La buona morte. Viaggio nell'eutanasia in Italia
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La buona morte. Viaggio nell'eutanasia in Italia

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La buona morte. Viaggio nell'eutanasia in Italia

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In occasione del dibattito sul caso Englaro, nel 2008, alcuni intellettuali stendono il proprio testamento biologico. "Io ho trent'anni e ho paura della morte. Ho paura della malattia, della non autosufficienza, della sporcizia", scrive Andrea Tarabbia nel proprio. E racconta, in questo libro, della vita di suo nonno dopo un ictus; dell'incontro con il presidente di Exit, che aiuta gli italiani che fanno richiesta di morte volontaria assistita in Svizzera; parla con Mina Welby di eutanasia clandestina e di leggi, e con padre ***, favorevole alla "buona morte", del potere ecclesiale. Accompagnano questo viaggio i libri e gli autori che hanno scavato nel rapporto che c'è tra la letteratura e la fine della vita.Chiesa, morte, tecnica, libertà, dolore, medicina, autodeterminazione (del malato), identità, diritto di proprietà del proprio corpo, infine giustificazione: sono i poli attorno cui ruota questo reportage narrativo, delicato eppure intransigente, su uno dei temi più scottanti e attuali del nostro Paese.

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2014
ISBN
9788862666107
Categoria
Sociology

CAPITOLO TERZO

I proprietari della morte

A novant’anni quasi compiuti il sociologo tedesco Norbert Elias ha scritto un libro che, in italiano, si intitola La solitudine del morente. È un trattatello che, negli intenti, vuole prendere di petto alcuni temi che, secondo l’autore, caratterizzano la civiltà occidentale contemporanea: composto al principio degli anni Ottanta – un’epoca in cui, insieme al decennio precedente, le riflessioni sulla morte e il morire hanno conosciuto una certa fortuna in ambito editoriale, soprattutto nel mondo anglosassone – il libro parla della solitudine di chi muore e, soprattutto, della rimozione dell’idea della morte. Anzi: benché non lo dica mai esplicitamente, sembra che Elias incolpi della solitudine del morente proprio il fatto che, ormai, la morte appartiene sempre più alla sfera del rimosso. Essa non c’è, non ci si può e non ci si deve occupare di lei: dunque chi con lei ha a che fare (appunto il morente, il moribondo) deve essere tenuto lontano.
Già Philippe Ariès aveva sostenuto che, nel Novecento, la morte aveva preso il posto, in cima alla lista dei tabu collettivi, del sesso. Nella nostra epoca è più facile parlare di sessualità che di fine: la morte non c’è, essa va obliata, nascosta, tenuta lontana; è qualcosa con cui i vivi non sanno (o non sanno più) come avere a che fare, e dunque preferiscono far finta che non esista. Elias comincia il suo libro sostenendo che non solo la morte, ma addirittura l’infermità sia un tabu, qualcosa con cui fatichiamo a metterci in relazione. Secondo lui, il decadimento fisico e l’allettamento sono dei fattori sufficienti affinché la cerchia dei sani in qualche modo emargini il malato. Dice:
“la silenziosa esclusione degli individui senescenti e morenti dalla comunità umana, il progressivo raffreddamento del loro rapporto con individui con cui avevano legami affettivi […]. Una delle carenze delle società avanzate si palesa nell’isolamento prematuro – anche se non deliberato – cui sono condannati i morenti. Questo isolamento testimonia quanto siano limitate le capacità degli individui di identificarsi gli uni con gli altri”.
E dice:
“Non è la morte ma la coscienza della morte a costituire un problema per gli uomini”, tanto è vero che, ormai, nessuno o quasi dà più disposizioni sul proprio funerale se non quando è proprio evidente che la fine sia molto prossima. E spesso neppure in quei frangenti. Parlare della morte è dunque parlare di un grande rimosso e di un’inadeguatezza che spesso si traducono, continua Elias, anche nell’incapacità di prestare ai moribondi l’aiuto e l’attenzione necessari nel momento finale; ciò avviene, dice Elias, “perché nella morte altrui scorgiamo un’avvisaglia della nostra” e di conseguenza percepiamo, forse, una scalfittura nell’architettura attraverso cui leggiamo e percepiamo il nostro essere individui.
Mi scuso per questo inizio di capitolo un po’ didattico, in cui riassumo con una certa superficialità delle riflessioni che ciascun lettore può trovare meglio argomentate nel libro di Elias – e in altri autori che citerò più avanti. Tuttavia, in questi mesi, ho pensato spesso ai concetti che ho appena elencato e li volevo qui, tutti vicini in un paio di pagine. Del resto, la reazione che ha avuto la maggior parte delle persone con le quali ho parlato del progetto di questo libro è stata più o meno conforme a quanto sostiene Elias a proposito del nostro rapporto con la morte: hanno nicchiato, hanno tentato di non parlarne. Ma perché scrivi un libro su questi argomenti? Perché ti occupi e ti interessi di queste cose?, mi chiedevano e mi chiedono. In modo più o meno diretto, tutti hanno voluto sapere perché voglio scrivere qualche decina di pagine sul grande tema rimosso del nostro tempo e, soprattutto, perché me ne voglio occupare entrandovi da una porta molto stretta, un passaggio pericoloso: l’eutanasia. Ho in parte già risposto nel primo capitolo: perché credo che il compito ultimo dei libri e della letteratura sia quello di affrontare il grande buco nero che è l’ignoto, la morte. Qui, rispetto agli altri miei libri, lo faccio semmai in una forma che non è narrativa, ma è più vicina al saggio, se si vuole al reportage, e metto nero su bianco cose che, solitamente, restituisco al lettore trasfigurate dall’immaginazione, dalla narrazione. Ma il territorio è sempre quello. Essa, la morte, è qualcosa che ci appartiene e ci definisce, eppure è inafferrabile, indefinibile: noi la possiamo esperire soltanto attraverso gli altri. Nessuno può dire “Io sono morto” o “Io sono la mia morte”, ma tutti, guardando un morto o qualcuno che muore, possiamo dire “Quello sarò io”. Dice Giorgio Pigafetta, che insegna storia dell’architettura e ha pubblicato un libro piccolo e splendido sulle rappresentazioni della morte nell’arte nel corso dei secoli, che essere uomini significa apprendere di seconda mano la morte degli altri. La malattia, l’immobilità sono, per come io le vedo, qualcosa di terribile e terrificante, ma sono anche un annuncio, un manifesto: è in loro, o attraverso di loro, che noi, i vivi e sani, possiamo confrontarci con il più grande e il più comune di tutti i misteri.
La morte è qualcosa che ha a che fare con l’identità di un individuo. Con essa, il percorso biografico di ciascuno di noi si completa e acquista il proprio senso definitivo. Oltre la morte non possiamo andare: essa ci definisce, dice ciò che siamo e ciò che non siamo stati. Cristallizza ciò che abbiamo fatto e immaginato e pensato e ci presenta agli altri in una sorta di interezza dentro la quale essi possono giudicarci e ricordarci. Ma c’è dell’altro, e l’ho imparato da ragazzino, leggendo i libri di Primo Levi: di tutto l’immane dolore di cui è impregnata la sua opera, la cosa che non sono più riuscito a dimenticare è un passaggio in cui si racconta del perché ad Auschwitz fossero molto pochi i casi di suicidio. Sarebbe molto facile, dice Levi, procurarsi la morte in un campo: basterebbe correre fuori da una fila o compiere qualche atto fuori dalle regole per prendersi un colpo di pistola nella schiena; basterebbe anche soltanto aggrapparsi al filo elettrificato che divide il Lager dal resto del mondo, o rifiutarsi di eseguire un ordine. Eppure nessuno, o solo pochi e soltanto durante i primi giorni di prigionia, lo fa. Perché? Perché il suicidio, dice Levi, per quanto possa sembrare paradossale è un atto di umanità: solo l’uomo si suicida, gli animali non lo fanno; il suicidio è una libera scelta, l’estremo atto di libertà che un uomo disperato può compiere contro se stesso. Tuttavia l’immane macchina dei campi è costruita, prima ancora che con lo scopo di sterminare delle persone, con l’idea di annullarne a poco a poco ogni residuo di umanità: il prigioniero è così debole, così malato, così annichilito che ogni forma di volontà e di libero arbitrio viene in lui a poco a poco annullata. Dunque, semplicemente, nessuno in un Lager pensa di uccidersi perché il meccanismo della detenzione e della sopraffazione non gli consente più di pensarsi come individuo – dunque come uomo libero anche di uccidersi. In un certo senso si continua a vivere perché non si sa di essere vivi, e i bisogni e i dolori della vita quotidiana sopraffanno quella capacità tutta umana di guardare se stessi da fuori e di giudicare la propria vita indegna di essere vissuta. Il diritto alla morte, alla propria morte, è pertanto un indizio di umanità, per quanto paradossali questo diritto e questo indizio possano sembrare. Io mi tolgo consapevolmente la vita perché sono vivo. Sia chiaro: lungi da me l’idea di sostenere il suicidio come estrema affermazione della propria persona, ma il diritto alla morte, che Hans Jonas chiama il diritto di morire (la morte e il morire, si badi, non sono la stessa cosa), è qualcosa che, sono convinto, ci trascende e ci definisce. Camus diceva che l’unico problema filosofico veramente serio è quello del suicidio:
“Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.
E diceva:
“Morire volontariamente presuppone che si sia riconosciuto, anche istintivamente, il carattere inconsistente di tale abitudine, la mancanza di ogni profonda ragione di vivere, l’indole insensata di questa quotidiana agitazione e l’inutilità della sofferenza”.
Rileggo questo intervento, contenuto nel Mito di Sisifo, e penso a Welby, penso al suo diritto di porre fine a un’esistenza consapevolmente vissuta come non-esistenza. Penso anche che, per anni, questo diritto gli è stato negato, e dunque non gli è stato riconosciuto lo status di essere umano – di uomo libero di pensarsi come individuo e dunque, anche, di uccidersi. Welby a un certo punto scrisse qualcosa che è molto vicino a quanto dice Ceronetti a proposito di se stesso:
“Io maledico i medici e i loro tubi infernali, rivoglio la mia morte, niente di più, niente di meno”.
Rivoglio la mia morte. L’eutanasia, le pratiche del fine vita, dunque, sono anche e forse soprattutto delle pratiche di autodeterminazione, di riconoscimento dell’uomo come uomo. Io sono un uomo e decido di porre fine al dolore, all’immobilità, alla morte in vita: è quello che mi rimane per dire al mondo che ci sono e sono vivo.

Piccola storia della morte e dell’identità

L’ultimo capitolo di La morte di Ivan Il’ič, quello dove Tolstoj mette in scena gli ultimi momenti della vita del suo protagonista, si apre in modo terribile: con il dolore. “Da quel momento” scrive il conte, “cominciò il grido che doveva seguitare tre giorni, tanto spaventoso che non si poteva a due camere di distanza udirlo senza terrore”. E ancora:
“Per tre interi giorni, giorni senza tempo per lui, si dibatté nella bocca di quel sacco nero in cui lo cacciava un’invisibile e indomabile forza. Si dibatteva come si dibatte fra le mani del carnefice il condannato, ben sapendo che non può salvarsi; e di minuto in minuto sentiva che, malgrado tutti i suoi sforzi e la sua resistenza, sempre più si avvicinava a ciò che faceva il suo spavento”.
Ivan Il’ič lotta contro il terrore e il male che prova, e lo fa sapendo non solo di essere vinto in partenza, ma con l’atroce consapevolezza che non tutto, nella sua vita, è andato come doveva e che, soprattutto per quanto riguarda gli affetti, c’è come un buco, una mancanza e un’incompletezza. Così, oltre al tormento che gli danno i dolori e la consapevolezza non solo dell’ineluttabilità della fine, ma anche della sua vicinanza, nei momenti in cui è cosciente Ivan Il’ič sopporta anche il peso di una vita che adesso gli si rivela come parzialmente vuota, incompiuta. È solo poco prima di spegnersi definitivamente che viene raggiunto da una sorta di illuminazione:
“A un tratto una forza lo colpì al petto al fianco, gli tolse il fiato, ed egli piombò nel buco; e là, nel fondo del buco, brillava qualcosa. Fu per lui come quando, in treno, ci si figura d’avanzare e invece si retrocede, e a un tratto si riconosce la vera direzione”.
Mentre, durante il suo terzo e ultimo giorno di dolori insopportabili, Ivan Il’ič così si dibatte nel letto, il figlio e la moglie gli si avvicinano; il figlio gli prende la mano, la bacia e scoppia a piangere:
“Egli aprì gli occhi e guardò il figlio. Ne ebbe pietà. S’accostò la moglie. Guardò anche lei. […]. Anche di lei ebbe pietà. ‘Sì, io li tormento’ pensò. ‘Loro avranno dispiacere, ma staranno meglio, quando sarò morto.’ […] E all’improvviso ciò che lo tormentava e che non tornava – tutto all’improvviso cominciò a tornare, da un lato, da due, da dieci, da tutti i lati. Ho pietà di loro, bisogna non farli soffrire. Liberarli e liberare me stesso da queste sofferenze. ‘Come torna bene e come è facile’ pensò. ‘E il male?’ si chiese. ‘Dov’è andato? Ebbene, dove sei, male?’. Stette attento. ‘Sì, eccolo. E con questo? Dolga pure.’ ‘E la morte? Dov’è?’. Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’è? Ma che morte? Non c’era più paura perché non c’era più morte. Invece della morte, la luce. ‘Dunque è così!’ disse d’un tratto ad alta voce ‘Che gioia!’ […]. ‘Finita la morte’ si disse. ‘Non c’è più, la morte.’ Trasse il fiato, si fermò a mezzo, s’irrigidì e morì”.
Ivan Il’ič muore in pace. È nella sua casa, circondato dai famigliari e ha il tempo non solo di salutarli, ma anche di mettere per così dire a posto la coscienza nei loro confronti. La sua è una morte allo stesso tempo antica e moderna: è antica perché conosce, nei suoi attimi finali, una sorta di riconciliazione del moribondo con il proprio mondo, con il passato e gli affetti; è moderna perché, prima di quella redenzione in extremis, ha conosciuto la solitudine, la lontananza dai famigliari (l’unica figura che, nel corso della narrazione, sta davvero vicina al malato e lo compatisce è il servo Gerasim), ma soprattutto perché Tolstoj non si dimentica, nella sua narrazione, di quella che oggi chiamiamo medicalizzazione. Infatti, se alla malattia di Ivan Il’ič non viene mai dato un nome, il racconto è tuttavia scandito dai bollettini medici che via via avvicinano il protagonista all’abisso:
“La vita di Ivan Il’ič non era in questione” si dice a un certo punto, “era in questione la disputa tra rene mobile e intestino cieco”. In un capitolo del suo Storia della morte in Occidente, che Philippe Ariès dedica alla storia del rapporto tra Il malato, la famiglia e il medico, lo storico francese si propone di mostrare come nella civiltà occidentale si sia passati dall’esaltazione della morte (il cui culmine viene secondo lui raggiunto nell’età romantica) all’odierno rifiuto di essa. Per far questo, Ariès cita il caso di una nobile famiglia francese di stanza in Italia, i La Ferronays, che hanno avuto dieci figli – quattro dei quali morti appena nati. Degli altri sei, tre muoiono intorno ai vent’anni di tubercolosi (il cancro del XIX secolo) tra il 1834 e il 1848: vent’anni dopo questa catastrofe, nel 1867, Pauline, l’unica figlia sopravvissuta, pubblica le lettere che la famiglia si scambiò in quegli anni terribili con il titolo di Racconto di una sorella. Ariès sostiene che questo straordinario documento sia la cronaca famigliare di un gruppo di persone innamorate della morte: in quelle pagine Albert, morto a soli 22 anni, parla della sua tubercolosi come di un’infiammazione “che mi ha portato a un passo dalla tomba”.
È stanco, nervoso, e tuttavia si sposa e conduce, quando la malattia glielo consente, una vita che ha la pretesa di essere normale (è curioso per esempio che la famiglia della moglie, accettando lo sposo, sia più preoccupata dello stato patrimoniale dei La Ferronays che della salute di Albert). La moglie stessa, che pure lo assiste durante le crisi sempre più frequenti e violente, nelle lettere appare piuttosto indifferente alla diagnosi medica: registra le emottisi, le febbri, i soffocamenti del marito, ma si accontenta di chiamare infiammazione la tubercolosi. Ciò che dice il medico sembra non turbarla. Solo nel 1836 – due anni dopo il matrimonio – Alexandrine (questo il nome della moglie) scrive di aver chiesto al medico una volta per tutte il nome della malattia di Albert: saputo che si tratta di tisi polmonare “sentii che ogni speranza mi abbandonava”, scrive. Chiosa Ariès:
“Ma, se allora la tisi appariva mortale come oggi il cancro, né il malato né la famiglia provavano il minimo desiderio di conoscere la natura del male. Non c’era l’ossessione della diagnosi, non per timore del risultato, ma per indifferenza verso la particolarità del morbo, il suo carattere scientifico. Si soffriva, ci si faceva curare dal medico e dal chirurgo (il salasso), ma non si chiedeva loro nessuna informazione”.
Ivan Il’ič, al contrario, è medicalizzato: egli vuole sapere, conosce la sua malattia e quali sono gli organi intaccati. È informato e non viene colto di sorpresa dal proprio destino, anzi, ci si abitua a poco a poco: egli scompone il proprio corpo in parti sane e parti malate (il rene mobile, l’intestino cieco). Nel corso di poco più di un secolo qualcosa è dunque cambiato nel rapporto tra il malato e la sua morte. È lo stesso Ariès a considerare il romanzo breve di Tolstoj una rappresentazione chiave dei molteplici modi con cui gli uomini sono morti nel corso dei secoli: la morte di Ivan Il’ič è simbolicamente uno spartiacque, un momento di sintesi; anche se si tratta di una finzione, essa racchiude e sublima i modi di morire degli uomini: nell’atteggiamento di Ivan Il’ič c’è quasi tutto ciò che nelle varie epoche i morituri e i loro congiunti hanno provato e provano di fronte alla morte.
Nel suo studio, lo storico francese compie un percorso all’interno dei modi di affrontare la morte che comincia nel Medioevo e finisce nel pieno del Novecento. Seguire il discorso di Ariès è seguire passo passo la lenta ma inesorabile modificazione dell’atteggiamento che gli uomini hanno via via assunto nel corso dei secoli di fronte alla morte propria e a quella degli altri. Se nel Medioevo, dice Ariès, la vita non era che una (non troppo) lunga marcia di avvicinamento all’estremo passo – che veniva preparato, in qualche modo atteso e affrontato con una forma di serenità su cui tuttavia qualcuno, come vedremo, ha nutrito dei dubbi –, in età moderna, soprattutto dopo la rivoluzione industriale, la morte comincia lentamente a insinuarsi nella visione degli uomini sotto forma di tabu, di fastidio, di qualcosa che bisogna non solo temere, ma scacciare dai propri pensieri e dalla propria vista. Ariès comincia raccontando di come si moriva nella chanson de geste e nei romanzi medievali. Lì, gli eroi non morivano mai senza sapere di essere prossimi alla fine. Tutti avevano il tempo di misurarsi con l’idea della propria fine imminente: Orlando a Roncisvalle sente che la morte lo prende, Tristano percepisce che la sua vita si sta perdendo. Si muore avvisati. Terribile è, per l’uomo medievale, la morte improvvisa, quella che non dà il tempo di rendersi conto che si sta per compiere l’ultimo chilometro. Si tratta di qualcosa che va al di là della paura o del fatalismo: si muore perché bisogna morire, allora meglio farlo in piena coscienza, in modo da avere il tempo di chiedere perdono, di salutare tutti e di passare dall’altra parte consapevoli di compiere l’ultimo gesto della propria esistenza. Ancora in Tolstoj, in un altro racconto straordinario che si intitola Tre morti, i contadini muoiono come Orlando e Tristano: serenamente consapevoli. Il vecchio vetturale che giace sulla stufa risponde a una donna che gli chiede come si sente “La morte mia è arrivata, ecco cos’è”. La coscienza della morte consente alla persona di dare le ultime disposizioni: l’eredità, le esequie; le consente di dire addio agli uomini e di raccomandare la propria anima a Dio. Il morto medievale (ma anche quello del primo Tolstoj) muore soltanto dopo aver chiuso i conti con il mondo, con se stesso e con la divinità. Passando in rassegna le morti antiche, pertanto, Ariès racconta storie di morti semplici, pacificamente accettate e familiari. L’uomo consapevole di morire era padrone della propria morte: era rassegnato, ma aveva chiaro il motivo per cui se ne andava. Se per caso il malato non era conscio del proprio destino, dice Ariès, un documento pontificale obbligava i medici medievali ad avvisarlo. Il medico non era soltanto una figura che cerca di guarire e di tenere in vita; era anche una sorta di nocchiero, di accompagnatore estremo: il medico che alla fine del Don Chisciotte visita il cavaliere al suo capezzale gli intima, a scanso di equivoci, di assicurarsi l’anima perché capisce che gli resta poco da vivere. Il medico non mente, non nicchia: è tra i suoi compiti quello di accompagnare alla morte il malato inguaribile e, nella sua visione, la morte di un paziente non è vissuta come una sconfitta della scienza, ma come qualcosa di naturale. È inevitabile che si muoia, dice il medico, dunque tra i miei compiti c’è quello di stare accanto al malato anche nel momento in cui la mia arte non può più far nulla per lui (“Vedete” dice un medico in Balzac, “qui la morte è considerata come un fatto previsto, che non arresta la vita delle famiglie”).
Ma non solo: Ariès scrive che, nel momento in cui risulta chiaro a tutti che le ore che il malato sta vivendo saranno le sue ultime, egli deve in qualche modo presiedere la sua morte:
“Come si nasceva in pubblico, così si moriva in pubblico, e non soltanto il re […] ma chiunque. Quante incisioni, quanti dipinti ci rappresentano la scena! Appena qualcuno ‘giaceva a letto, ammalato’, la sua camera si riempiva di gente, parenti, figli, amici, vicini, membri delle confraternite. Si chiudevano le finestre, le imposte. Si accendevano i ceri”. L’approssimarsi della morte trasformava insomma la stanza del moribondo in una sorta di luogo pubblico dove chiunque era tenuto a entrare per dare l’estremo saluto. A questa cerimonia, che poteva durare giorni, prendevano parte anche i bambini – per i quali, nel Medioevo, la morte non era qualcosa di nascosto, che succede di là, bensì qualcosa che colpisce chi ci è vicino e nei confronti della quale ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Epigrafe
  3. Prologo in tribunale
  4. CAPITOLO PRIMO
  5. CAPITOLO SECONDO
  6. CAPITOLO TERZO
  7. CAPITOLO QUARTO
  8. CAPITOLO QUINTO
  9. Epilogo in tribunale
  10. Bibliografia