SISTER SERENA
«Ogni sera chiediamo a Dio di ricevere il martirio»
Tutta la vita donata a Cristo sulle orme di Madre Teresa
«Noi preghiamo tutti i giorni per il martirio». Sembra incredibile, eppure sta nella logica di dare tutto, anche la vita, per Cristo. È successo alle piccole suore di Madre Teresa uccise nello Yemen, nel 2016. Sister Serena si presenta così, semplicemente con il suo nome, e con l’appellativo «sorella»: è una Missionaria della carità, veste il sari bianco e azzurro di santa Madre Teresa di Calcutta. Italiana, di Milano, missionaria da 40 anni, ha girato il mondo, ed è stata accanto alla Madre, testimone di una vita dedicata alla misericordia. Parlare con lei è ritrovarsi in un’altra dimensione, quella dell’Oltre, del mistero. Curioso, per una donna che ha fatto l’economa della congregazione, così ben radicata nella realtà, eppure educata e tesa con gioia a guardare in alto, e al paradiso.
Perché ha deciso di portare quest’abito?
La risposta ce l’ha solamente il Signore. Era nel suo piano. Un giorno la mia via e quella della Madre si sono incontrate. Io credo fermamente in quello che è scritto anche nella Bibbia, che siamo chiamati fin dal grembo materno. È nostro compito riconoscere ciò, e questo non è sempre facile. Io ci ho impiegato parecchio tempo. È quasi una caccia al tesoro. Agli angoli delle strade trovi un’indicazione: vai di qui, vai di là, fai questo, fai quello. Così il Signore ci mette sul cammino. E una prima indicazione, un primo desiderio che ho sentito in me, era quello del servizio ai poveri. Prima mi appariva come un aiuto materiale, poi ho pensato che non era sufficiente il superfluo, ma dovevo dare il mio tempo. Ho provato un’esperienza come missionaria laica in Africa per alcuni mesi. Tutto era entusiasmante, ma non mi faceva stare completamente a mio agio la relazione tra missionario e povero, sempre un po’ dall’alto al basso.
Qual era il disagio che provava?
Il missionario era colui che aveva potere, denaro, la capacità di aiutare, e il povero era quello che accettava. Eravamo negli anni Settanta e a quell’epoca la Madre cominciava a essere conosciuta. Aveva già viaggiato in Italia per alcuni incontri, erano apparsi articoli sui giornali e mi aveva colpito questo aspetto della condivisione con i poveri, per cui sono venuta a Roma per incontrare le missionarie della Carità, chiedendo semplicemente informazioni sui missionari laici. Però è accaduto l’imprevisto e ho capito improvvisamente che si preparava per me un’altra chiamata, quella di entrare nella congregazione. Era chiara la chiamata, non c’erano dubbi, e così ho deciso di fare il grande passo, anche con l’aiuto della Madonna che in qualche modo mi ha fatto capire che Gesù mi avrebbe dato tutto quello di cui avevo bisogno per poter affrontare questa vita. Ho fatto un salto nel buio, ma questa è la fede. Non avevo mai parlato prima con Madre Teresa, quindi mi sono fidata. Ciecamente.
Non aveva timore di entrare in una congregazione tutta dedita alla povertà, così fuori dal nostro mondo?
Non siamo tanto fuori dal mondo. Quello che la Madre ci diceva sempre è che siamo contemplative nel cuore del mondo, il che vuol dire che viviamo in mezzo ai problemi del mondo, non ci esoneriamo da essi, direi che li prendiamo su di noi. Però il modo in cui li risolviamo è diverso: sembra un paradosso, ma affrontiamo la povertà soltanto con la preghiera, con il sacrificio e con la condivisione.
La sua famiglia come reagì?
Molto male. All’inizio risulta normale, è la reazione di tutte le famiglie. Mio padre in qualche modo rispettava la mia volontà. Del resto, avevo già quasi 30 anni, non ero una ragazzina. Per mia madre invece fu molto più difficile, anche se, con il passare degli anni, le cose si sono sistemate.
Quando incontrò Madre Teresa la prima volta?
Un paio di mesi dopo essere entrata nella congregazione. Mi avevano mandato a Londra per imparare l’inglese, la lingua con cui parliamo tra di noi. Quando la Madre passò da lì, avanzò una richiesta che generalmente non faceva: voleva incontrare di persona tutte le suore, anche le aspiranti, cioè le nuove entrate. Io ero felice di poter incontrare la Madre a tu per tu, ma allo stesso tempo mi chiedevo come avrei fatto, non sapendo l’inglese. La Madre iniziò con domande semplici: il mio nome, da dove venivo, che cosa facevo. Poi parlò del nostro spirito: non entriamo nella congregazione per servire i poveri, ma per appartenere completamente a Gesù. A un certo momento l’ho fermata, di colpo, perché mi rendevo conto che stavo comprendendo perfettamente quello che diceva, cosa che non mi capitava spesso in comunità con le altre suore. «Madre», le dissi, «quasi non ci credo, ma capisco benissimo quello che mi dice e generalmente non intendo le conversazioni in inglese!». Lei sorridendo rispose: «Sì, perché la Madre parla con la semplicità del Vangelo». La Madre non soltanto parlava con le parole di Gesù, ma agiva con le azioni di Gesù. Gesù la usava perfettamente. Lei diceva: «Quest’opera non è la mia opera, questo lavoro non è il mio lavoro, è tutta opera sua, non c’è niente di mio».
Ricorda l’ultima volta che l’ha vista?
Ero in Russia, avevamo un ritiro di superiore e la Madre era venuta per parteciparvi. Al termine, ognuna di noi ritornava nelle proprie case, chi in aereo, come me, altre in treno. In genere, nella nostra congregazione, quando qualcuno parte andiamo in cappella e cantiamo una canzone di buon viaggio. Ero vicino alla porta d’ingresso, la Madre è passata e mi dice: «Sei ancora qui?». E io: «Sì, sto aspettando qualcuno che mi venga a prendere per condurmi in aeroporto». Lei sorride, con quel sorriso furbo che a volte aveva, come di chi vuole fare una marachella, e mi dice: «Vieni, vieni, cantiamo ancora una volta». Mi prende per mano, mi porta in cappella e inizia lei a cantare. Sentendola, tutte le altre suore sono accorse in cappella. Alla fine, mi ha dato la benedizione e io sono partita. Non avrei mai pensato che sarebbe stato veramente l’ultimo incontro. In quel momento particolare mi sono sentita la figlia predilett...