Non ho l'età. Perdere il lavoro a 50 anni
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Introduzione di Rossana Rossanda - "Nell'uragano volano soprattutto gli stracci." Rossana Rossanda Cosa significa trovarsi a 50 anni senza un lavoro perché delocalizzano la fabbrica, o tagliano il personale, o l'azienda fallisce? Come si sopravvive se si è troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per riuscire a ricollocarsi, con i figli ancora a scuola e un mutuo da pagare?Loris Campetti scrive un reportage viaggiando per l'Italia e raccogliendo nove storie emblematiche di una generazione di lavoratori dimenticati, invisibili: c'è la Ottana in Sardegna e l'amianto di Avellino, la Merloni di Fabriano e l'Eutelia di Roma, ci sono le storie di una grafica e di un direttore di teatro toscani, le coop rosse emiliane, gli indiani del Reggiano, c'è l'occhialeria del Veneto.Ci sono, soprattutto, delle donne e degli uomini: ognuno racconta la propria storia, e Campetti ne spiega il contesto territoriale e lavorativo. Scrive l'autore: "Via via che prendevo appunti nel mio block notes mi sono rafforzato nell'idea antica della centralità del lavoro nella vita delle persone, perché quando il lavoro viene meno non è dell'assistenza che si va in cerca, bensì della dignità. Cioè del lavoro. Un lavoro irrobustito dai diritti, per non tornare alla schiavitù, come ci ricorda un'indiana del Punjab arrivata nella Pianura padana per mettere etichette alle nostre t-shirt griffate, mungere le nostre mucche e strigliare i nostri cavalli."

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2015
ISBN
9788862666961
Argomento
Business

SERGIO, NAPOLI, 62 ANNI

I miei valori rottamati
Dal giorno del mio licenziamento, era il 27 marzo del 2008 e avevo 55 anni, non sono più riuscito a strappare un rapporto di lavoro stabile. A Bologna tutte le mie relazioni erano legate alle Coop per le quali sono arrivato a gestire depositi di 600 miliardi di lire. Quando sono caduto in disgrazia hanno cominciato a costruirmi intorno un cordone sanitario e alla fine ogni spazio nel mondo cooperativo bolognese mi si è chiuso in faccia. Con la mia città d’origine, Napoli – che avevo lasciato nel ’92 accettando la richiesta di trasferirmi a Bologna al Fincooper, il consorzio nazionale finanziario di Legacoop – non avevo ormai più rapporti. Di conseguenza, dopo aver fatto il cooperatore per tanti anni, a partire dal ’77, ed essermi occupato di cooperative sociali, finanza, logistica, editoria, mi sono dovuto reinventare un altro mestiere proprio mentre intorno a me e alle mie competenze stava esplodendo una drammatica crisi economica che dura ancora oggi. Il mio è stato un licenziamento politico, pur motivato, dall’editoriale Bologna controllata da Legacoop, con la crisi di mercato, e nella lettera con cui mi si metteva alla porta veniva addirittura precisato che in tutto il sistema cooperativo non c’era un’altra posizione lavorativa compatibile con la mia personalità. La verità è che avevo osato scrivere un articolo per “Critica marxista”, recensito dal “Corriere della Sera” quando esplose l’affaire Unipol-Bnl; un articolo polemico sulla deriva mercatista del sistema cooperativo che l’allontanava dai valori e dalla missione del mutualismo originario; denunciavo il salto di paradigma con la riduzione della mutualità a mutualità prevalente, mettendo in dubbio la liceità di un’operazione finanziaria ad alto rischio per il capitale sociale delle cooperative. Oggi è lampante la trasformazione del terzo settore che avrebbe dovuto svilupparsi fuori dal privato e dal pubblico, in un soggetto che apre ai privati con tanto di soci di capitale e utili e mazzette mungendo soldi pubblici. In realtà quel mio articolo era una riflessione preveggente perché analizzava i processi e le trasformazioni culturali del sistema cooperativo che spiegano l’esplosione, in tutta la sua virulenza, della vicenda Unipol-Bnl e il ruolo di Consorte (il quale, mi riferirono due giorni prima delle sue dimissioni, si era infuriato per il mio articolo) che ha occupato le prime pagine di tutti i giornali. L’altra mia colpa è stata di avere un atteggiamento critico rispetto alla decisione di sciogliere i Ds nel nascituro calderone del Pd, e infatti scelsi di continuare la mia militanza con il gruppo che diede origine a Sinistra democratica. La reazione negativa dei vertici della Lega e i tentativi dei suoi dirigenti di ricondurmi nell’ovile la dicono lunga sull’autonomia politica dal “partito di riferimento” di quelle che una volta si chiamavano “cooperative rosse”. Iniziò così contro di me una stagione di emarginazione e mobbing vero e proprio che mi sconvolse nell’anima e nel corpo e si concluse con il licenziamento, a cui ho risposto ricorrendo all’ex articolo 700 del Codice civile. È stata riconosciuta l’illegittimità del provvedimento, con tanto di ordinanza di reintegra nel posto di lavoro. Reintegra successivamente revocata da un altro giudice nell’ottobre del 2008 sulla base della considerazione che non c’era pericolo di drastica riduzione del reddito in quanto ero stato eletto consigliere provinciale, funzione che mi garantiva 1.200 euro in gettoni di presenza (contro l’ultimo stipendio che era di oltre 1.000 euro superiore) e alla scadenza del mandato anche quell’unico introito venne meno: mi ero presentato nelle liste di Sinistra democratica che non riuscì a eleggere consiglieri. La revoca non entrava nel merito del licenziamento, già giudicato illegittimo in quanto discriminatorio, ma lo rendeva definitivo. Solo quattro anni dopo, e grazie all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ho ottenuto giustizia: ho rinunciato alla reintegra, perché ormai il rapporto con il sistema Coop si era definitivamente consumato, optando invece per il risarcimento, stabilito dal giudice in 297.000 euro, di cui però finora ho ricevuto soltanto 180.000 euro comprensivi di 34.000 euro di tasse e delle spese per gli avvocati. Per ottenerli, però, ho dovuto lanciarmi in un’altra battaglia e solo nel 2015 si è chiusa la vicenda. Comunque la sentenza del 2012 mi aveva restituito dignità, avevo riacquistato fiducia in me stesso, mentre per anni mi era successo di sentirmi addirittura colpevole di fronte a mia moglie e a mio figlio. Colpevole di avere scritto la verità e di difendere i miei valori. Io sono una persona fedele, ma c’è un limite alla fedeltà: la pratico con convinzione finché il rapporto di fiducia non comporta la violazione dei miei principi, quelli per cui avevo scelto di dare tutto me stesso nel lavoro per il terzo settore.
Ciò che più mi aveva ferito di quella lettera di licenziamento, prima ancora delle pesanti conseguenze economiche, era la violenza subita per ragioni non attinenti alla mia professionalità e all’attaccamento al lavoro, caratteristiche riconosciute da tutti, compresi coloro che hanno deciso di buttarmi fuori dopo trent’anni di onorato servizio nel mondo cooperativo. Iniziai nel ’77 con la costituzione della Cooptur Campania aderente a Legacoop, di cui sono stato vicepresidente, che gestiva le “vacanze sociali” per bambini e anziani non abbienti, finanziate dal Comune di Napoli. Così entrai in contatto con la struttura organizzativa della Lega che nell’80, in seguito al terremoto che mise in ginocchio l’Irpinia, mi incaricò di partecipare al coordinamento dei primi soccorsi e aiuti alle popolazioni colpite. Mi trasferii ad Avellino due giorni dopo il sisma e organizzai e seguii, in tutti i paesi colpiti e nelle tendopoli, lo smistamento dei camion di generi alimentari, vestiario e medicinali provenienti dalle cooperative del Nord impegnate in una straordinaria gara di solidarietà. Successivamente, passata la prima drammatica emergenza, il mio impegno fu rivolto alla costruzione di piccole cooperative locali per sostenere il riavvio di attività economiche distrutte dal terremoto e fui tra i soci fondatori della prima cooperativa edile di Lioni e Sant’Angelo dei Lombardi, di coop di sartoria, servizi di lavanderia, forni, artigianato locale. Così ho arricchito la mia conoscenza amministrativa e la mia professionalità come organizzatore d’impresa nel terzo settore. Alla fine dell’81 mi affidarono l’incarico di responsabile delle cooperative di consumatori che avevano un piano nazionale per aprire punti vendita nel Sud. Lavoravo in un ambiente difficile, tutto da costruire e in alcuni casi da ricostruire superando resistenze corporative e politiche. In dieci anni realizzammo una rete di oltre 20 supermercati con un volume d’affari di 100 miliardi. Grazie ai risultati eccellenti, soprattutto in Campania, mi conquistai l’apprezzamento dei gruppi dirigenti nazionali e fui eletto alla direzione e alla giunta di presidenza delle cooperative di consumo. Per rafforzare le capacità gestionali partecipai a un master annuale per giovani dirigenti promosso dalla Formazione Coop con lo Sda Bocconi. Mi occupavo di valutazione commerciale, analisi economica, soluzioni finanziarie, assistenza alle coop alle prime armi, controllo e gestione del personale. Fui anche costretto a farmi carico di numerosi licenziamenti che mi procurarono non pochi problemi nel rapporto con il personale e i sindacati. Al termine di una grande ristrutturazione fu completato il risanamento economico, dopo aver superato i problemi e le restenze iniziali, con la creazione di un’unica azienda Coop Campania.
Nel ’92, giunto a conclusione questo compito, mi fu proposta un’ulteriore specializzazione nel settore finanziario nella grande cooperazione emiliana.
Accolsi con piacere l’opportunità di lanciarmi in questa nuova sfida, nonostante il trasferimento mi costringesse a lasciare sia pure temporaneamente la mia città, le relazioni politiche e sociali che avevo costruito a Napoli e la mia famiglia, con un figlio appena nato. Al Fincooper, a Bologna, fui assunto con la qualifica di funzionario responsabile del settore marketing, con l’impegno di tornare al Sud dopo due anni, per sviluppare le attività finanziarie nel meridione. Realizzai il piano marketing triennale di Fincooper (il documento fu presentato ufficialmente in una convention aziendale della borsa di Londra). La direzione a questo punto mi propose di entrare nel settore commerciale e di gestire il portafoglio clienti più rilevante delle grandi cooperative. Di conseguenza mi chiesero di rinviare il ritorno al Sud e trasferire la famiglia a Bologna, offrendomi l’alloggio gratuito e il sostegno per l’inserimento di mia moglie, medico precario, in una attività sanitaria nel Bolognese. In realtà lei non ebbe bisogno di alcun aiuto perché riuscì a vincere da sola un concorso e prendere servizio nell’ospedale di Forlì. Per tutti gli anni Novanta mi furono affidati nuovi incarichi di fiducia, ottenni miglioramenti economici e mi specializzai nell’analisi di bilancio e dei rischi del credito, nella finanza commerciale e nell’informatica. Alla fine del decennio l’intero movimento cooperativo subì le conseguenze di una forte crisi economico-finanziaria e anche i bilanci di Fincooper, prima solidi, cominciarono a risentirne. Seguì una dura ristrutturazione che mise in discussione organici e ruoli, a me chiesero un nuovo cambiamento non più in prospettiva di un ulteriore miglioramento, ma finalizzato a mantenere il posto di lavoro e il livello retributivo, ma in un’azienda meno solida. Ad altri quadri, invece, furono garantite collocazioni migliori a prescindere dalla professionalità acquisita. Il direttore mi confessò che si era pensato a me come tesoriere, ma evidentemente prevalsero logiche diverse, che raffreddarono per la prima volta il mio entusiasmo di cooperatore convinto. Fu deciso il mio trasferimento alla finanziaria provinciale di Legacoop Bologna, la Fibo, ma per ragioni organizzative non si realizzò rapidamente per cui sono rimasto formalmente dipendente di Fincooper. Nel 2001 il presidente di Legacoop Adriano Turrini mi chiese di impegnarmi temporaneamente al quotidiano “Domani”, in difficoltà già dopo i primi mesi di vita e con una direzione inadeguata. Era necessario un piano marketing e un’azione commerciale a sostegno delle attività giornalistiche.
Nonostante la proposta non rispondesse agli accordi e al rango del mio lavoro accettai e una volta ancora mi gettai nella mischia. Con la redazione costruii un programma per sviluppare il rapporto del giornale con il territorio, i quartieri bolognesi e i Comuni della provincia, migliorando l’informazione e sviluppando la pubblicità istituzionale. Crebbero vendite e abbonamenti grazie alle sinergie con le grandi cooperative e, grazie al lavoro di inchiesta sulle tematiche del lavoro, con i sindacati. L’accordo con altri editori consentì di sviluppare la diffusione di libri e dvd e ricordo con qualche orgoglio la pubblicazione in fascicoli dell’inedita Storia dell’arte di Bologna che ebbe un bel successo di vendite. Un po’ di problemi sorsero con l’arrivo dalla Calabria di amministratori di un’altra testata con cui Legacoop voleva fondare un nuovo giornale: gestione economica molto deficitaria, disorganizzazione informatica, abitudine a pagare per sé ricchi emolumenti ma non i fornitori, furono ostacoli al rilancio del nostro giornale, mentre in strada faceva la sua aggressiva comparsa la free press, “City” e “Metro”, il “Corriere della Sera” apriva le pagine di cronaca locale e ritornava quella de “l’Unità”. La mia proposta di fare del “Domani” un panino (cioè un inserto) de “l’Unità” non venne accolta. Nel 2003 assunsi la direzione piena del giornale diventando amministratore delegato. Per molti mesi, per alleggerire la situazione economica e garantire il pagamento dello stipendio ai dipendenti scelsi di non percepire il mio salario. Riforma grafica e risanamento economico garantirono la sopravvivenza del giornale, ma l’operazione più importante che mi garantì l’apprezzamento e il ringraziamento del mondo cooperativo emiliano fu l’acquisizione dei fondi pubblici garantiti dalla legge dell’editoria: riuscii a portare a casa qualcosa come 1 milione e 780.000 euro come primo finanziamento nel 2005.


I miei tentativi di rilanciare il giornale migliorando l’informazione giornalistica per farne una testata di qualità, si scontrarono con le resistenze e la passività di un collettivo giornalistico indolente, proveniente prevalentemente dalla vecchia redazione de “l’Unità”. Nel frattempo avevo incrementato la mia attività politica nei Ds di cui ero diventato consigliere provinciale, con il placet dello stesso Turrini. I problemi arrivarono successivamente, come ho detto, al momento della nascita del Pd a cui decisi di non aderire nonostante gli appelli dei vertici del movimento cooperativo per convincermi a non mettermi di traverso. Ancora più negative furono le reazioni al mio articolo del 2005 su “Critica marxista” in cui denunciavo le scelte della Coop, in particolare la scalata di Unipol a Bnl. Fui convocato dalla Lega e scoprii che ero stato affiancato al giornale da un cooperatore di antica esperienza e militanza, in conseguenza – dissero – dei rapporti difficili tra me e la redazione. Via via fui sostituito nel ruolo di amministratore delegato e anche nella gestione pubblicitaria. Mi lasciarono solo gli incarichi più scomodi, come il disbrigo dei pagamenti e il rapporto con i fornitori. Infine, con la pubblicazione sul “Corriere” di alcuni brani del mio articolo su “Critica marxista”, venni definitivamente bruciato. Pur ribadendo che non c’erano critiche al mio operato al “Domani”, in una riunione mi venne comunicato che non sarei potuto restare al giornale, per ragioni si potrebbe dire “oggettive”, e che comunque data la mia professionalità e correttezza mi avrebbero garantito un’altra opportunità di lavoro. Dopo settimane di attesa finalmente mi si disse che era pronta la mia sostituzione, così mi dimisi da amministratore e proposi un periodo di distacco presso un’altra attività esterna al giornale pur rimanendone formalmente dipendente. Presi su i miei stracci e andai a lavorare al Gvc ong bolognese con un distacco di sei mesi prorogabile di altri sei. Pur con le pive nel sacco, ritrovai nuove motivazioni nello sviluppo dei progetti di cooperazione internazionale, impegnandomi a migliorare le performances del Gvc in attività e missioni all’estero. A fine aprile del 2007 si concluse il distacco, e io restai con lo stipendio ma senza attività, una situazione imbarazzante e umiliante che durò lunghi mesi in cui cominciai a respirare un clima sfavorevole nei miei confronti. Ricordo una manifestazione, dopo la conclusione della vicenda Unipol-Bnl, in cui gli stessi dirigenti che avevano sostenuto fino all’ultimo l’operazione e lo stesso Consorte, salvo poi imporgli le dimissioni, invece di avviare un’autocritica si autoassolvevano da ogni responsabilità scaricando colpe ed errori sul capro espiatorio. Dopo un anno di insopportabile inattività chiesi di essere reintegrato nel giornale di cui continuavo a essere dipendente e mi risposero picche, controproponendo le mie dimissioni in cambio di una misera buonuscita. Rifiutai l’elemosina e mi rivolsi a un legale che impostò una richiesta di reintegro ai sensi della legge, a cui l’azienda rispose con il licenziamento “per fondati motivi”. Era il 27 marzo del 2008.
Fino al 2012, quando le mie ragioni sono state riconosciute in sede giudiziaria, sono stato veramente male. Un conto è se a licenziarti è un padrone qualsiasi, altro conto è se il tuo “nemico” è il vertice di un movimento, quello cooperativo, a cui hai dedicato il tuo lavoro e tanta parte della tua vita. Vieni isolato, additato e ci soffri, persino rivolgersi a un giudice è una scelta dolorosa che non avrei mai pensato di dover fare. Un dolore profondo, privato, che si è aggiunto a un altro dolore, quello provocato dal veder traditi i valori della solidarietà e la stessa ragione fondativa di un’impresa collettiva e mutualistica costruita per realizzare un’alternativa al capitalismo. Per trent’anni mi sono battuto per dei valori che via via, in nome del mercato e del realismo, venivano negati. Alla vicenda Unipol-Consorte ne sono seguite tante altre, segnate dalla compromissione con i poteri forti, la peggior politica, persino la criminalità. Dalla Tav al Mose all’Expo, per arrivare alla speculazione sui migranti di Mafia capitale. Linee di credito pubblico e tangenti sono diventate la normalità e si è perso il rapporto con la base sociale. Il movimento cooperativo a cui avevo aderito era tutt’altro rispetto a quel che la Coop è diventata. Resta il fatto che il mio dolore è stato attutito dalla sentenza che riconoscendo il danno professionale e psicofisico mi ha restituito l’autostima e la fiducia, dopo quattro anni di insonnia, tachicardia, dolori allo stomaco.
Ma io non sono una persona pigra, non ho gettato la spugna e da quando il mio licenziamento è diventato definitivo mi sono dato da fare per reinventarmi. Per tre anni ho lavorato come socio in una società di comunicazione e organizzazione di eventi, la mia professionalità è cresciuta sulle energie rinnovabili, sul fotovoltaico e l’idroelettrico. Mi occupavo delle licenze per l’attivazione di impianti, ho svolto consulenze e affiancamento a manager tedeschi, occupandomi dei rapporti con le istituzioni e le popolazioni dei territori dove sarebbero dovuti sorgere gli impianti di energia rinnovabile, finché, dopo il 2011, il governo bloccò i contributi per le energie alternative. Ho continuato a lavorare in proprio su questi temi, insieme ad altre attività non retribuite legate alla scrittura e al giornalismo. Ho svolto con altri una ricerca sull’innovazione in Emilia Romagna, finanziata dalla Regione, che proprio in questi giorni è sfociata in un libro pubblicato dal Mulino. Non ho più avuto una retribuzione fissa ma solo atti occasionali che hanno ridotto il mio reddito a un terzo di quello che avevo in Lega, e ogni volta che mi sono avvicinato per colloqui alle aziende Coop è subito arrivato qualcuno a suggerire la paroletta magica: quello lì è pericoloso.
Ora mi aggiusto come posso, con maggiore serenità. Faccio le cose che mi appassionano, insieme ad altri compagni ho costruito “il manifesto in rete” e il sito ilmanifestobologna.it che continuano a operare con qualche buon risultato, nonostante la rottura con quel che resta – ben poco – della redazione romana del quotidiano in liquidazione coatta amministrativa, da cui sono stati espulsi i soci fondatori e la generazione che ha ideato e prodotto il giornale per quarant’anni e fatto crescere come intellettuale collettivo un’area politica importante. Persino al manifesto” l’idea di costruire un’impresa collettiva di giornalisti, tecnici, lettori e sostenitori è stata rifiutata da chi continua a sfruttare un logo con una storia gloriosa e un esito piuttosto miserevole. Sono impegnato politicamente e lavoro nella faticosa costruzione di una sinistra fondata su pratiche e valori autentici, che è quel che in Italia manca da troppo tempo. Tra le cose di cui vado fiero c’è il gemellaggio tra Bologna e Pollica, nel ricordo di quella persona straordinaria che è stato Angelo Vassallo, il sindaco ucciso nel 2010: oggi l’olio di Pollica prodotto in cooperativa è in vendita nei supermercati Coop.
La Recherche du temps perdu
del movimento cooperativo
di Sergio Caserta
Questo articolo, pubblicato contestualmente sul numero 2/3 del 2015 di “Critica Marxista” e sul numero 188, aprilegiugno 2015, di “Inchiesta”, è firmato da Sergio Caserta, autore non anonimo della storia precedente. Abbiamo deciso di riproporlo in questo libro perché aiuta a capire i processi di trasformazione e degenerazione del sistema cooperativo dal secondo dopoguerra a oggi. Ma aiuta anche a contestualizzare tanto l’avventura lavorativa dello stesso Caserta quanto quella dell’indiana Goghi che segue questo articolo.
Palmiro Togliatti: “(...) Circa i problemi che sono stati posti, pare che essi siano stati chiariti abbastanza bene dai compagni che sono intervenuti. Le vostre risoluzioni sono molto concrete, precise e danno delle direttive, dei consigli che i compagni si attendevano. Una sola questione di principio è sorta e sulla quale, dopo quel che ha detto il compagno Longo, non mi pare che ci sia bisogno d’intervenire; se qualche compagno aveva avuto qui delle espressioni che teoricamente noi non approviamo (nel senso che hanno indicato la cooperazione che oggi si svolge in regime capitalista come socialista) credo che i compagni hanno compreso la nostra critica. In realtà, in regime capitalista, la cooperazione non si sottrae alla legge del profitto come non si sottrae, a tale legge, l’industria nemmeno nel periodo della costruzione del socialismo. Vorrei però che i compagni comprendessero che il fatto di aver precisato questi punti della dottrina non significa che noi svalutiamo la cooperazione quale oggi è, una scuola di socialismo per i lavoratori, per il sindacato, per il partito”.
Ho preso alla lontana il tema dell’identità cooperativa perché l’intervento del segretario del Pci al primo convegno dei cooperatori comunisti del dopoguerra mette in evidenza, in un rigo, un tratto essenziale e caratteristico della sua idea di costruzione di un progetto di socialismo in Italia. Togliatti e il Pci affidavano un ruolo strategico alla cooperazione come strumento per la partecipazione da protagonista delle masse alla ricostruzione del Paese e alla realizzazione di un nuovo modello di società, non come soggetto di lotta al capitalismo.
A riconferma dell’importanza assegnata alla cooperazione, nel dibattito alla Costituente fu avanzata la proposta d’inserire la “proprietà cooperativa” nel testo fondamentale, sostenuta personalmente anche da Togliatti, ma venne battuta. L’emendamento che non venne nemmeno votato recitava che “la proprietà è pubblica, cooperativa e privata. I beni economici possono appartenere allo Stato e agli enti pubblici, alle cooperative e ai privati individualmente e collettivamente”.
Questo emendamento se accolto avrebbe delineato sul piano giuridico e quindi anche su quello economico, societario e culturale una funzione della cooperazione di straordinaria importanza, definendo un diverso campo delle possibili variabili di un modello di società in cui la proprietà a carattere di mutualità e sociale, avrebbe rivestito pari dignità delle altre due sfere. Una vera e propria rivoluzione che gli interessi forti e la dominanza cattolica non potevano accettare.
Il tema della funzione della cooperazione in regime capitalista, restava al centro del dibattito tra i cooperatori comunisti. Lo riprende Agostino Novella nelle conclusioni del secondo convegno dei cooperatori comunisti del 1949 (appena tre anni dopo il primo): “(...) il convegno ha posto con chiarezza l’esigenza di dare un ulteriore impulso a tutta l’attività specifica della cooperazione, a tutte le sue iniziative economiche, e nello stesso tempo di accentuare il carattere di massa della cooperazione, il carattere combattivo di questo movimento. (...) il sistema economico cooperativo non può entrare in urto con il sistema capitalistico fino al punto di esserne un elemento di rottura, ciò per il semplice motivo che l’attività della cooperazione è, per sua natura, un’attività che resta fondamentalmente di tipo capitalistico. Solo dimenticando cosa significa economia socialista si può confondere l’economia cooperativistica in regime capitalista con l’economia in regime socialista. Qualunque cooperativa deve soggiacere al regime capitalista in cui vive, non può non tener conto della legge del profitto, che non può dare al salario ai suoi dipendenti un carattere socialista perché detto salario è, e sarà sempre, in regime capitalista, un salario di sfruttamento... Non può perciò sfuggire alle leggi che dominano la formazione dei prezzi sul mercato, come diceva Lenin ‘In regime capitalista la cooperazione prende il carattere di un’azienda capitalista collettiva’”.
La funzione della cooperazione fu per lungo tempo argomento rilevante e parte integrante...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Gli invisibili di Rossana Rossanda
  3. NON HO L’ETÀ
  4. Dai capponi di Renzo ai polli di Renzi
  5. EDITH, FELTRE, 54 ANNI
  6. NICOLA, AVELLINO, 54 ANNI
  7. CATIA, MONTECATINI, 53 ANNI
  8. GLORIA, ROMA, 57 ANNI
  9. VAURO, CASCINA, 55 ANNI
  10. EFISIO, OTTANA, 59 ANNI
  11. ASSUNTINA, FABRIANO, 46 ANNI
  12. SERGIO, NAPOLI, 62 ANNI
  13. GOGHI, PUNJAB, INDIA, PIÙ DI 50 ANNI