Andreotti - Il Papa nero
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Andreotti - Il Papa nero

Antibiografia del divo Giulio

  1. 216 pagine
  2. Italian
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Andreotti - Il Papa nero

Antibiografia del divo Giulio

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Giulio Andreotti, detto anche il divo Giulio, Belzebù, il Papa nero, è il personaggio più longevo della storia italiana e al tempo stesso il più controverso. L'unico politico di statura nazionale di cui sono stati accertati i rapporti con la mafia almeno fino al 1980, ma anche l'amico sincero di molti pontefici e il generoso dispensatore di oboli agli orfani e alle vedove. Ascetico nei comportamenti ma capace di accumulare enormi quantità di fondi occulti per mantenere il potere. Nemico storico della sinistra, ma anche primo fautore di un governo appoggiato dai comunisti.Da Sindona a Moro, da Pecorelli a Dalla Chiesa, dai militari golpisti a Licio Gelli, dai palazzinari romani ai mafiosi siciliani, l'intera vita di Andreotti è costellata di delitti, di misteri, di nemici per bene e di amici impresentabili. Per decenni i vignettisti hanno lavorato intorno alla sua inconfondibile sagoma, la sua vita è stata costantemente illuminata dai riflettori, i suoi motti appartengono al lessico corrente degli italiani, eppure non è esistito nel Paese un altro uomo così insondabile e irrimediabilmente distante dai suoi simili.Dal secondo dopoguerra all'era Berlusconi, Michele Gambino traccia un profilo del personaggio in larga parte inedito, ricostruendone, oltre alle vicende giudiziarie e storiche, la psicologia, la religiosità, i sentimenti e le pulsioni celate dietro la maschera di cera.

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Informazioni

1. Non c’è peggior sordo...

Tutti coloro che per lavoro o passione si sono occupati di misteri italiani a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica, hanno provato ad un certo punto la vertiginosa sensazione di trovarsi sull’orlo di un buco nero, una materia così spaventosa da poter essere descritta solo a costo di correre il rischio di apparire folli. Dentro quel buco, ciò che altrove può essere solo immaginato si manifesta con evidenza: la politica come lotta per il potere tra oligarchie massoniche, il crimine come strumento estremo della politica, il male camuffato dentro il doppiopetto, la toga, la tonaca o l’uniforme carica di stellette, il denaro sporco mescolato in modo inestricabile a quello pulito, una trama di sangue e soldi intessuta senza riposo dentro palazzi di specchiata reputazione. Un sistema di gerarchie capovolte, dove personaggi oscuri esercitano poteri di indirizzo e di veto su uomini all’apparenza mille volte più influenti, dove i centri del potere visibile sono eterodiretti da luoghi periferici e nascosti, e il potere visibile, a sua volta, si rivolge in caso di necessità a strutture segrete che si attivano a comando. Chi ha gli strumenti giusti, può vedere nel corso dei decenni una casta di highlanders muoversi dentro un’architettura di stanze comunicanti in cui a vari livelli e con compiti diversi tutti si dedicano ad officiare un solo rito, quello del potere “con ogni mezzo”.
In un bel libro scritto con Saverio Lodato, Il ritorno del principe, Roberto Scarpinato, componente del pool antimafia di Palermo, ha raccontato che Giovanni Falcone teneva in ufficio un televisore sempre sintonizzato sul Televideo: “Talora, al comparire di una notizia apparentemente priva di ogni connessione col suo lavoro di giudice, si faceva pensoso. Era come se quell’evento – la quotazione in Borsa di una nuova società, la nomina di un ministro – andasse velocemente decodificato per comprenderne la cifra segreta e per calcolarne le possibili reazioni a catena nel quadro complessivo della realtà”.
Falcone cerca di prevedere le mosse delle “menti raffinatissime” di cui lui stesso ha parlato dopo il primo fallito attentato all’Addaura del giugno 1989, perché possiede occhiali che gli permettono di leggere la realtà al di là delle apparenze; lo stesso vale per Paolo Borsellino, che quegli occhiali li usa per prevedere la propria morte dopo quella dell’amico: quei drammatici segnali Borsellino li coglie non tra i mafiosi, ma nei corridoi del ministero dell’Interno, dove vede muoversi ombre che lo inquietano. E d’altra parte non è un mafioso a portare via l’agenda rossa in cui Borsellino ha scritto quel che vede, ma un insospettabile “comandato” in quel luogo di morte. Anni d’indagine hanno solo accertato che quell’uomo esiste, ma non come si chiami. La sua figura ricorda sinistramente quel colonnello del Sismi che molti anni prima, 1978, si trova a due passi dal luogo in cui Moro viene sequestrato e la sua scorta massacrata. Che ci faceva, chiedono i magistrati? Andavo a pranzo da un amico, è la risposta. Solo che erano le 9 del mattino, e l’amico non era stato informato. Questo episodio s’inserisce nella storia di una certa branca dei servizi segreti di cui più avanti parleremo a fondo. Qui lo cito solo per ricordare che ogni tragica vicenda italiana ha come corollario una quota d’indicibile, che ha radici nella parte non emersa del potere.
Non si contano le volte in cui noi giornalisti detti “pistaioli” ci siamo imbattuti – come nei film – nelle storie di uomini coraggiosi o fortunati che poco prima di essere uccisi confidano a parenti o intimi amici di aver scoperto qualcosa di eccezionalmente importante, e di temere per la propria vita. Nessuno di loro, riferiscono i depositari delle confidenze, pensa a criminali comuni, quando pronuncia quelle frasi. Si tratta di persone che hanno visto dentro il buco nero qualcosa di nitido e afferrabile, con un’acutezza dello sguardo che è costata loro la vita. È ciò che accade a Borsellino, quando il giorno prima di essere ucciso, passeggiando con la moglie sul lungomare di Carini, le confida: “Non sarà la mafia ad uccidermi, di loro non ho paura. Saranno i miei colleghi e altri a permettere che accada”.
Chi si trova, ad un certo punto della propria esistenza, ad aver acquisito anche solo in parte la capacità di guardare nel buco nero, si trova d’improvviso in una surreale condizione: depositario di fronte ai fatti di uno speciale sguardo in grado di decodificarli e coglierne i nessi segreti, e tuttavia condannato a non poter condividere se non in piccola parte le conoscenze acquisite. Concorrono all’isolamento molti umani motivi: la paura di non essere creduti, quella peggiore di essere ammazzati; o semplicemente l’incapacità di dare dello sfuggente e inverosimile buco nero una lettura unitaria e comprensibile, accettabile nonostante la sua enormità.
Si resta quindi soli in una terra di nessuno, e si avverte l’istintiva pulsione a ritrarsi dall’orlo del buco, per ricongiungersi agli altri, tornare a calcare un terreno più solido e rassicurante. È allora che i sacerdoti del mistero vincono: quando quel che nascondono non è più invisibile, ma viceversa tanto accecante da rendere impossibile il guardarlo. Quando le cose vere entrano nella categoria dell’inverosimile e non possono essere credute.
L’Italia è tra i Paesi occidentali quello che più di ogni altro ha lasciato crescere al suo interno una speciale geografia del mistero: ragioni sociopolitiche e geografiche hanno reso facile più che altrove lo sviluppo di mafie e consorterie, favorite e coperte da apparati dello Stato in cui la selezione del personale si è stratificata per fedeltà, caste e interessi particolari.
L’esercito delle tarme
L’immagine usata e abusata è quella del cancro che aggredisce la parte sana dell’organismo Paese. A chi scrive sembra che la verità sia diversa e per certi versi peggiore: il cancro è un corpo estraneo rispetto al quale entro un certo lasso di tempo un organismo si libera o soccombe; nel caso italiano, invece, il Paese visibile e quello segreto convivono ormai da molti decenni, avendo attraversato insieme modernizzazioni, sconvolgimenti, il collasso di intere classi politiche e il passaggio da una Repubblica all’altra. Allora forse la metafora più appropriata per avvicinare i profani a ciò di cui stiamo parlando è quella di un esercito di tarme che aggredisce un armadio e lo divora dall’interno, lentamente, invisibilmente. Vista da fuori la struttura appare intatta, ma il suo interno svuotato e indebolito scricchiola e s’incrina, al punto che una sola spallata potrebbe farla crollare. Quella spallata, in certi momenti strategicamente minacciata, temuta, evocata, non è mai arrivata, perché sarebbe la fine dell’armadio, ma anche delle tarme.
In Italia molte tracce del lavorio tarmesco sono visibili ad occhio nudo: negli Usa i dietrologi si appassionano ancora senza prove dietro un episodio del 1963, l’omicidio Kennedy, o si arrampicano sugli specchi per dimostrare che ci fu una cospirazione dietro l’attacco dell’11 settembre; da noi per 13 anni ha funzionato una apposita commissione: tu telefonavi agli uffici di San Macuto e una voce squillante rispondeva “Stragi...?”. I componenti di quell’organismo accumularono una mole incredibile di materali, ma non produssero nessun documento finale, perché avrebbero dovuto sviluppare concetti incompatibili con l’esistenza stessa della Repubblica.
La verità è che questo Paese ha accumulato una così vasta processione di misteri da dover ragionare per categorie o addirittura per fattispecie giuridiche: i delitti di Stato, gli omicidi eccellenti, la strategia della tensione, la strage di Stato, lo Stato parallelo, i servizi deviati, il concorso esterno, i colletti bianchi, persino le logge segrete denominate per ordine di apparizione, P2, P3, P4… Per ultima è arrivata la trattativa con la mafia, condotta da alti ufficiali e sostenuta da coloro che, avendo brigato con le cosche, ne hanno temuto la vendetta. La geografia dei misteri italiani è così vasta e articolata da coincidere quasi – come la fantastica mappa del mondo immaginata da Borges – con il Paese stesso.
Non si capisce nulla delle trame italiane se non si parte da un semplice dato, noto ai più ma che forse è utile ricordare per i più giovani: l’Italia è stato il Paese europeo al di qua della cortina di ferro che dal dopoguerra fino al crollo del muro ha avuto il più importante e più organizzato partito comunista dell’Occidente. L’esigenza degli “atlantisti” di impedire che i “rossi” raggiungessero il potere entrando nell’orbita sovietica ha segnato la storia del Paese: dalla strage di Portella della Ginestra a piazza Fontana, dalla costante minaccia dei golpe alla P2, dall’uso “politico” della mafia alla creazione delle varie “Gladio” più o meno presentabili in società, la violenza, o lo spauracchio della violenza, sono stati alcuni degli strumenti della lotta politica finalizzata a mantenere il Paese sotto l’ombrello della Nato.
Questo è un dato di fatto ormai quasi pacificamente accettato da tutti, a destra e a sinistra. Eppure l’idea che i cervelli politici di questa strategia – che certamente devono esistere – possano incarnarsi in uno o più dei protagonisti delle vicende politiche del Paese, questo la classe politica, in un sussulto di autoprotezione, non vuole accettarlo: più facile inventare un qualche burattinaio, o grande vecchio, che manovra tirando da chissà dove chissà quali fili, che accettare la semplice ma più urticante idea che i grandi vecchi siano tra noi, figure ambigue ma familiari, enigmatiche ma conosciute.
Il ministro della malavita
La collocazione geopolitica dell’Italia e la contemporanea presenza di un partito comunista da arginare “ad ogni costo” è, come abbiamo visto, una delle concause dell’anomalia criminale italiana. Un secondo importante fattore è la presenza nel Meridione di una criminalità organizzata e politicamente attiva, che risale ai primi anni dello Stato unitario: a sollevare per primo il problema fu uno storico libretto dal titolo molto forte, molto moderno: Il ministro della malavita. L’autore non era un giornalista d’assalto ante litteram ma uno storico e meridionalista di chiara fama, il socialista Gaetano Salvemini. Il suo bersaglio era Giovanni Giolitti, tre volte presidente del Consiglio e capo indiscusso di un’ampia maggioranza di governo. Salvemini raccontava i metodi di raccolta del voto del candidato giolittiano a Gioia del Colle, in provincia di Bari, e in alcuni paesini siciliani: intimidazioni, manipolazioni del voto, connivenze con la forza pubblica che avrebbe dovuto controllare la regolarità dello spoglio elettorale. Con lo stile del reportage Il ministro della malavita descriveva le prepotenze dei “mazzieri” del partito di maggioranza, i pestaggi preventivi e gli arresti non motivati ai danni dei candidati delle opposizioni, lo scorrazzare impunito dei malavitosi dentro i seggi, i brogli compiuti alla luce del sole, i prefetti intimiditi o conniventi.
Il voto nel Mezzogiorno d’Italia, scriveva Salvemini, non è libero. Di questo sistema il capo della maggioranza era il responsabile oggettivo, il beneficiario e al tempo stesso il servo:
Giolitti, che a prima vista sembra il dittatore della maggioranza, in realtà è il servo e lo strumento dei deputati della maggioranza; i quali intanto gli hanno conferita la dittatura, in quanto sanno che questa dittatura sarà esercitata a tutela dei loro interessi. È il loro capo: dunque deve servirli.
Nonostante le prove schiaccianti presentate da un uomo autorevole come Salvemini, il voto di Gioia del Colle e degli altri luoghi citati nell’inchiesta venne convalidato dall’aula parlamentare con il voto della sinistra radicale e dei repubblicani, alcuni dei quali avevano usufruito degli stessi sistemi denunciati da Salvemini. Giolitti non si dimise, e nemmeno rispose direttamente alle accuse. Solo più tardi, nelle sue memorie, scrisse che non gli era stato possibile mutare “con un colpo di bacchetta... uno stato di cose che dura da secoli”. La folgorante definizione del titolo di Salvemini gli restò incollata addosso per tutta la vita, ma non gl’impedì di continuare l’attività politica fino all’avvento del fascismo, e di essere lodato – dopo morto – non solo dai liberali ma anche dal comunista Togliatti.
Le ragioni di questa benevolenza le spiega molto bene uno storico dei nostri giorni, Giovanni Sabbatucci:
Bisogna tener presente innanzitutto la condizione di drammatica arretratezza in cui il Mezzogiorno versava a cinquant’anni dall’Unità e le obiettive difficoltà cui si trova di fronte (oggi come allora) chiunque cerchi di impiantare un regime rappresentativo in una società economicamente e culturalmente arretrata. Era convinzione diffusa, anche se raramente confessata, che in un simile contesto la società civile non avrebbe mai potuto esprimere da sola nessuna rappresentanza “decente”, nessun progetto riconducibile alla cultura liberale. Al contrario, lasciata a se stessa, avrebbe prodotto spinte disgregatrici tali da mettere in forse la stessa costruzione unitaria. Tanto valeva allora venire a patti con quella realtà e volgerla “a fin di bene”: trasformare, come in effetti avvenne, una potenziale polveriera sociale in un serbatoio di voti ministeriali. Se questo era vero per buona parte della classe dirigente liberal democratica, tanto più doveva esserlo per Giolitti, statista intelligente e cinico, maestro nell’arte di utilizzare per una buona politica i mediocri materiali che le circostanze del tempo gli mettevano a disposizione.
L’intolleranza alle regole come tara ereditaria del Sud d’Italia, il cinismo della classe dirigente e la presunzione della propria insostituibilità. Sono queste le componenti di una specifica questione meridionale che – pensiamo per un momento alle facce dei Cuffaro di turno, e dei loro protettori romani – il Paese non si è mai scrollata di dosso. Semmai con la modernizzazione ad essa si è affiancato dell’altro, una “questione morale” che nasce dentro i partiti politici e riguarda tutta la nazione, come illustrò perfettamente il leader più illuminato del vecchio Pci, Enrico Berlinguer, in una famosa intervista a Eugenio Scalfari, datata 28 luglio 1981. Vale la pena riprenderne alcuni brani.
I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. […] Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. […] Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Scalfari chiede degli italiani: non si accorgono di questo stato di cose o lo subiscono? La risposta di Berlinguer è onesta e persino spietata, il segretario del Pci non solletica il ventre dell’antipolitica, come i tribuni del popolo di oggi.
Molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più.
La fosca e coraggiosa disamina di Berlinguer illumina il terzo fattore della grande anomalia italiana: partiti-camarille dediti all’occupazione del potere e alla spoliazione delle risorse pubbliche, cittadini ricattati dal sistema che loro stessi alimentano col voto clientelare; una peculiarità italiana che affianca le trame oscure degli atlantisti ad ogni costo e il Meridione nelle mani delle cosche.
I mandanti in prima fila
Non esiste nell’Occidente civilizzato una nazione in cui tanti fattori negativi si siano legati in un’unica trama, che rallenta, insanguina, in certi momenti sembra quasi soffocare il Paese. Allo stesso tempo non esiste un popolo che conviva in maniera così quieta, addomesticato o connivente, con il suo lato oscuro e inconfessabile. Nel 2006 Dacia Maraini scrisse per il “Corriere della Sera” un bellissimo articolo. Parlava di Napoli e dei napoletani, ma le sue parole, alte e forti, erano in realtà per l’Italia, per tutti noi:
Il sentimento di giustizia è stato offeso e umiliato. La verità è stata negata. “L’offesa alla verità sta all’origine della catastrofe”, dice Tiresia che vede tutto, nonostante sia cieco. L’irresponsabilità delle classi dirigenti comincia nel Sud d’Italia già nel dopoguerra, quando si è creduto di poter usare i criminali per ottenere voti e controllo del territorio. Si è chiuso prima un occhio e poi l’altro, in nome dell’anticomunismo, su chi faceva man bassa delle leggi in un’Italia che chiedeva giustizia e veniva messa a tacere con permessi di costruzione fuorilegge, speculazioni di ogni genere, rapine del territorio. Una certa presenza di criminali è fisiologica in una metropoli. Ma quando questi criminali allacciano rapporti vischiosi con la politica, la città viene attaccata dalla peste, proprio come Tebe. […] Il vizio sta proprio in quel sottile limite fra lecito e non lecito che con troppa disinvoltura si è pensato di potere tollerare. Troppi scambi, troppe intese sotterranee, troppe intelligenze con chi fa soldi a palate sulla pelle dei cittadini. […] La città di Tebe, racconta Sofocle, si è ammalata perché ha chiuso gli occhi, perché non ha saputo né voluto vedere le responsabilità di chi l’ha governata per decenni, diventando di fatto connivente con un modo di vita che disprezza la legalità, denigra lo Stato, umilia la verità. “L’uccisore che cerchi sei tu”, dice tristemente Tiresia a Edipo che si infuria: “Come osa accusarmi, io che ho fatto di tutto, ho versato infinite lacrime e amo follemente la mia città?”. Ma non si tratta di lacrime. “Verranno alla luce altre sciagure non volute dal caso, ma dall’uomo”, dice saggiamente un testimone a Edipo. “Sono queste le cose che danno più dolore: le sciagure che l’uomo vuole infliggersi da sé”.
L’Italia, come Tebe, è colpevole della sua disgrazia, dei suoi morti, della violenza che l’attraversa, delle verità negate, di ogni comp...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il libro
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Tanti anni fa, a Catania…
  6. 1. Non c’è peggior sordo...
  7. 2. La leggenda del grande mediatore
  8. 3. L’eterno inspiegabile
  9. 4. Le carte che nessuno ha letto
  10. 5. Mafioso per un bel po’
  11. 6. Quattro ombre per il senatore
  12. 7. Un servizio noto a pochi
  13. 8. Il nido delle tarme
  14. 9. Un uomo senza speranza
  15. Vita di Giulio