IL POTERE DEI SEGNI
Papa Francesco ha una particolare predilezione per la periferia, la frontiera ossia tutto ciò che è distante da noi, ma rilevante per la fede. Egli, d’altronde, è un vescovo latinoamericano che porta nel proprio bagaglio esperienziale il patrimonio di una chiesa che, in alcune sue significative componenti, ha fatto la scelta dei poveri, per i poveri e con i poveri. È pertanto estremamente importante tentare di decifrare la nozione di povertà, a cui abbiamo già accennato in queste pagine, ma su cui, per una questione di ordine mentale e soprattutto di chiarezza spirituale, occorre ritornare per evitare derive moralistiche o fraintendimenti di sorta. Ad oltre cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II è necessario più che mai fare memoria di una dimensione valoriale fondamentale per l’evangelizzazione.
Leggendo i giornali, ascoltando la radio, guardando la televisione o navigando in internet sembra che i poveri abbiano perso posizioni nell’ordine degli interessi mondiali, quasi fossero surplus people. Un fenomeno che riscontriamo anche in Italia, se si considera che attualmente il 10 per cento delle famiglie detiene quasi il 50 per cento della ricchezza nazionale.
La verità è che in questi anni abbiamo, colpevolmente, lasciato nel cassetto le parole di papa Giovanni XXIII proclamate profeticamente l’11 settembre 1962: «In faccia ai paesi sottosviluppati la chiesa si presenta quale essa è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la chiesa dei poveri». Per il cardinale Giacomo Lercaro, protagonista dell’assise conciliare, «il tema centrale del Concilio è la chiesa proprio in quanto chiesa dei poveri», mentre, per il cardinale Achille Liénart, «la chiesa deve ritrovare un aspetto che i secoli hanno un poco sfumato: il volto della povertà». Sta di fatto che, nel dettato conciliare, sia nella costituzione pastorale Gaudium et spes sia nella Lumen gentium, le parole «poveri» e «povertà» non sono affatto marginali.
È comunque evidente che, ripartendo proprio dai fondamenti del cristianesimo, l’assise conciliare ha gettato le premesse per un’evangelizzazione che portasse la chiesa a evitare l’autoreferenzialità e soprattutto ad essere accogliente nei confronti di tutti, poveri in primis. Ciò ha innescato, peraltro, una notevole produzione di documenti magisteriali, a partire da Paolo VI con la Populorum progressio, fino alla Sollicitudo rei socialis o alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II, ma anche a livello di episcopati locali. In America Latina, ad esempio, la realtà continentale da cui proviene papa Francesco, in due dei periodici incontri del Celam (Consiglio episcopale dell’America Latina e dei Caraibi) si svilupparono riflessioni estremamente illuminate. Nella Conferenza di Medellín (1968) si intende mirare a una «distribuzione degli sforzi e del personale apostolico che dia preferenza effettiva ai settori più poveri e bisognosi». Ma sarà a Puebla (1979) che l’espressione «opzione preferenziale per i poveri» verrà utilizzata direttamente. Si può dire che di là essa si estenderà alla chiesa intera.
«Che fine ha fatto questa eredità di saperi e di esperienze ecclesiali e del Concilio in particolare?», sembra chiederci ora papa Francesco. Il successore di Pietro, in effetti, nel suo pur breve ma denso magistero, intende ricordarci che la povertà non è solo un fine, ma il mezzo stesso, la via stessa della riforma che egli intende attuare nella chiesa.
Certamente la stragrande maggioranza delle chiese particolari nel Sud del mondo è povera per molte ragioni: dalla mancanza di mezzi materiali alla dimensione minoritaria in contesti come quello islamico, induista o buddhista, a volte perseguitate e martoriate dalle vicende umane di molti loro fratelli e sorelle. Ma, guardando alle chiese di antica tradizione – a quelle europee, per intenderci –, la valutazione risulta diversa dal punto di vista esistenziale e situazionale. Esse, infatti, si rivelano più come «povere chiese» che come «chiese povere», un rovescio dialettico sul quale varrebbe la pena di soffermarsi. Per quanto le certezze materiali possano essere percepite come espressione di un progresso derivante anche dalla Provvidenza, sovviene istintivamente quanto Origene, molti secoli or sono, stigmatizzava nel suo commento a Matteo: «Gesù ha pianto su Gerusalemme. Oggi v’è di che piangere sulla chiesa, che lo spirito carnale di taluni trasforma in una spelonca di ladri». E così, come dobbiamo ricordarci che i veri poveri, coloro che subiscono e patiscono inedia e pandemie, non si permettono il lusso di discettare altezzosamente sulle ragioni del loro stato, la povertà rimane di fatto l’ideale della chiesa primitiva, dove tutto era messo in comune con radicalità, come appare evidente nel testo degli Atti degli Apostoli. Quello che potrebbe apparire azzardo dell’utopia, in effetti, esprime un dato propulsivo, riformatore, che inquieta le coscienze, spingendole a cercare e a trovare una forma di risposta adeguata a tale appello.
Ora, la parola «riforma», che tanto preoccupa i detrattori di papa Francesco, è certamente un atto di semplificazione, di riscoperta dell’irrinunciabile evangelico, cercando di rendere intelligibile e credibile il mistero cristiano e la novità che esso comporta. Ed è la stessa tradizione, che ce...