«Il mio caso non è chiuso»
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«Il mio caso non è chiuso»

Conversazioni con Jacques Dupuis

  1. 1,068 pagine
  2. Italian
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«Il mio caso non è chiuso»

Conversazioni con Jacques Dupuis

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17 ottobre 1998. Jacques Dupuis, gesuita, uno dei teologi più famosi al mondo, professore all'Università Gregoriana di Roma, viene sollevato dall'insegnamento: l'ex Sant'Uffizio lo accusa di «gravi errori, ambiguità dottrinali e opinioni pericolose». Scoppia il «caso-Dupuis», che vede la Congregazione per la dottrina della fede guidata dal cardinal Ratzinger mettere sotto accusa il teologo sostenitore di una visione positiva della pluralità delle fedi. Jacques Dupuis vive sulla propria pelle, fino alle estreme conseguenze (lo stress del processo vaticano gli ha causato scompensi fisici che ne hanno causato la morte), l'anonima durezza dell'inquisizione ecclesiastica: delazioni, indagini segrete, accuse poi ritrattate, terra bruciata intorno, continui sospetti.Per 36 anni missionario e insegnante in India, consulente della Santa Sede per il dialogo interreligioso, per più di dieci anni docente alla Gregoriana, poco prima di morire padre Dupuis aveva concesso un'ampia intervista al giornalista irlandese Gerard O'Connell, rimasta finora inedita. In queste pagine egli ricostruisce la sua vicenda biografica ed intellettuale, facendo nomi e cognomi di quanti hanno voluto piegarne – senza successo – la profezia: l'avversione del Vaticano per la sua teologia del pluralismo religioso; le ragioni in base alle quali ne ha confutato le accuse grazie all'appoggio di vari colleghi; il confronto con Ratzinger e i suoi collaboratori (i cardinali Bertone, Amato e altri), tutti incapaci, secondo il teologo belga, di cogliere la verità della sua proposta, che univa l'indefessa fede nell'unicità salvifica di Gesù Cristo all'apertura verso le altre religioni comprese come vie di salvezza.Si tratta quindi di un libro molto importante che, attingendo a documenti vaticani segreti, racconta le modalità dei processi dottrinali sotto Giovanni Paolo II e il cardinale Joseph Ratzinger, per 25 anni custode dell'ortodossia cattolica e in seguito eletto papa. Leggere queste pagine significa fare i conti con una vicenda non sanata nella chiesa, i cui vertici hanno messo sotto accusa un uomo che amava affermare: «Posso dire in tutta sincerità che Gesù Cristo è stato l'unica passione della mia vita».

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Informazioni

Editore
EMI
Anno
2019
ISBN
9788830724389
1

GLI ANTECEDENTI
Gerard O’Connell Padre Dupuis, la ringrazio di aver accettato di tenere queste conversazioni. Sono sicuro che aiuteranno un vasto pubblico a familiarizzarsi con la sua persona e il suo lavoro. Vorrei iniziare ponendole alcune domande sulla sua vita. Forse potrebbe cominciare raccontandomi dei suoi genitori, della sua famiglia, del luogo in cui è nato in Belgio, dove ha trascorso l’infanzia ed è andato a scuola, e dell’ambiente culturale in cui è cresciuto.
Jacques Dupuis Sono nato il 5 dicembre 1923 a Huppaye, nella provincia del Brabante, in Belgio. Vengo da una famiglia benestante con una lunga tradizione di professioni liberali. Mio padre, Fernand, era un ingegnere che divenne direttore generale di un’importante fabbrica siderurgica. Mia madre, Lucie, proveniva da una famiglia di notai. Nel lavoro mio padre era molto esigente nei confronti di sé e degli altri, un perfezionista che non tollerava la mediocrità. Ma era nello stesso tempo molto umano nei rapporti con i suoi dipendenti, più di mille, e rappresentava per loro un esempio di onestà professionale e coscienziosità. Trattava tutti con la massima giustizia e, nonostante fosse molto esigente, riusciva a farsi volere bene da tutti.
Mia mamma era a dir poco una santa, una madre ideale per la sua mitezza, l’attenzione agli altri, la generosità sconfinata. Ho sempre pensato che i miei genitori si completassero meravigliosamente l’un l’altro. Insieme sono riusciti a costruire una famiglia unita. Eravamo quattro figli: io ero il terzo, con un fratello e una sorella più grandi, Michel e Monique, e uno più piccolo, André. Noi primi tre siamo nati a breve distanza l’uno dall’altro e siamo stati educati insieme, mentre il fratello minore è arrivato sette anni dopo di me. La vicinanza di età fra noi primi tre ha costituito un legame profondo che dura ancora oggi, anche se ho perso la mia unica sorella, morta nel 1997: una perdita che sento ancora con dolore.
Pur essendo nato a Huppaye, ho trascorso tutta la giovinezza a Charleroi, nella provincia di Hainaut, che a quei tempi era uno dei maggiori centri industriali del Belgio, chiamato «il paese nero» a causa delle numerose miniere e fabbriche di carbone: uno skyline di altiforni e di enormi cumuli di scarti di lavorazione. È là che mio padre esercitava la sua professione. E sempre là, nel 1929, all’età di cinque anni, sono entrato nel Collegio dei gesuiti del Sacro Cuore, dove ho trascorso complessivamente dodici anni di studi, sei di scuola primaria e sei di discipline umanistiche, o scuola secondaria. Tutto quello che so l’ho imparato dai gesuiti. Sono lieto di poter dichiarare che ho ricevuto un’educazione squisita al Collegio del Sacro Cuore; sarebbe stato difficile trovarne un’altra di pari livello, anche tra gli istituti della stessa compagnia. Soprattutto i sei anni di studi umanistici, con il greco e il latino, sono stati appassionanti. Tra gli studenti dello stesso anno, e tra loro e gli insegnanti, sono nate amicizie profonde. Tra noi regnava un clima di emulazione per l’eccellenza accademica. Mi avvantaggiava l’educazione che ricevevo a casa, con un papà che esigeva molto dai figli. Abbiamo anche goduto di un alto livello di formazione culturale nelle arti, comprese la musica e la pittura. Ciò che soprattutto aumentava la qualità della formazione era il contatto continuo con i padri in classe, poiché cinque dei sei anni delle discipline umanistiche avevano un sacerdote gesuita come insegnante «titolare». E devo dire che gli uomini con cui abbiamo avuto a che fare ogni giorno durante quei sei anni erano veramente eccellenti. In seguito ho spesso pensato che forse la ragione principale per cui le vocazioni sono drasticamente diminuite negli ultimi decenni è che gli studenti non godono più, per mancanza di personale, di questo profondo e continuo contatto con i padri. Così, temo, si genera un circolo vizioso, in cui si riducono di pari passo il numero di vocazioni e le opportunità di contatti simili.
L’educazione ideale che stavamo ricevendo s’interruppe bruscamente quando, il 7 maggio 1940, durante il penultimo anno di scuola (che al collegio era chiamato «Poesia»), il Belgio fu invaso dall’esercito tedesco. Mi offrii volontario per l’esercito, ma mi rifiutarono perché avevo solo sedici anni. Mio padre, in quanto direttore di una grande fabbrica che produceva anche materiale bellico, ricevette l’ordine di far saltare in aria le macchine, che non dovevano cadere nelle mani del nemico, e di lasciare il paese. Così tutta la mia famiglia partì per la Francia. Ci fermammo dapprima in Normandia, in riva al mare, in un posto chiamato Riva-Bella, più un luogo di villeggiatura che di esilio; ma i tedeschi procedevano rapidamente nella loro invasione della Francia e presto ci avrebbero raggiunti. Quindi, dopo due settimane ci spostammo più a sud, nella Vandea, in un paesino abbastanza arretrato chiamato Aiguillon-sur-Mer, di fronte all’isola di Ré. Posso dire che quella fu la mia prima esperienza di un ambiente del «Terzo mondo», anche se allora tale espressione era sconosciuta. I pavimenti erano di terra battuta, e come combustibile si usava lo sterco di vacca; avrei rivisto le stesse cose molti anni dopo nei villaggi indiani. L’ambiente in cui venimmo a trovarci sembrava più un campeggio che una casa; ma le difficoltà hanno il vantaggio di approfondire i legami, che peraltro fra noi erano già profondi. Vivemmo così un’esperienza di solidarietà familiare totale. Mio padre ebbe cura che io non interrompessi, a causa del suo esilio, gli studi scolastici. Così mi iscrissi a un liceo francese non troppo lontano dal nostro alloggio, e frequentai il penultimo anno in preparazione dell’esame della maturità francese, il bacho. L’atmosfera non era troppo amichevole nei confronti del Belgio, accusato da alcuni di aver tradito gli alleati arrendendosi alla Germania. Mi feci valere e sono orgoglioso di riferire che a livello di rendimento scolastico potevo facilmente competere con i compagni di classe francesi. Tuttavia i tedeschi occuparono anche il luogo abbandonato dove eravamo sbarcati, e non c’era motivo di rimanervi più a lungo. Sembrava preferibile affrontare la dura occupazione tedesca in patria piuttosto che in terra straniera, così tornammo a casa nell’agosto del 1940. L’occupazione sarebbe durata fino alla liberazione del Belgio da parte dell’esercito americano nel 1944.
Tornato a casa, ripresi gli studi al collegio con i padri e con il gruppo dei miei compagni che erano rimasti in Belgio o vi erano rientrati sani e salvi. L’ultimo anno di scuola, chiamato «Retorica», fu particolarmente ricco e fruttuoso, dal punto di vista sia accademico sia delle relazioni umane. Dovevano seguire anni difficili, che tuttavia sono quelli che formano il carattere e preparano ad affrontare la realtà della vita. Ancora una volta desidero menzionare – poiché l’educazione a casa è ancora più fondamentale di quella a scuola – quanto ricevetti in quegli anni dai miei genitori e dalla mia famiglia. A mio padre sono particolarmente grato per il senso di eccellenza che ha trasmesso ai figli con l’esempio della sua vita e del suo lavoro, e con le grandi aspettative che ha posto su di noi. A lui devo l’ambizione per la perfezione, che ho cercato di coltivare e che mi è stata di grande aiuto quando sono entrato nella Compagnia di Gesù per seguire l’ideale di sant’Ignazio di ricercare sempre il maggiore servizio e la maggiore gloria di Dio. Le virtù naturali apprese nella giovinezza possono, con la grazia di Dio, trasformarsi in doni soprannaturali. Verso mia madre sono ancora più debitore per il suo profondo amore e affetto personale, la sua preoccupazione per il mio benessere e le speranze che ha nutrito segretamente per il mio futuro.
Era molto religioso da ragazzo? Quando ha pensato di diventare prete? Che cos’hanno detto i suoi genitori quando ha comunicato loro questa decisione? Perché è entrato nei gesuiti?
Da ragazzo ero pieno di vita e sono rimasto molto attivo per tutto il periodo della crescita. Facevo tanto sport: giocavo a tennis, andavo a nuotare tutti i giorni e percorrevo anche lunghe distanze in bicicletta. Non avevo certamente un temperamento calmo o introspettivo, anzi, ero intraprendente e sempre in movimento. Pertanto non ero particolarmente pio o «religioso», non più di quanto ci si potesse aspettare da un ragazzo nelle mie condizioni. Sin da giovanissimo, però, servivo messa e facevo la comunione ogni giorno. La nostra casa era a soli cinque minuti a piedi dal collegio che frequentavo e dalla chiesa che vi era annessa. Mia madre e io partecipavamo quotidianamente alla messa del mattino alle sette. La mamma dunque partecipava alla messa in cui io servivo uno dei padri. Poi tornavamo a casa insieme e, dopo colazione, uscivo di nuovo per andare a scuola. La distanza da casa al collegio era così breve che potevo partire quando già suonava la campanella per la lezione e arrivare in orario, se camminavo a passo spedito.
Ho ricordato sopra lo stretto contatto che esisteva nel nostro collegio tra i padri e gli studenti: contatto in classe, dove ricevevamo una formazione di qualità, specialmente negli ultimi anni, e sulle questioni più importanti per la vita, come nel corso di religione; ma anche contatto al di fuori della scuola, durante le attività sportive o culturali con i padri nel collegio. Trascorrevamo così parecchie ore svolgendo attività fisiche e culturali in un’atmosfera molto amichevole e virile.
Quando e come ho cominciato a pensare alla possibilità di diventare prete? Ebbene, non c’è stato nessun momento speciale in cui abbia avuto una particolare grazia di illuminazione. La vocazione è venuta da sé, per osmosi – per così dire –, attraverso l’influenza intellettuale e spirituale che i padri esercitavano su di me, senza pressioni di alcun genere. La loro vita vissuta, profondamente impegnata nel servizio all’educazione e intimamente sincera nell’obbedienza religiosa, mi ha molto impressionato e, senza che ne fossi del tutto consapevole, gradualmente è divenuta per me un esempio da seguire e un ideale da realizzare nella mia stessa vita.
Non sono stato l’unico a maturare una simile risposta. Nella mia classe di trenta studenti ci furono non meno di nove vocazioni al ministero sacerdotale: sei alla Compagnia di Gesù, due al clero diocesano e una all’ordine benedettino. Personalmente, ho sviluppato la vocazione sacerdotale e gesuitica con estrema naturalezza. Chiaramente, in quelle circostanze non distinguevo la vocazione sacerdotale da quella religiosa; entrambe si presentavano nello stesso tempo ed erano praticamente inseparabili. A questa influenza esercitata su di me dai miei insegnanti devo aggiungere, con un sentimento di profonda gratitudine, che la mia cara mamma pregava sempre, senza che allora io lo sapessi, perché uno dei suoi figli diventasse prete. Questo forse spiega la sensazione che ho sempre avuto di essere oggetto di un suo affetto speciale. Probabilmente presentiva che sarebbe accaduto a me. Anni dopo, quando nell’inverno del 1944 fu ricoverata in una clinica di Lovanio per farsi togliere un tumore, andai a trovarla prima dell’operazione, il cui esito era incerto. Mi disse con grande emozione che la mia vocazione era stata la più grande gioia e grazia della sua vita, e che per essa aveva pregato Dio per molti anni. Infine, il 7 maggio del 1945, morì di cancro, a quarantasette anni, proprio nel giorno in cui le campane della città suonavano a festa per la fine della guerra. Aveva offerto la sua vita affinché tutti noi potessimo sopravvivere alle avversità del conflitto. Non ho dubbi che in gran parte devo la mia vocazione a mia madre, al suo esempio e alle sue preghiere.
Terminai la scuola nel luglio del 1941 ed entrai nel noviziato a settembre. Quando comunicai ai miei genitori e alla mia famiglia la mia decisione di entrare nei gesuiti, mi chiesero innanzitutto di aspettare la fine della guerra. Le condizioni sotto l’occupazione nazista erano davvero molto difficili, e sembrava prudente posticipare la decisione a un periodo in cui, finita la guerra, avremmo avuto una maggiore sicurezza di vita e condizioni migliori. La mia risposta fu che non si poteva sapere quanto sarebbe ancora durata la guerra, e per questo ritenevo di non dover rimandare la mia decisione. I miei genitori accettarono il ragionamento. Per il resto, comunque, le loro reazioni furono varie. Mia madre vedeva nella mia vocazione la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, anche se ovviamente la separazione sarebbe stata molto dolorosa; ma lei sapeva accettare i sacrifici e ne avrebbe fatto uno grande per me. Mio padre trovava più difficile capire e accettare. Nutriva grandi aspettative per il mio futuro, così come per quello del mio fratello maggiore, ma a livello di professioni secolari. Tuttavia non cercò in alcun modo di dissuadermi o di interferire in quella che pensavo essere la mia vocazione, anche se la chiamata non era sempre facile da spiegare in termini razionali. Insistette solo sul punto che, se mai fossi ritornato sulla mia decisione, non avrei dovuto esitare a tornare a casa, dove sarei stato sempre il benvenuto. Grazie a Dio questo non è accaduto, e da allora la mia famiglia è rimasta legata a me più che mai.
Dove ha fatto il suo noviziato e la sua prima formazione nella Compagnia? Può fornire un breve resoconto di quei primi anni nei gesuiti? Perché e quando ha scelto di andare in India?
Ci sarebbe tanto da dire su quei sette anni di formazione gesuitica prima della mia partenza per l’India alla fine del 1948. All’inizio c’era ancora l’occupazione tedesca, ma anche gli anni successivi furono segnati dalle gravi traversie sopportate dal paese e dal popolo. Noi giovani gesuiti facevamo fronte a quelle difficoltà con un profondo spirito di solidarietà. Per dare un’idea delle avversità di quegli anni, ricordo che il periodo di formazione era composto da tre parti: due anni di noviziato, due anni di studi classici per il conseguimento della licenza in Lettere e tre anni di Filosofia. Avrei quindi dovuto conoscere tre diverse residenze durante il periodo; invece furono sette. Entrai nel novi...

Indice dei contenuti

  1. SIGLE E ABBREVIAZIONI
  2. PREFAZIONE
  3. TESTIMONIANZA
  4. INTRODUZIONE
  5. PRIMA PARTE Uno sguardo a volo d’uccello
  6. 1 GLI ANTECEDENTI
  7. 2 I DOLORI DI UN PROCESSO
  8. 3 LE CONSEGUENZE DI UN PROCESSO
  9. SECONDA PARTE Alla ricerca della verità
  10. NOTA EDITORIALE
  11. 4 LA TEOLOGIA DEL PLURALISMO RELIGIOSO RIVISITATA - UN BILANCIO PROVVISORIO
  12. INDICE DEI NOMI