnare il premio per la chimica Karl Ziegler e Giulio Natta, grandi pionieri dell’era del sintetico, per un’invenzione formidabile: i catalizzatori capaci di polimerizzare il polietilene e il polipropilene – parole barbare che fra poco non avranno più segreti per voi. Questi due polimeri sono oggi due star indispensabili dell’universo dell’imballaggio.
La plastica è stata la materia-miracolo dei Trenta Gloriosi, l’incarnazione stessa della modernità e del genio umano. Sottilmente, con tutte le carte vincenti del seduttore, essa preparava il suo predominio sul mondo. E io sarei diventata, un passo dopo l’altro, in modo davvero non premeditato, dapprima una sua osservatrice in prima fila, quindi la sua avvocata, poi l’allenatrice dei suoi concorrenti e infine il medico-consigliere delle sue vittime.
Un po’ di preistoria: i dinosauri e l’ancheggiare della Terra
Perché la plastica ha entusiasmato il mondo intero? Ho dovuto attendere di essere ricercatrice da qualche anno per capire cosa la rendesse così speciale: un segreto che viene dalla sua struttura molecolare.
Il mio ambiente familiare non nutriva alcun interesse per lo studio: contavano unicamente il buon senso e la sobrietà necessari per sopravvivere in quel rude territorio che è l’Ardèche. Alcuni professori che mi avevano preso a cuore, non senza le opportune borse di studio governative mi indirizzarono dapprima a un istituto universitario di tecnologia e poi a una scuola d’ingegneria agroalimentare. In cinque anni di studi, non una sola ora di lezione sulla plastica. I miei insegnanti appartenevano al mondo delle scienze alimentari, perciò del «biologico». Per loro, l’universo del «sintetico», che ricade nel petrochimico, era tutt’altro campo d’interesse.
La plastica, tuttavia, cattura la mia attenzione in quanto imballaggio alimentare. L’indelebile ritornello familiare «renditi utile, perdio!», che mi ha spronato per tutta la mia infanzia, deve aver giocato qualche ruolo. Mi dedico allora con curiosità a questo incredibile materiale «utile», che asseconda anche i più piccoli desideri dell’essere umano trasformandosi tanto nella cannuccia di un cocktail come nel sedile di un aereo. Che cosa, nella sua struttura molecolare, lo rendeva talmente pratico e malleabile, così differente dalla materia biologica?
Per capire, dobbiamo fare un tuffo nell’infinitamente piccolo e al tempo stesso nell’infinitamente antico. Eccoci riportati a 150 milioni di anni fa, al tempo dei dinosauri. Essi calpestarono – e con ogni probabilità masticarono – la materia originale che avrebbe un giorno dato nascita alla plastica dei nostri giocattoli, dei nostri impermeabili, dei nostri computer e dei nostri missili.
Centocinquanta milioni di anni è il tempo necessario perché il plancton, le alghe, i vegetali e altre materie organiche preistoriche si degradino in carbone, in petrolio o in gas. Evidentemente non basta lasciarli serenamente invecchiare sulla superficie del suolo! Occorre un mostruoso ancheggiamento della crosta terrestre (detto anche tettonica delle placche) per seppellirli a grande profondità, al caldo e al riparo dall’aria. Sotto uno strato d’argilla, per esempio, o in fondo a un oceano.
Così intrappolata, la materia vivente si sottrae al destino banale cui sarebbe andata incontro se fosse rimasta sulla superficie della Terra. A contatto con l’aria e con i microrganismi, si sarebbe biodegradata velocemente – ridotta allo stato di minuscole molecole di anidride carbonica e di acqua, come ogni materia organica. Tale riciclo le avrebbe permesso di inserirsi, grazie alla fotosintesi delle piante, nelle infinite reincarnazioni della natura, il perfetto «ciclo naturale del carbonio».
Ma un destino ben più prestigioso attendeva le nostre materie preistoriche prigioniere del suolo. Standosene ben al caldo sotto terra per millenni, sono diventate niente meno che l’oro nero.
Il petrolio è prima di tutto una materia organica privata dell’ossigeno dell’aria, che si decompone molto lentamente – ma non completamente. Ha cominciato il processo di degradazione senza giungere al suo termine. Le sue molecole sono molto più piccole di quelle che costituiscono la materia vivente, ma molto più grosse delle minuscole molecole di anidride carbonica o d’acqua. Lo stesso vale, del resto, per suo cugino il carbone, meno degradato perché posto a profondità minori, e per il gas, che invece ha raggiunto uno stato di degradazione un po’ più avanzato.
Il petrolio è dunque un denso liquido nero, viscoso, in stato avanzato ma incompiuto di decomposizione, che è lentamente risalito dalle profondità per rimanere bloccato in qualche cavità rocciosa.
Nonostante il processo poco aggraziato che gli ha dato origine, il petrolio è una materia di valore inestimabile: di manipolazione semplice, rappresenta una fonte di energia facile. Se voi purificate, «raffinate», questo liquido sporco e nero, scoprirete una grande famiglia di molecole, un po’ come piccolissimi mattoncini del Lego scaturiti dalla materia vivente. Sono gli idrocarburi, molecole di carbonio e di idrogeno di dimensioni diverse. Chiedono solo di arrivare a completare la loro degradazione interrotta: bruciano con grande facilità! Liberano in questo modo energia – tale da proiettarci senza sforzo all’altro capo del pianeta – e anidride carbonica, il grande incubo del nostro tempo, l’incubo dell’impronta di carbonio e del cambiamento climatico.
Certi «mattoncini» del Lego estratto dall’oro nero vengono riassemblati per fabbricare questa materia malleabile che viene chiamata plastica, dal greco antico plastikos che significa «modellabile».
Karl Ziegler e Giulio Natta hanno insegnato al mondo che un misterioso metallo liquido (il tetracloruro di titanio) era sufficiente a innescare l’assemblaggio dei «mattoncini». L’operazione di fabbricazione della materia prosegue poi senza sforzo.
Comincia così la storia della plastica, un semplice ma astuto gioco di costruzioni.
Un po’ di chimica: Topolino e le agili mani del carbonio
Quando s’imbatte nel petrolio una banda di ingegneri petrolchimici in erba, il processo di degradazione della materia organica è già ben avviato. Quei giocatori di Lego a scala molecolare afferrano ben presto le catene di carbonio e di idrogeno che possono selezionare con facilità per trarne una gran quantità di molecole assai utili, tra cui l’etilene. Questa molecola, assemblata con migliaia di altre gemelle, fornirà la versione più semplice della plastica: il polietilene.
Per capire meglio, prendete per qualche istante il vostro microscopio immaginario. La molecola di etilene assomiglia a due teste di Topolino collegate da un collo comune: a ciascun lato, una grossa molecola di carbonio, sormontata da due molecole di idrogeno che sono come le due orecchie. Il suo nome chimico è C2H4 (due atomi di carbonio e quattro di idrogeno).
Guardate ancora meglio, questa volta tra le due teste di Topolino, a livello del loro collo comune: osserverete un legame doppio. In effetti, gli atomi possiedono tutti come delle mani, per tenersi ...