Dove ricomincia la città
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Dove ricomincia la città

L'Italia delle periferie. Reportage dai luoghi in cui si costruisce un Paese diverso

  1. 240 pagine
  2. Italian
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L'Italia delle periferie. Reportage dai luoghi in cui si costruisce un Paese diverso

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Cosa sono oggi le periferie delle città italiane? Cosa sono i quartieri che vivono una condizione periferica, a prescindere dalla lontananza dal centro? Le cronache restituiscono un'immagine univoca, fatta di disperazione, esclusione e criminalità, oppure di rivolte, quasi che queste siano le uniche occasioni in cui si squarcia il velo del degrado. Francesco Erbani si mette in viaggio, da Nord a Sud, alla ricerca di ciò che rende le periferie anche un luogo in movimento, dove si sperimentano iniziative di riscatto: progetti associativi, di volontariato, innovazione culturale, lotta alla povertà educativa e poi di imprenditoria sociale, di recupero architettonico e urbanistico, emersi con più forza proprio durante l'emergenza sanitaria del Covid-19.Erbani parte dalla storia delle periferie nel Novecento, fatta di lungimiranti progetti ad alta densità politica e intellettuale, talvolta conditi di utopismo, talvolta fallimentari; mette a fuoco il concetto stesso di periferia, evidenziandone le sfumature sia strutturali che sociali, economiche e psicologiche; e poi si mette in cammino: Corviale, Laurentino 38 e Tor Bella Monaca a Roma, San Berillo a Catania, Marghera a Venezia, Barriera a Torino, Scampia a Napoli. Insegnanti, preti, esperienze di volontariato, imprese e cooperative, centri sociali, collaborazioni con le università... In questi luoghi solitamente presi ad emblema della sofferenza metropolitana emergono un attivismo, un'energia creativa, una capacità di intervento che ha molto da insegnare al resto del tessuto urbano. Un'inchiesta giornalistica fatta in presa diretta tra i vicoli, i "casermoni" e le Vele, ma soprattutto accanto alle persone che ci vivono e ci lavorano.

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2021
ISBN
9788836171071

Venezia comincia a Marghera

I murales del 2001

Marghera, via Fratelli Bandiera 45. Sul muro a sinistra del cancello pugni chiusi, caschi, qualche bastone e fazzoletti tirati sul naso. Raffigurano, mi dice Gianfranco Bettin, ciò che accadde in quei giorni del 2001, quando si cercò di sgomberare il centro sociale Rivolta. Sopra le sagome dipinte campeggia la scritta “Non dobbiamo chiedere il permesso per essere liberi”. “I ragazzi uscirono in strada”, racconta Bettin, “costruirono barricate con i cassonetti, i copertoni di gomma, vecchi furgoncini. Qui sul piazzale erano schierati gli agenti con gli scudi e le camionette blindate. Sembrava che da un minuto all’altro potesse scatenarsi l’irruzione. Né io, che facevo l’assessore, né Massimo Cacciari, che era sindaco, volevamo che si arrivasse allo scontro. Dal Viminale, dal ministero di Giustizia dicevano che non si poteva fermare un ordine della magistratura. Proponemmo una soluzione: il Comune si sarebbe fatto garante e avrebbe verificato lo stato dell’edificio, giudicato pericolante. D’improvviso la tensione si sciolse, si raggiunse un accordo e, come vedi, il Rivolta è ancora qui. Dài, entriamo”.
Aspetta, gli chiedo, e quest’altro striscione? A destra del cancello, su un telo arancione e verde leggo: “Bae per sempre” e, sopra e sotto, in corsivo: “Dalla Laguna alla Selva, i sogni attraversano gli oceani, scavalcano le montagne, non conoscono confini”. Chi è Bae? “El Bae era Francesco Romor, il capo degli ultras del Venezia-Mestre. Quelli che vedi, più il nero, sono i colori della squadra di calcio. El Bae è morto a 40 anni per un tumore, lo stesso anno del mancato sgombero. Era uno degli attivisti del Rivolta, faceva anche il cuoco all’osteria del centro sociale e come tutti loro era legato alle esperienze zapatiste del Chiapas, del subcomandante Marcos, in Messico. Se ne andò proprio alla vigilia di un viaggio in quella regione per una ‘marcia della dignità’ organizzata dagli zapatisti, da altri centri sociali del Nordest e dall’associazione Ya Basta. E lì nella Selva Lacandona sono stati realizzati alcuni progetti, intitolati al Bae: un acquedotto, un erbolario, campi da basket, falegnamerie…”
È Bettin che mi ha fatto conoscere il Rivolta e che davanti a questi murales m’introduce per immagini a uno dei primi e più longevi centri sociali che dal 1995 occupa questo stabilimento, l’ex Paolini e Villani, dove un tempo si producevano spezie e droghe di vari tipi. La disobbedienza, il calcio, con ultras di sinistra in un panorama di curve popolate di crani rasati e di svastiche. E poi l’America Latina e il Chiapas, i programmi di solidarietà. E ancora le battaglie contro gli sfratti, dimostrandone l’illogicità a fronte di case popolari desolatamente sfitte, i legami stretti con altri centri sociali in tutto il Nordest, con il Leoncavallo a Milano. Quindi il 2001 al G8 di Genova, le tute bianche, Luca Casarini, che adesso vive in Sicilia e con Beppe Caccia, altro militante del Rivolta, si occupa di salvare vite umane nel Mediterraneo.
Ora al Rivolta milita una seconda generazione di attivisti e tante vicende passate non sono rinnegate ma riempiono la memoria. D’altronde il Rivolta non è più uno spazio occupato, un luogo da sgomberare e da presidiare con caschi e bastoni. Fino al 2026 vige una convenzione con il Comune di Venezia, proprietario del sito, che ha emesso un bando per il miglior progetto di riuso a fini sociali dell’ex stabilimento Paolini e Villani. Il bando l’hanno vinto i ragazzi del Rivolta e, nonostante il sindaco attuale sia Luigi Brugnaro del centrodestra, nessuno li può cacciare.
Bettin potrei definirlo un compagno di strada del Rivolta. Sociologo, scrittore, è stato anche lui un attivista, alle sue spalle diverse occupazioni, poi le battaglie ambientaliste, contro la nocività in fabbrica, l’impegno politico nei Verdi, quindi una carriera da amministratore, assessore in diverse giunte di sinistra a Venezia, presidente della municipalità di Mestre e poi di Marghera, una tenace volontà a rappresentare l’altra Venezia, la Venezia di terraferma, la periferia bistrattata eppure fremente nella città dei dogi, con i saggi, le inchieste, anche con un romanzo come Cracking, uscito nel 2019, edito da Mondadori.

Il Rivolta

Che cos’è Marghera, dov’è Marghera? Marghera non so come si possa definirla, se un quartiere di Venezia, se la periferia di Venezia, o cos’altro. Qui vivono 18.000 persone, che diventano quasi 30.000 considerando le zone limitrofe di Catene, Ca’ Sabbioni, Ca’ Brentelle fino a Malcontenta, dove si trova una delle più belle ville di Andrea Palladio (ma siamo già nel territorio di Mira). Più del 20% sono cittadini immigrati, in maggioranza bengalesi. Se poi dovessimo varcare i binari della ferrovia, eccoci a Mestre, che di abitanti ne fa quasi 90.000, ai quali vanno aggiunti i 70.000 distribuiti nella multiforme terraferma, che tutta quanta dovremmo considerare che cosa rispetto ai poco più di 52.000 residenti a Venezia città storica? Periferia? Poco plausibile. Più plausibile dire che a Marghera comincia Venezia.
D’altro canto di una periferia, così come si è soliti considerarla, Marghera presenta molte caratteristiche, quasi fosse un esempio rintracciabile in un corso universitario di Urbanistica. In primo luogo il fatto di essere sorta e di essersi sviluppata insieme a un porto e a una enorme area industriale. E di soffrirne la decadenza da almeno una quarantina d’anni. Inoltre se la si osserva da Venezia ascoltando i giudizi di molti veneziani, Marghera è altro da Venezia, come altro da Roma può essere Tor Bella Monaca. Periferia da tenere alla larga. Da molti veneziani viene descritta come una specie di morbo, una delle malattie da cui Venezia è afflitta, che ne causano il declino e dalla quale essi volentieri si libererebbero, restandosene per conto proprio e separando amministrativamente le isole della Laguna da tutta la terraferma, non solo da Marghera. Come se tornare indietro nel tempo, quando di Comuni ce n’erano più d’uno contribuisse a curare i mali della città insulare. Va aggiunto, però, che tale proposito è stato sottoposto più volte a referendum, ma mai è stato accolto.
Al cancello del Rivolta ci aspettano Vittoria Scarpa, militante del centro sociale fin dagli esordi, e Niccolò Onesto, seconda generazione, nato quando venne occupato questo spazio, nel 1995, ma descritto già come una memoria storica del gruppo. “Quando siamo arrivati noi, oltre 25 anni fa, qui intorno alcune fabbriche ancora funzionavano”, racconta Vittoria, “ora è un deserto”. La sede del Rivolta si affaccia sulla strada, siamo sul bordo dell’area industriale. Accanto palazzine diroccate, un tempo sede di uffici, ora ricoveri di fortuna. Varcato l’ingresso, un cancello nero con il logo del Rivolta, un vascello pirata fiancheggiato da colonnine con bande rosse in diagonale, ecco un grande spiazzo dove sono sistemate panche e tavoli. Nell’angolo a destra si affacciano la pizzeria e l’osteria, che un tempo si chiamava Allo sbirro morto, adesso semplicemente Osteria. Ci furono polemiche. “Allora come la mettiamo con gli strozzapreti?”, si domanda Vittoria. “Era un modo di dire”. Comunque sia, meglio Osteria e basta.
Le pareti dei due edifici che delimitano lo spiazzo sono decorate con i murales di un artista messicano, Oscar Garcia. Sono entrambi su sfondo azzurro, ma su un lato è affrescato un mare popolato da pesci, su quello di fronte è rappresentato invece il cielo. In mezzo, dove ora sediamo noi, è il pianeta terra. Poco distante, oltre una recinzione, ecco una tettoia e delle panche. Sono l’esito di un workshop che qui ha condotto nel 2016 l’architetta indiana Anupama Kundoo insieme a studenti dello Iuav (l’Istituto universitario Architettura di Venezia). Kundoo, ormai celebrata per le sue abitazioni costruite usando materiali poveri, riciclati, aderenti alla natura dei luoghi, era ospite della Biennale e ha lavorato per alcuni giorni a Marghera.
Gli attivisti del Rivolta sono una cinquantina, non ci sono né un capo né un portavoce. Ogni martedì si riuniscono in assemblea, e qui si discute di tutto, dalle vertenze politiche alla gestione degli spazi, dalle azioni di mobilitazione alla manutenzione dei locali. Questo è il luogo di raduno di un arcipelago di associazioni, dai giovanissimi di Fridays for Future al coordinamento degli studenti medi. Molto stretti sono i rapporti con un altro centro sociale insediato nella città storica, il Morion, e insieme a questo con il comitato No Grandi Navi, impegnato sui temi di Venezia colonizzata dal turismo e in particolare contro i colossi che sfilavano davanti al bacino San Marco fino a quando non ha preso a infuriare la pandemia. Le Grandi Navi sono l’incubo anche di Marghera, un incubo ancora non materializzato, pur sempre un minaccioso fantasma che si aggira fra le banchine del porto.
Oggi il sole è caldo, i raggi filtrano luminosi anche quando passa qualche nuvola e si può stare all’aperto in un Veneto dove i contagi mettono di nuovo paura. Al Rivolta il Covid ha cancellato gran parte delle iniziative. E allora si lavora a rimettere in sesto, ad aggiustare, a fare ordine nei magazzini. È chiusa la palestra, dove si pratica tanta boxe e il ring mi pare regolamentare, con i guantoni appesi alle corde e i punching ball che pendono dal soffitto. Su un soppalco sono issate cyclette e tapis roulant. Molti sono i ragazzi iscritti ai corsi di ginnastica libera, di karatè, e anche di yoga. Vengono da Marghera e da più lontano. “Il Rivolta è un luogo riconosciuto”, dice Niccolò, che è nato a Venezia, dove vivono i suoi genitori, ma lui si è trasferito a Marghera, abita in una casa con due compagni e lavora alla Fenice, come maschera a chiamata. “Qui arrivano ragazzi che neanche conoscono la storia del centro sociale, che neanche condividono tutto della matrice politica che l’ha ispirato, ma che trovano quello che manca altrove”, aggiunge. E dunque non solo fra le case basse di Marghera o sotto gli alti condomini di Mestre, anche nell’entroterra, nella porzione veneta della megalopoli padana, con le villette, i capannoni e le rotatorie, dove il Nordest sconta i suoi fallimenti.
Specialità del Rivolta è anche fare scuola, con i progetti educativi e i corsi d’italiano per stranieri di tutte le età (si intitolano Libera la parola). Anche questi ora sono sospesi, sostituiti con l’impegno ad assistere on line una quarantina di ragazzi in difficoltà con le lezioni a distanza e con i compiti. Ad altri ragazzi è offerta la possibilità di venire qui a studiare, ce ne sono una quindicina oggi che sfruttano il wi-fi seduti ai tavoli dell’osteria e della pizzeria. È stata poi stipulata una convenzione con l’Università Ca’ Foscari per fare lezioni aggiuntive in un istituto tecnico di Venezia, il Corner.
Fino al 2020, fino a che non si sono fatti sentire gli effetti del decreto sicurezza voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, ha funzionato un Cas, un centro d’accoglienza straordinario per richiedenti asilo. E a poco sono valse le modifiche introdotte dal governo Conte 2. Erano 21 i giovani ospitati, provenivano dal Mali, dalla Nigeria, dal Senegal e dal Ghana. Uno anche dal Bangladesh. Sono arrivati nel 2017 ed ha avuto cura di loro la cooperativa Caracol (un nome mutuato dai municipi autogestiti del Chiapas), in base a una convenzione stipulata con la Prefettura. Era un Cas diverso da quelli cresciuti a dismisura come conseguenza del decreto Salvini, intanto per le dimensioni e poi per l’autogestione di molti servizi, dalla cucina agli arredi delle stanze, che ora sono lì vuote e in ristrutturazione, al di là di un recinto.
E i ragazzi adesso dove sono? “Hanno avuto il permesso di soggiorno”, risponde Vittoria, che era la responsabile del Cas, “alcuni hanno trovato lavoro in aziende agricole, altri in Fincantieri, altri ancora fra ristoranti e pizzerie”.
Ma è intorno alla musica, ai concerti, ora muti, il punto di aggregazione storico del Rivolta e per il quale il centro sociale è lo spazio d’incontro e di convivialità giovanile in un contesto che offre pochissimo. Si vuole insomma presidiare e anche esplorare un ambiente con il quale non c’è piena consonanza, ma che al piacere della musica affianca il disagio e le inquietudini di una generazione. Sono venuti a cantare Miriam Makeba e i 99 Posse, ma anche Caparezza e gruppi rock o reggae. Per loro e per tanti altri concerti è stato allestito l’hangar più grande del Rivolta, che arriva a contenere anche 2.000 persone. Sono stati sempre i militanti del centro sociale a ristrutturarlo, foderando il soffitto e le pareti del capannone con dei teli neri e disponendo su un fianco una serie di portelloni di sicurezza. Le sale per i concerti sono due, ce n’è pure una più piccola, dove fanno musica gruppi locali, ma dove si svolgono talvolta anche recite di Natale.
Dal 2007 e per dieci anni il Rivolta ha ospitato Altavoz, una rassegna di musica elettronica, computer e sintetizzatori, un genere ancora più inconsueto per i centri sociali, caratterizzato da un ritmo martellante, fatto di battiti ripetuti. Non era direttamente il Rivolta a organizzarla, ma si è pensato fosse politicamente stimolante incrociare un fenomeno sociale e culturale che stava diffondendosi fra i giovani del Nordest, conoscerlo anche nei suoi aspetti contraddittori. La musica elettronica chiama l’uso di sostanze stupefacenti e di alcol. Vige quasi un riflesso condizionato.
Al Rivolta si battono contro lo spaccio, che a Marghera è drammaticamente incombente: forniture dalla criminalità di tipo mafioso, strutture a vari livelli, con clan di albanesi e di nigeriani. Proprio nei giorni in cui ci siamo visti, il tribunale di Venezia ha emesso condanne contro questi ultimi, pur senza riconoscere fino in fondo il reato associativo. Quando era presidente della municipalità, Bettin ha denunciato con forza la presenza delle gang nigeriane persino nei giardini di fronte alla sede della stessa municipalità. “C’è bisogno delle forze dell’ordine, ma senza investire in prevenzione e recupero, senza restituire le piazze di Marghera alla loro funzione di socialità, non ci si libera del mercato criminale, al massimo si sposta lo spaccio di qualche metro”. In Cracking, Bettin racconta i traffici sulle bonifiche e sui rifiuti a Marghera e i collegamenti con lo spaccio. È un romanzo, ma è difficile non intrecciare il racconto con la realtà. Qualcuno deve averlo capito. A maggio del 2020 per due volte, nella sede della municipalità, è stata trovata una copia del libro bruciata e imbrattata con svastiche e minacce di morte.
Altavoz è durato fino al 2017. Erano intensi l’uso di sostanze e il consumo di alcol. Si è cercato di porre rimedio accompagnando chi ne abusava in una stanza cosiddetta chillout, dove rilassarsi e dove veniva fornito tè caldo e assicurata assistenza. L’iniziativa era in convenzione con il Comune di Venezia che aveva avviato un progetto che consisteva nella riduzione del danno, con operatori impegnati giorno e notte. Durante i concerti si faceva di tutto per evitare che entrasse droga o addirittura che si spacciasse, ma era difficile controllare chi assumeva pillole. Ed era altrettanto difficile impedire che accadesse nel recinto di un centro sociale quel che ordinariamente e diffusamente accadeva negli angoli e nelle piazze di Marghera. Nel 2017 si è comunque deciso di non replicare Altavoz. “Con quello che incassavamo finanziavamo gran parte dei nostri progetti”, ammette Vittoria, “ma noi non siamo una discoteca e ci abbiamo rinunciato”.
Il Rivolta è nel cuore di una Marghera che cambia pelle, perde quella affumicata da cent’anni di chimica malsana, ma non sa da quale epidermide sarà ricoperta. Dopo anni di prevalenza dei partiti di sinistra, il vento soffia altrove. Alle amministrative del settembre 2020, il candidato delle destre alla municipalità ha preso il 63%, lasciando il 36 all’esponente di centrosinistra. Prima di arrivare, Gianfranco mi indica uno, poi due, poi altri due ipermercati che hanno preso il posto di magazzini dismessi lungo la striscia di via Fratelli Bandiera. “E non è finita”, aggiunge il sociologo, “qualche giorno fa il Comune ha approvato la convenzione per trasformare l’area che un tempo occupavano le officine Galileo, sai, quelle degli occhiali, in strutture commerciali e turistiche”. Turistiche, ancora turistiche? “Turistiche, sì”.

Il sogno chimico

Marghera è una creatura degli uomini, un’invenzione novecentesca, in parte concepita da genitori veneziani, in parte frutto di strategie politiche ed economiche lontane dagli ambienti lagunari. Di quel secolo porta impresse le speranze e i traumi. Chi la promosse, Giuseppe Volpi – era veneziano, aristocratico su impulso del duce, sarebbe diventato procuratore di San Marco, presidente della Biennale oltre che ministro fascista –, immaginava che l’industria avrebbe trascinato nell’evo moderno l’antica città costruita sull’acqua, annullandone la singolarità. Chi ci ha lavorato, ci ha gettato il sangue e ci è andato ad abitare si è sentito parte di un movimento che, con la tuta da operaio, avrebbe assicurato dignità e con la lotta riscattato sé stessi, come accadeva ai più deboli in tutto il pianeta. Nessuno però ha fatto i conti con sufficiente accortezza con la delicatezza del luogo in cui tutto ciò accadeva né con gli effetti su ambiente e salute né con la ruvida legge dei cicli economici e con la loro caducità né con l’impersonale ingordigia delle strategie volte solo al profitto o con le pratiche corruttive. E così, ancor prima che il secolo si chiudesse, Marghera ha visto sfiorire in modo traumatico quelle speranze. Non tutte le speranze, però.
Quando si arriva con il treno, valicato il mite paesaggio della campagna veneta, puntellato come il morbillo da capannoni e depositi, Venezia si annuncia con uno skyline che le sarebbe estraneo persino per me che ci sono abituato, composto dalle possenti e geometriche sagome di Porto Marghera – ciminiere, ponti, cilindri mozzati – che tagliano l’orizzonte. Stamattina sporgevano da una striscia sottile di nebbia che sembrava emergere dalla Laguna, mentre in certe sere d’estate vengono avvolte da una cappa rossastra, dai colori del tramonto che cala dalle Dolomiti e anche degli scoppi di fumo e fiamme sparati dalle ciminiere.
Porto Marghera è composta da 1.450 ettari di aree industriali, commerciali e terziarie, più 660 ettari di canali, bacini, strade e ferrovie. In termini lineari le strade sono lunghe oltre 100 chilometri, 127 sono invece i chilometri dei binari e quasi 20 quelli dei canali. A un censimento di qualche tempo fa risultano presenti 884 aziende, che fatturano complessivamente 27 miliardi ogni anno. Sembrano i dati di un sito produttivo in piena efficienza, ma è solo un’impressione: negli anni Settanta del Novecento gli addetti erano oltre 40.000, ora sono 11.000, più alcune migliaia di persone dipendenti di società appaltatrici. Inoltre un tempo il paesaggio industriale era dominato dal colosso del Petrolchimico, prima di proprietà della Montedison, poi dell’Eni. Ora prevale un tessuto di piccole e medie realtà. Per il 35% si tratta di aziende del terziario avanzato, che occupano il 23% dei lavoratori totali. Per il 22% sono aziende di trasporto e logistiche, per il 13 imprese manifatturiere, comprese le chimiche, nelle quali sono impiegate la quota maggiore di persone, il 37%.
Trecento ettari sono liberi e sono di proprietà sia pubblica sia privata. Ma solo un terzo di questi sono bonificati oppure non risultano contaminati dalle produzioni che per decenni hanno scaricato nel suolo ogni genere di sostanza nociva. Se si considera l’intera area di Porto Marghera, le aree bonificate non superano il 10%.
Bettin la vede così: “A certe condizioni e solo a certe condizioni, non ad altre, Marghera è dunque un territorio nel quale si può scrivere un’altra storia che, volendo, può essere diversa da quella che si è consumata finora. Considera solo due aziende, la Grandi Molini, fra i primi produttori di farine per alimenti al mondo, e la Cereal Docks, che a Marghera ha gli impianti di stoccaggio. Entrambe forniscono di Marghera un’immagine slegata dalla chimica e dai suoi guasti. Questa nuova storia potrebbe riguardare il luogo specifico di Marghera, ma non è difficile immaginare quanto possa coinvolgere Venezia, la città insulare, nella quale il Covid ha mostrato le fragilità, anzi l’inconsistenza alla lunga del modello tutto turistico”.
È all’alba del Novecento che si pensa di forzare la storia e il futuro di Venezia. Nella città insulare poco meno della metà di tutti gli occupati in quegli stessi anni lavora in una fabbrica e dunque Venezia può ben dirsi già una città industriale. Inoltre dall’ultimo ventennio dell’Ottocento è in funzione un porto commerciale che ha sostituito le antiche banchine in bacino San Marco. Fiorenti sono i cantieri navali all’Arsenale, dinamica la produzione del vetro. Ma non basta. Si vuole che la città compia un balzo di qualità superiore, che bruci le tappe, che si metta in asse con i processi di sviluppo industriale in atto in Europa, producendo non solo beni di consumo, come ha fatto finora, ma beni str...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Appunti per iniziare a leggere
  5. Le nostre periferie
  6. Periferie d’autore
  7. Il chilometro di Corviale
  8. Le trame di San Berillo
  9. Venezia comincia a Marghera
  10. I bagnanti di Torino
  11. La casa in comune
  12. Un posto dell’umanità