Capitolo 1 – CRISI
Tre messaggi
Ci siamo accorti, e con più forza rispetto alla prima fase della crisi (2008-2009), che gli indici di Borsa e lo spread non sono faccende lontane e per addetti ai lavori, ma sono capaci di cambiare governi, i nostri bilanci familiari, i nostri progetti di vita. E allora dobbiamo occuparcene tutti, «abitando» di più questi luoghi che se restano disabitati dai cittadini alla lunga diventano inumani. Questa crisi ci invia anche tre messaggi specifici. Il primo riguarda direttamente il mondo bancario. Studi recenti (Università di Ancona: mofir.univpm.it) hanno messo in luce che dopo il 15 settembre 2008 le banche hanno ridotto il credito alle imprese, anche a quelle virtuose. Questa evidente inefficienza dipende dalla distanza tra il luogo nel quale si prendono le decisioni e quello dove operano le aziende. Banche sempre più concentrate e distanti non hanno più la conoscenza del territorio: così le decisioni sono affidate a indicatori oggettivi che non fanno vedere cose essenziali che diventano visibili soltanto agli occhi di chi abita i territori e conosce per nome la gente.
Il primo messaggio che ci giunge è allora la necessità di una «riduzione delle distanze» tra i luoghi delle decisioni e i luoghi di vita delle persone, e quindi una critica a tutta una politica finanziaria che ha invece fortemente voluto la concentrazione delle banche, a quel «grande, lontano e anonimo» che è stata la parola d’ordine degli ultimi due decenni. Interessante è poi notare che le banche territoriali per vocazione stanno reggendo meglio alla crisi. Tutto ciò suggerisce una sorta di regola aurea: dare diritto di cittadinanza nel quotidiano alle piccole fragilità relazionali (perdere tempo con i «pallini» dei clienti, investire risorse in rapporti non sempre finanziariamente remunerativi, ecc.) rende meno fragili quando arrivano le grandi crisi; non accogliere, invece, queste piccole fragilità e «crisi» quotidiane rende le istituzioni molto più fragili di fronte alle grandi crisi.
C’è poi un secondo messaggio chiaro che riguarda l’Europa, che oggi vive la crisi più profonda dalla sua fondazione. Se non si metterà mano a una vera unità politica, l’euro non potrà reggere ancora a lungo. Oggi però mancano i grandi statisti del dopoguerra, e il loro posto può e deve essere occupato dai cittadini. Spetta a loro, spetta a noi tutti chiedere, dal basso e con maggiore forza, più politica e finanza più regolamentata.
Infine, il terzo messaggio: c’è qualcosa di sbagliato nel capitalismo cui abbiamo dato vita soprattutto in Occidente. E questo «qualcosa» non ha a che fare con la finanza e forse neanche con l’economia, perché si gioca a un livello della nostra cultura molto più profondo. La crisi che stiamo sperimentando è come una febbre, che segnala che qualcosa non va nell’organismo. E siccome la febbre dura da tempo, e la temperatura aumenta, la febbre va presa molto sul serio.
Sono almeno due le patologie che vanno curate. Negli ultimi decenni abbiamo depredato l’ambiente, lo abbiamo ferito, umiliato. Nel giro di un paio di generazioni stiamo consumando un patrimonio di petrolio e gas che la terra ha generato in milioni di anni; e nel depauperare questo patrimonio stiamo anche ferendo l’atmosfera. Tutto ciò dice che stiamo sbagliando uno dei rapporti fondativi della nostra esistenza, quello con la terra e con la natura. E quando un rapporto così importante non funziona, è impossibile che funzionino gli altri rapporti, come mostra la crescente intolleranza nelle nostre città, la solitudine crescente, e come dimostra il rapporto ancora in buona parte predatorio con le risorse dei popoli dell’Africa, dove si perpetrano ogni giorno nuove «stragi degli innocenti».
La seconda causa di febbre è la diseguaglianza economica che sta crescendo nel mondo, anche grazie alla rivoluzione della finanza. Senza uguaglianza economica, che non si gioca solo sull’asse del reddito ma anche su quello del lavoro, il principio di uguaglianza resta troppo astratto, perché le persone non possono realizzare la vita che desiderano vivere. L’uguaglianza è la seconda parola del trittico della modernità, e negarla significa negare anche le altre due, poiché o l’uguaglianza, la libertà e la fraternità stanno assieme, o non se ne realizza autenticamente nessuna.
L’Europa ritroverà sé stessa se sarà capace di ridare vita a questo Umanesimo a tre dimensioni, da cui fiorisce anche quella «pubblica felicità» posta al centro del programma della Modernità, perché, come ci ricorda l’economista napoletano settecentesco Antonio Genovesi, «è legge dell’universo che non possiamo far la nostra felicità senza far anche quella degli altri».
Rispondere alla vera crisi
Stiamo uscendo dalla crisi? Non credo. La necessarissima riduzione della spesa pubblica associata alla spending review non farà aumentare di certo il Pil, visto che negli ultimi due decenni l’Italia era cresciuta anche grazie all’aumento ipertrofico della spesa pubblica.
Se poi aggiungiamo l’aumento dei costi che la manovra ha messo sulle spalle delle famiglie, la preoccupante crescente disoccupazione giovanile, i più facili licenziamenti, la crisi di competitività e l’obsolescenza di troppe nostre imprese, qualcuno dovrebbe spiegare dove i tecnici dei grandi centri di ricerca economica avrebbero fondato le loro previsioni di ripresa dell’economia italiana nel 2013; a meno che non ricorrano alle solite ingegnerie contabili e statistiche che torturano i dati fino a farli confessare quanto chi interroga vuol sentirsi dire.
La realtà purtroppo è ben diversa e meno rosea, e per capirlo basterebbe leggere i dati sul benessere soggettivo di europei e italiani in caduta libera in questi anni, ma soprattutto guardare i nostri concittadini in volto, magari anche ascoltarli, per capire immediatamente, se si è dotati di un minimo di empatia, che il malessere è grande. Ce lo dice anche il continuo aumento dei giochi e delle scommesse, segno grave di degrado, anche in luoghi tradizionalmente custodi e coltivatori di valori (ho visto in Toscana slot machines anche dentro centri ricreativi di grande storia civile, politica ed etica). Ma, non dobbiamo dimenticarlo mai, se anche con qualche miracolo economico dovessimo riuscire a far ripartire tra qualche mese il Pil, ciò non significherebbe l’uscita dalla crisi. Il perché è troppo semplice: se non creiamo oggi nuovo lavoro, in modo ecologicamente sostenibile e socialmente equo, potremo anche uscire da questa crisi finanziario-economica, cioè dalla crisi con la «c» piccola, ma continueremo a rafforzare la Crisi con la «C» grande.
Uno dei grandi problemi di questi tempi è che si parla molto, troppo, della crisi (spread, Borse, finanza nazionale ed europea…) e poco, troppo poco, della Crisi. Dobbiamo ricordarci e ricordare che quella ormai storica data del 15 settembre 2008 non è stata meno significativa ed epocale dell’11 settembre 2001: nel rumore creato dalla crisi terroristica internazionale, la speculazione ha continuato a operare indisturbata dall’opinione pubblica. Anche per questa lezione della storia, chi oggi ha a cuore il bene comune, e quindi riconosce il valore del mercato, delle imprese, del lavoro e della finanza civile, deve parlare e far parlare meno di crisi, e tornare con forza a parlare e far parlare della Crisi del nostro modello di sviluppo economico-sociale. Come? Facendo in modo che, a tutti i livelli, si mettano al centro dell’agenda pubblica e politica, compresa quella delle prossime elezioni nazionali, i temi e le sfide della Crisi del nostro tempo, tra cui le crisi ambientali, la crescita delle rendite, ma anche il deterioramento dei rapporti sociali – frutto diretto della svalutazione dei grandi valori cardine – e la crisi dell’amicizia civile: ho provato a Milano a salutare («Buongiorno!») un signore lungo i Navigli,...