Un Dizionario Hacker
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L'hacking è condivisione di conoscenze, un potente motore dell'innovazione, sociale e tecnologica, consapevolezza che il sapere è frutto di un processo di accumulazione creativa di generazioni successive di inventori e che privarne gli altri è un furto: "privato" come participio passato di "privare". Un dizionario ragionato dei termini più significativi della cultura hacker, in cui di ogni voce si dà definizione, interpretazione e storia.Di Corinto, con sguardo critico e tutt'altro che neutrale, sfata i pregiudizi e fa luce sul mondo della controcultura digitale, spesso percepito come illegale e pericoloso. Dalla A di Anonymous alla W di Wikileaks, passando per Bitcoin, Defacement, Free software, Gnu e Media activism, l'autore ci accompagna alla scoperta di uno dei movimenti più attivi nella lotta alla globalizzazione capitalista, nella tutela della democrazia partecipata, della condivisione del sapere e della libera circolazione della conoscenza.Lemma dopo lemma, emerge la prospettiva politica dei "pirati informatici" e il senso della loro battaglia fatta a suon di decrittazioni e remix.

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2014
ISBN
9788862665551
C
CENSORSHIP
Insieme di metodi, pratiche e interventi che limitano o vietano la circolazione di informazioni. Da un’analisi comparata delle diverse organizzazioni accademiche e non governative che se ne occupano, le maggiori violazioni della libertà in rete riguardano Cina, Iran, Vietnam. E poi a seguire Siria, Arabia Saudita, Russia ed Emirati Arabi Uniti. Ma anche le democrazie occidentali non ne sono immuni.
Agli inizi di Internet andava di moda una battuta: “Su Internet nessuno sa che sei un cane”. Veniva usata per dire che in rete siamo tutti uguali e abbiamo lo stesso diritto di esprimerci. Ed era esattamente così che i suoi progettisti avevano immaginato la rete, un luogo di scambio paritario, grazie all’uso di tecnologie aperte e flessibili. La tecnologia adottata, il packet switching, e il principio della net neutrality – secondo cui ogni bit è creato uguale e non può essere discriminato – ne garantivano la democrazia. Col tempo abbiamo appreso che questo approccio rivoluzionario non poteva andare bene per tutti e abbiamo scoperto l’insofferenza di tanti paesi nell’accettare un elementare principio di democrazia: il diritto all’informazione. Molti Stati non tollerano la libertà che Internet promuove e rappresenta e questa intolleranza diventa molto spesso censura.
La decisione di censurare un sito, un servizio, un comportamento online, dipende dalla pericolosità percepita dei suoi contenuti da parte di polizie, servizi segreti e governanti, in relazione alla situazione politica e al contesto sociale. È chiaro che nelle situazioni di maggiore instabilità, in occasione di manifestazioni pubbliche, di scontri e conflitti veri e propri, la necessità di censurare contenuti scomodi aumenta per chi vuole preservare lo status quo. L’uso estensivo di Internet per mobilitare e organizzare le folle e per comunicare con la diaspora maghrebina durante le insurrezioni arabe del 2010 ad esempio ha indotto diversi Stati mediorientali a irrigidire le misure di prevenzione per un uso “non conforme” della rete.
Ma quello della censura di Internet è un confine mobile. Nonostante le leggi che in molti Stati consentono di controllare e limitare la libertà d’espressione sul web è difficile stabilire cosa viene censurato.
I regimi possono intervenire sia bloccando i siti, sia rallentando la connettività che “spegnendo” la rete, oppure attraverso intimidazioni, diffide giudiziarie e in certi casi con l’arresto e la tortura. Il blocco di siti e servizi online, il sequestro di blog, la rimozione selettiva di contenuti e di parole chiave dai motori di ricerca, il reindirizzamento verso domini diversi da quelli cercati, sono le tecniche più usate. Questi metodi generalmente presuppongono l’uso di altre tecnologie di sorveglianza per individuare i cyberattivisti come il riconoscimento facciale, la trascrizione della messagistica via Internet o le intercettazioni telefoniche e ambientali.
L’insieme delle tecniche di controllo di Internet usate dai regimi autoritari sono anche note col nome di Peking consensus, per indicare l’origine di una forma di censura che si esprime a livello tecnologico con filtri informatici – Ip filtering, deep packet inspection, firewall e blocked proxy – e azioni di polizia, come l’incoraggiamento alla delazione, le perquisizioni e i sequestri di computer non autorizzati ai “cattivi netizen” che, se non portano all’arresto, hanno comunque l’effetto di intimidire e indurre conformismo e autocensura nella popolazione di Internet. Queste tecniche sono usate in maniera combinata avvalendosi di tecnologie automatizzate e di controllori umani (human flesh engine).
Filtrare la rete. Se il blocco totale dei servizi è sempre una soluzione costosa e impopolare in quanto frena l’economia degli scambi globali che si affida a Internet, l’alternativa per i censori è di filtrare e rallentare il flusso dei dati in rete per rendere quasi impossibile il trasferimento di file fotografici e audiovisivi. Secondo Reporters sans frontieres, la fluttuazione della qualità dei servizi internet rappresenta spesso un buon indicatore del livello di repressione in certe aree regionali.
Altri paesi però adottano il filtraggio selettivo dei contenuti come strumento ordinario di governance della rete. In Uzbekistan, il governo ha bloccato a lungo l’accesso a forum in cui si parlava di rivoluzioni arabe. In Cina, le parole “gelsomino” e “occupy” seguite dal nome di una città cinese vengono immediatamente bloccate online. In Bielorussia, dopo le massicce proteste di strada del 2012, il social network Vkontakte è stato reso inaccessibile e le autorità kazake hanno fatto lo stesso non solo con siti considerati estremisti ma anche con la piattaforma di blogging LiveJournal. In Turchia è stato creato un sistema per filtrare i contenuti pur rinunciando a mettere al bando 138 parole considerate pericolose. Il governo thailandese per combattere il crimine di “lesa maestà” ha incremento del trecento per cento l’attività di censura online. Il Tagikistan ha bloccato Facebook più di una volta mentre il Pakistan ha da tempo annunciato di voler costruire una nuova muraglia elettronica. Con la scusa di bloccare contenuti pornografici, in Tunisia è stata fatta la proposta di rimettere in funzione Ammar 404, il sistema di filtraggio e sorveglianza voluto dall’ex presidente Ben Alì, poco dopo il cambio di regime. Anche un paese democratico come la Corea del Sud censura i siti della propaganda a favore della Corea del Nord.
La censura dei contenuti può essere chirurgica. Il sito cinese di micro-blogging Sina Weibo ha assoldato migliaia di moderatori e chiede agli utenti di registrarsi col vero nome, quello anagrafico. L’esercito elettronico siriano è invece esperto nell’arte di “trollare” le bacheche Facebook di oppositori e dissidenti per screditarli, ma è anche stato in grado di riempirle di dichiarazioni di sostegno a Bashar al-Assad usando centinaia di account fasulli per inondare l’hashtag #Syria nei momenti più acuti della guerra civile. Chiranuch Premchaiporn, responsabile del sito di news Prachatai, rischia 20 anni di prigione in Thailandia per non aver rimosso prontamente dei commenti fatti dagli utenti che criticavano la monarchia. E sono ben 35 i blogger dissidenti vietnamiti che rischiano l’ergastolo nel 2013.
Deep Packet Inspection. Per aumentare la propria capacità di sorveglianza le polizie di diversi paesi usano complessi sistemi e software per il filtraggio dei contenuti come la Deep Packet Inspection. Fino al 2012 l’Iran ad esempio è stato capace di bloccare la navigazione sicura via https e le porte di comunicazione delle Vpn, le reti private, mentre la Cina tutt’oggi decide quali siano gli indirizzi Ip che possono uscire dalla propria rete geografica e così via.
Grazie a WikiLeaks sappiamo quali sono le aziende che prosperano in questo lucroso e discutibile mercato. Fra di esse sono annoverate anche alcune italiane, come AreaSpa che avrebbe chiuso i rapporti con la Siria solo dopo una pesante campagna di protesta internazionale, l’americana BlueCoat, la francese Amesys che riforniva il regime di Gheddafi, la Vodafone, la ANHRI per l’Egitto. Non è casuale che il Parlamento europeo abbia adottato una risoluzione per chiedere norme più restrittive nell’export delle tecnologie di sorveglianza verso paesi repressivi, e adesso ci provano anche gli Stati Uniti.
Il survival kit. Secondo Reporters sans frontieres la protezione dei cyberdissidenti e delle fonti è cruciale nella battaglia per la libera informazione. I reporter, dicono, “dovrebbero prendere speciali precauzioni quando si trovano in zone di guerra o in regioni problematiche perché non basta più il giubbotto antiproiettile”. Per questo già nel 2011 hanno lanciato l’idea di un “digital survival kit” per cifrare le informazioni, anonimizzare la comunicazione e, se necessario, aggirare la censura. E non è detto che basti. Contrastare queste forme di protezione è diventato uno dei terreni d’intervento di molti regimi che ricorrono alla tecnologia di quegli stessi paesi occidentali che a casa propria si presentano come alfieri della libertà e di quando in quando tuonano contro le dittature.
Allo stesso tempo i governi democratici sono tentati dal dare la priorità alla sicurezza a scapito della libertà con misure sproporzionate a tutela del diritto d’autore, ma qui la società civile è in grado di reagire e in definitiva è stata una loro vittoria se gli intermediari della rete non sono ancora diventati dei poliziotti come alcuni governi vorrebbero. I molti rapporti di Reporters sans frontieres si concludono da diversi anni con una lunga lista di Stati “nemici della rete” come il Bahrain, la Bielorussia, l’India e il Kazakistan al pari di altri paesi a noi più vicini come Russia, Tunisia e Turchia.
La maggior parte degli Stati non vuole far sapere di ricorrere a tecniche di filtraggio, ma l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti pubblicano informazioni sulle loro pratiche censorie e inviano delle notifiche ai siti che oscurano. Paesi come la Cina invece fanno in modo che all’utente ritorni un messaggio di errore quando cerca contenuti vietati, mentre in Uzbekistan le homepage dei siti scomodi sono sostituite da avvisi di blocco del servizio “a causa della pornografia” anche quando non la contengono. Gli Internet service provider uzbeki e quelli siriani in genere agiscono reindirizzando il traffico verso altri siti considerati innocui o sotto il controllo governativo. In Russia nel 2013 sono state approvate diverse leggi anti-blog apparentemente motivate dalla necessità di proteggere i minori da contenuti sconvenienti.
In Bielorussia l’Internet filtering per legge (Decree 60) aumenta ogni giorno. La blacklist dei siti bloccati include quelli di news, di opposizione e delle Ong. La Birmania ha usato spesso la riduzione della connettività come strumento di censura, ma diversi siti tra cui YouTube, BBC, Reuters, sono stati sbloccati solo dopo le recenti aperture del regime. I motori di ricerca cinesi, umani e automatici, rimuovono tutti i riferimenti a situazioni di instabilità politica, quindi sia alla Primavera Araba che ad Occupy Wall Street. Blog e microblog sono chiusi a decine e parole chiave come “Egitto” o “gelsomino” bannate. Una legislazione draconiana punta a mantenere una “Internet sicura” per le generazioni future e proibisce la diffusione di “dicerie” che riguardano il governo. La Cina è campione mondiale nel controllo del traffico internet e obbliga i cybercafè che non possono acquistare software di tracciamento a non dare il wi-fi gratuito.
La Malesia è uno dei paesi che ha sperimentato gli attacchi di negazione di servizio (DDoS) verso i siti di opposizione durante le campagne elettorali. L’arma più potente usata dal governo è sempre l’accusa di diffamazione nei confronti di blogger e giornalisti indipendenti. Cause e risarcimenti sono tanto costosi da diventare un silenziatore. In Corea del Nord Internet è qualcosa di cui la maggior parte dei cittadini non conosce neppure l’esistenza. Eppure ha una Intranet nazionale controllatissima e al Mirim College il governo addestra pirati informatici per combattere la sua netwar con Corea del Sud e Usa. Questo è il motivo per cui le informazioni che trapelano dal paese viaggiano su penne usb e compact disc contrabbandati al confine. La Siria ha sempre mantenuto uno stretto controllo sulle comunicazioni da prima delle proteste arabe, ma successivamente e fino alla attuale situazione di guerra civile ha sempre lavorato a limitare le comunicazioni rallentando la rete, soprattutto nei quartieri e nelle città degli oppositori al regime di Assad, in genere il venerdì, in occasione dei cortei e delle preghiere collettive. Il governo siriano è noto per aver acquistato molte tecnologie di sorveglianza dai paesi occidentali.
Quasi sessanta sono i giornalisti uccisi nel 2012. Professionisti e citizen journalist. Quasi trecento gli imprigionati se si somma chi scrive per mestiere e i cyberattivisti. Nel 2013 i numeri sono pressoché gli stessi, ma nel momento in cui scriviamo gli attivisti dell’informazione in prigione sono circa 350. La censura chiude la bocca di chi dissente anche così e non c’è nessun effetto Streisand, quella dinamica per cui il tentativo di nascondere un’informazione ne causa la moltiplicazione in ogni luogo della rete. Quando viene eliminata la voce dissidente, semplicemente quell’informazione scompare. E tutti diventiamo più poveri e più soli.
Lo stato della censura dell’informazione in rete viene fotografato ormai da qualche anno da diverse organizzazioni internazionali, Reporters sans frontieres, Amnesty International, Electronic Frontier Foundation, e i dati che riportano sono scoraggianti. La censura è ancora il mezzo attraverso cui i regimi controllano i propri cittadini trattandoli come sudditi o, peggio, come un fastidio di cui liberarsi. Per questo è stata istituita la giornata mondiale contro la cyber-censura.
A volte però la censura segue strade più tortuose e nascoste. Non è un fatto che riguarda solo i regimi autoritari, ma anche i paesi democratici. Le scuse per censurare informazioni scomode sono sempre le stesse: proteggere i bambini da contenuti pornografici, controllare gli scambi illegali online, salvaguardare il diritto d’autore o l’onorabilità di re, principi e personaggi pubblici. Come è chiaro dalla lettura dei testi pubblicati dalla Open Net Initiative Access Denied, Access Controlled, e Access Contested 2.
In questo momento, per sapere se un sito è inaccessibile e segnalare la sua possibile censura al mondo si può comunque usare un semplice strumento messo a punto all’università di Harvard: si chiama Herdict. (http://www.herdict.org)
CITIZEN JOURNALISM
Il civic o citizen journalism è una evoluzione del giornalismo indipendente praticato da giornalisti non professionisti attraverso strumenti del web 2.0 come le piattaforme di blogging e microblogging, i social media, i social network e i software wiki.
Il giornalismo partecipativo è un fenomeno legato alla trasformazione di molti blogger in giornalisti locali che collaborano con la propria comunità di riferimento per raccontare fatti ed eventi legati al proprio territorio. Tuttavia per le tematiche affrontate rappresenta l’evoluzione di forme di attivismo digitale (mediattivismo) praticato dai netizen più attivi che attraverso siti e software a pubblicazione aperta si sono progressivamente trasformati in giornalisti. Pur nella diversità delle definizioni, gli elementi del civic journalism sono sintetizzabili nel cambiamento dell’audience tradizionale, che assume un ruolo attivo nella produzione di informazioni; nella pubblicazione di notizie attraverso siti di informazione indipendente; nella partecipazione del lettore nel commentare e raffinare le notizie.
Seppure questa forma di giornalismo “democratico”, “aperto”, “orizzontale”, “open source” sia emersa ed abbia acquisito notorietà con l’evoluzione delle piattaforme interattive di pubblicazione online basate su un modello commerciale che unisce la gratuità dell’accesso con la pubblicità – il cosiddetto web 2.0 –, non è cominciato tutto da lì. Le premesse del giornalismo partecipativo vanno rintracciate nell’uso che i movimenti di protesta o alter-globalisti hanno fatto dei siti web della prima ora per costruire collaborativamente un racconto collettivo di fatti, eventi, manifestazioni e personaggi legati a vicende politiche specifiche.
Il terreno per la sua diffusione è stato preparato dall’immissione sul mercato di personal media – macchine fotografiche e videocamere digitali, cellulari, smartphone e personal computer da connettere in rete –, e l’integrazione di questi mezzi di comunicazione personale per rivolgersi ad una audience globale ma emerge in seguito alla digitalizzione e alla convergenza dei contenuti e alla loro confluenza e rimediazione (Bolter e Grusin, 2002) in un unico medium, il computer. La realizzazione prima da parte degli attivisti, poi dell’industria, di software tool per la gestione, pubblicazione e condivisione dei contenuti digitali prodotti e la connettività ubiqua e a basso costo hanno consentito a chiunque di diventare “giornalista per caso” in accoppiata con l’affermarsi del fenomeno del crowdfunding. Un sistema che attraverso piccole donazioni garantisce un nuovo canale di finanziamento agli interessati per condurre inchieste, gestire siti di denuncia, condividere online progetti di giornalismo partecipativo, offrendo un’alternativa ai giornalisti professionisti che vogliono smarcarsi dalle rigidità della macchina editoriale per realizzare articoli, servizi e inchieste scomode.
Prima ostacolato, in seguito sostenuto dai media mainstream che l’hanno trasformato in una fonte pressoché inesauribile di contenuti di qualità gratuiti per rinnovare forme e linguaggi del giornalismo tradizionale. Le grandi testate editoriali hanno definito successivamente un patto di alleanza con i citizen journalist a cui hanno affidato i blog della loro versione online trasformandoli in columnist dei rispettivi quotidiani. Un fatto che è diventato motivo di critica da parte dei citizen journalist meno disponibili a venire a patti con quella che considerano “industria del consenso”. È il caso dell’“Huffington Post”, il giornale di Marianna Huffington che avrebbe tirato la volta alla prima elezione di Obama nel 2008, e che è arrivato a contare quasi 3.000 citizen jounalist prima di fronteggiare la rivolta di una parte consistente di essi in seguito alla decisione di vendere la testata e i suoi contenuti senza condividerne i ricavi con quanti l’avevano resa importante lavorando gratuitamente.
Già questa evoluzione del citizen journalism spazza via molte delle criticità attribuitegli negli anni come l’assenza di una prepreparazione professionale, la mancanza di obiettività, l’approccio ideologico, l’eccessivo rilievo dato ai rumor e al buzzword in rete.
Il primo esperimento di giornalismo partecipativo di natura commerciale è stato sviluppato dal sito sudcoreano OhmyNews, fondato agli inizi degli anni Duemila, secondo il motto “ogni cittadino è un reporter”. Fin dagli inizi solo una piccola percentuale degli articoli del sito, divenuto poi un giorna...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Left or Right : Dalle culture hacker all’open government
  4. A
  5. B
  6. C
  7. D
  8. E
  9. F
  10. G
  11. H
  12. I
  13. L
  14. M
  15. N
  16. O
  17. P
  18. R
  19. S
  20. T
  21. W
  22. Bibliografia essenziale