PARTE SECONDA
VUELVO AL SUR
PER OGNI VIVENTE
Oggi possiamo quasi dire di aver dimostrato anche scientificamente che, sebbene noi ora viviamo, e probabilmente vivremo sempre, soggetti alle condizioni della terra, non siamo meramente creature legate alla terra.
Hannah Arendt
un bisogno inesausto di nodi
invade le doline bianche
dove si annida la luce polare
portata per ogni vivente.
in queste zone corticali di ghiaccio
assediate dal niente, si muove
con passo umano
il filo elettrico del pensiero.
i nodi formano pensieri
nell’infinita apertura del bianco
quando lampeggia, quando si ritrae
la scintillante visione del tanto
desiderato farmaco radioattivo
e diventa una macchia bulbosa
che toglie nomi alle cose
e volti amati alle persone.
[i volti amati si ritirano in una legnosa recrudescenza, mentre il ghiaccio cresce le sue radici coperto dalla terra sottile. invano i vermi tentano un nido. scompaiono le popolazioni di formiche. granisce l’oceano del pack in una strana tessitura priva di organismi. nessun cibo né consolazione per gli occhi. solo la nave frange qualche scoglio meno duro prima di colare a picco. diventa tana per le balene. dentro si installa un circo morto di coralli e di sirene. a certe intensità il ghiaccio diventa azzurro a causa della pressione. più profonda è la tua docile lingua di luce]
«ma dove credi andranno a finire
questi pallidi pinguini indiani
fatti di luce e materia fioca
in corsa su nevi polari,
si tuffano, le pinne giunte in avanti,
pregando cercano aria con la testa:
finiranno forse nel fuoco neutro
che costringe gli elementi
a una lenta riduzione?
dove credi andranno a finire
questi branchi di pavidi pinguini?»
così pretende il cucciolo sapere
da quale uovo celeste è disceso
l’istinto cacciatore,
se davvero come pesci
in profonde vasche di alluminio
muore il desiderio,
se nel campo elettrico
che separa terra e cielo
vive una breve esistenza
la luce.
eppure se ne vanno a due a due sopra la terra
bianchissima, quando tutto l’orizzonte
è una chiara invasione e leviathan
morde la poca materia restante
tra classico e sperimentazione.
e non è concentramento, ’38, ’77,
qui non è alabama o florida,
carneficina nordica a utøya,
qui è la potenza del bianco che ribolle,
i pinguini in lenta processione
che sciamano segno per segno
a formare parole.
ecco, dunque, la terribile visione:
la voce è un grande vetro orizzontale
divorato dal peso del metallo, ma
nella miriade di teste e becchi gialli
nessuno diventa palazzo alto
con fontana, occhi di ghiaccio
allo xeno, erbe, rampicanti.
c’è una fila unita punto a punto
che si snoda per isole contigue:
beccheggiano, alzano la voce,
praticano l’arte dello zoo.
talvolta silenzioso riaffiora il verde
un verde senza concorrenza: il verde
è componente residuale
di vita mancata e plasma.
il verde è lichene smangiato da muffe
e predica dieta di amebe
nella testa del pinguino.
il verde è in pancia a leviathan
e alla balena naufragata sulla costa
che riversa silenziosa
un bolo di profumo bianco.
per questo solo il pinguino contende:
per la sua normale attitudine
di quieto spettatore del mondo
incapace di guardare
un punto fisso
all’orizzonte, gli occhi
non divisi dal becco.
il pinguino trema
nell’incipienza dei temporali,
scruta le perturbazioni, aspetta
che si venda a caro prezzo
la pelle dell’orso.
[insieme al crollo viene giù anche il mare. la luce in un attimo si abbassa. cade l’orizzonte sulla nuda ossessione. placca neuronale che sospinge la zolla morta, s’incunea e s’impenna. poi, gravida e assorta, la terra rinasce senza fiori come una macchia senza visione, mentre la lenza tira e porta a riva un nuovo dialetto. la fortuna guizza con una rosa di sangue sulla fronte. l’idea che con molta difficoltà potrà sottrarsi all’amo senza procurare ferita. quel fiotto imbellettato di tenera carne si dissolve nell’acqua marina, sciaguattando. poi rivolta la pancia verso la superficie, vita che continua nell’ombra. finché il sangue risale dalla fine verso l’inizio delle parole]
un grande orologio di carta purissima
batte l’ora parola per parola, fa una tradizione.
nel gelo non ci sono scheletri, ci sono carogne
mineralizzate dal sole antartico: pezzi di grandi animali
compressi per i fasti di invisibili ortiche.
nel guardare attentamente il panorama
si procede lenti, le braccia lungo i fianchi,
l’osso occipitale teso. questo intendevi dire.
all’improvviso, nella notte
ricordavi a mezza voce e con un filo di bava
di essere stato colpito a morte
dai sassi di una lingua senza nome,
puntini luminosi nel campo visivo
un sole bianco lattiginoso:
«lenteggiare ridicolo e assorto
di pinguini sghembi sopra l’orizzonte.
una linea nera senza sostanza alcuna
di luce. e intanto franano, smottano,
sgrottano incessanti i giorni
sotto la stella bianca del neon,
nel mattatoio grigioverde,
nella più tenera disaffezione.»
per miracolo, siamo tutti sull’isola fredda
e questa è una prospettiva vertebrale di canto
in cui la versione lirica ha peso maggiore
rispetto alla poesia d’avanguardia.
per altro luogo la morte ucci...