POVERTÀ DA SCEGLIERE
La lotta per la sobrietà
La prima e fondamentale lotta da sostenere in nome della povertà è quella contro sé stessi, contro il prepotente bisogno di possedere, accumulare beni, aggrapparsi al denaro e alle cose. La proprietà materiale è potere: e la ricchezza equivale a una superiorità, alla sovranità sugli altri, al senso del dominio.
Il Dio degli ebrei, pur non qualificandosi mai come «povero», manifesta tuttavia una singolare predisposizione per i poveri e gli ultimi: non si colloca comodamente dalla parte dei potenti e dei ricchi, ma degli umiliati e dei poveri (cfr. il Cantico di Anna in 1Sam 2,1-10, ripreso dal Magnificat in Lc 1,46-55; cfr. anche 2Sam 22,28; Sal 18,28; Sal 112,9-10; ecc.). La manifestazione piena della «povertà» prediletta da Dio consiste però nello «svuotamento» del Figlio di Dio realizzatosi nell’incarnazione, in quel movimento di identificazione con gli uomini che appare del tutto illogico, inatteso, inesigibile.
Gesù, «il grande Povero»
Dio, dunque, in Gesù, prima ancora di difendere i poveri, si fa egli stesso povero (cfr. 2Cor 8,9), accettando nel Figlio di limitarsi nello spazio e nel tempo, assumendo la natura umana con tutti i condizionamenti che essa comporta. Nell’incarnazione Dio rinuncia al suo «potere» per fare della propria vita un servizio all’uomo (cfr. Fil 2,6b-11). L’Onnipotente ha voluto avere bisogno di una madre, di una casa, di cibo e d’acqua, di vestiti e di un tetto, di amicizia e di affetto. «La nascita di Gesù a Betlemme ci rivela che Dio ha scelto la povertà per sé stesso nella sua venuta in mezzo a noi […]. Ha voluto nascere così – ma potremmo subito aggiungere: ha voluto vivere, e anche morire così. Perché? […]. Ecco la risposta: l’amore per noi ha spinto Gesù non soltanto a farsi uomo, ma a farsi povero».
Le parole di papa Benedetto XVI rimandano alle scene evangeliche più familiari: la nascita nella stalla di Betlemme, la fuga in Egitto, la vita di villaggio a Nazaret e il lavoro con Giuseppe, e poi la predicazione itinerante e l’incontro con tutte le categorie di poveri ed emarginati del suo tempo: dai mendicanti ai malati, dalle donne ai bambini, dai peccatori agli scomunicati. Gesù incontra spesso anche quei «poveri» che non sanno di esserlo e che, anzi, si ritengono ricchi: di beni, di religiosità, di cultura; non rifiuta dunque i benestanti e cerca anche in loro uno spiraglio – qualche volta senza successo – perché accolgano il regno di Dio. Gesù, in altre parole, non è un «classista»: avvicina tutti e da tutti si lascia avvicinare. Ma certamente le sue frequentazioni preferite sono gli ultimi della scala sociale del suo tempo. Si direbbe che Gesù prova verso di loro un’attrazione particolare, anche a motivo della sua personale esperienza.
La pagina di Mt 25,31-46 rappresenta il vero e proprio manifesto di quell’identificazione tra Gesù e i poveri che costituisce una delle provocazioni più forti del vangelo. In questo affresco, l’ultima parabola matteana, il Figlio dell’uomo, che si proclama anche «il re», si assimila agli affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati. Il perno del ragionamento è questo: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli (elachistoi), l’avete fatto a me» (v. 40 e, in negativo, v. 45). Matteo non utilizza locuzioni indirette e sfumate – per esempio: «è come se l’aveste fatto a me», «lo ritengo fatto a me» – ma suggerisce proprio una identificazione di Cristo nei bisognosi. Chi sono esattamente questi «fratelli più piccoli»? Secondo alcuni si tratta dei discepoli di Gesù e secondo altri, invece, Gesù si riferisce a tutti gli uomini che si trovano in quelle situazioni.
La prima ipotesi si riallaccia all’indubbia parentela di questa pagina finale di Matteo con quella iniziale delle beatitudini (cfr. Mt 5,3-12): nel discorso della montagna i poveri, gli afflitti, i perseguitati sono i discepoli di Gesù che entrano nella logica del «regno» così a fondo da riuscire a vivere perfino la persecuzione «per causa» di Gesù (cfr. v. 11). Altri passi nei quali l’evangelista menziona i «piccoli» sembrano andare nella medesima direzione. Così per esempio 10,42: «Chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa» (cfr. anche 18,10.14). I «piccoli», dunque, secondo questa interpretazione, sarebbero i discepoli che liberamente scelgono la condizione di inferiorità, nella logica del Regno, dove la felicità non si trova nei beni, negli onori e nel successo, ma nella fedeltà a Cristo. Nella stessa direzione va l’uso del termine «fratelli» che Mt 28,10 attribuisce a Gesù per designare gli Undici. I «fratelli più piccoli» di Mt 25 sarebbero quindi i messaggeri cristiani; e l’atteggiamento che il Figlio dell’uomo valuterà riguarda il modo di trattare questi discepoli di Gesù, in condizioni disagiate «a causa» sua e del vangelo.
Malgrado queste argomentazioni, tuttavia, oggi la maggior parte degli esegeti propende per vedere nei «fratelli più piccoli» tutti i poveri e non solo i discepoli di Gesù. L’intera vita del Messia è testimonianza di donazione ai bisognosi, gli umili, i peccatori di qualsiasi appartenenza e provenienza; anche Matteo, con gli altri evangelisti, mostra come Gesù sia con loro solidale al punto di ritenere...