Jin Jiyan Azadî
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La rivoluzione delle donne in Kurdistan

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La rivoluzione delle donne in Kurdistan

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Informazioni sul libro

Jin, Jiyan, Azadî raccoglie le voci di venti rivoluzionarie curde e le compone in un'architettura maestosa: le combattenti ci offrono attraverso memorie private, lettere e pagine di diario una profonda riflessione su un percorso che non inizia con la riconquista di Kobane del 2015 ma ha radici ben più lontane. Per la prima volta scopriamo dalla prospettiva delle protagoniste la visione del mondo e le scelte di vita che le hanno portate alla guida di una guerra di liberazione, oltre che di un epocale progetto di trasformazione dei rapporti tra donne e uomini, tra nazioni e tra specie viventi.La loro proposta di una via d'uscita ci cattura e destabilizza i nostri canoni culturali.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9791280195197
Argomento
Storia
Resistenza in prigione
e serhildan negli anni ’90
Dopo la formazione del Pkk nel 1978, la linea politica della neonata organizzazione mirava a espandere la lotta rivoluzionaria in Bakur. Il primo congresso del Pkk vide la partecipazione femminile di Sakine Cansız e Kesire Yıldırım (Fatma).
Sakine Cansız era una donna zaza,1 nata nel 1958 nella regione di Dersim, dove trascorse la sua infanzia e giovinezza. Sakine era una rivoluzionaria nata; sin da giovanissima si sentiva attratta dalle rivolte politiche che negli anni ’70 si accendevano nella sua regione. Sakine aveva trovato il suo posto nel gruppo degli studenti Apocî e in poco tempo si era unita all’organizzazione con il nome di Sara. Credeva fermamente nella necessità di includere le donne nella lotta rivoluzionaria, perciò si fece promotrice dell’organizzazione delle donne nelle città di Smirne, Ankara, Bingöl ed Elazığ tra il 1977 e il 1979. A quel tempo non esisteva un’organizzazione autonoma delle donne rivoluzionarie, né nella sinistra turca né nelle organizzazioni nazionaliste curde.
Gli anni ’70 sono stati anni di rivolta in gran parte del mondo. Anche la gioventù rivoluzionaria turca è stata protagonista di grandi conflitti. L’istituzione militare turca, molto influente all’interno della Repubblica, nel 1971 guidò un colpo di stato che diede il via libera a una brutale repressione contro la sinistra rivoluzionaria. La maggioranza dei più grandi e influenti leader del movimento rivoluzionario turco, come Mahir Çayan, Ibrahim Kaypakkaya e Deniz Gezmiş, furono uccisi brutalmente. La dittatura militare durò fino al 1973 e spazzò via gran parte di un forte movimento rivoluzionario. Durante la seconda metà degli anni ’70 la repressione statale, le azioni dei gruppi rivoluzionari così come la violenza tra diversi gruppi politici aumentavano drasticamente; l’economia turca soffriva una grave crisi e le disuguaglianze sociali si facevano ogni giorno più visibili agli occhi della popolazione. La perdita del controllo da parte dello stato sulle componenti politiche e sociali generò, nel 1980, uno scenario che offriva la scusa perfetta per un altro colpo di stato militare. Come preludio al colpo di stato, si eseguirono decine di arresti di giovani rivoluzionari. Sara fu arrestata il 7 maggio 1979 durante una retata in un appartamento di Elazığ. Fu portata in prigione e interrogata. Lì fu torturata con elettroshock, bastinado2 e molestie sessuali, ma nemmeno così il nemico riuscì a estorcerle alcuna informazione. Sara passò per differenti carceri dello stato turco, e durante la sua permanenza vi poté conoscere le storie delle prigioniere, le ingiustizie sofferte dentro e fuori dal carcere: «La realtà della società non mi era sconosciuta. I destini di queste donne erano drammatici. Però, più le ascoltavo più cresceva il mio orgoglio e la mia allegria nell’essere una rivoluzionaria».3 Il 12 settembre 1980 Sara si svegliò nella sua cella con una musica fascista. Gli altoparlanti trasmettevano ogni mezz’ora la voce del generale turco Kenan Evren:4 «I banditi separatisti dell’Est e un pugno di terroristi dell’Ovest, responsabili delle lotte nelle strade, vogliono dividere i nostri lavoratori, i nostri giovani, i nostri quartieri e le nostre strade, e vogliono fare della nostra bella patria un bagno di sangue. Il nostro esercito e le nostre forze armate hanno tutto sotto controllo e sono al servizio dei nostri civili».
In generale, l’obiettivo del colpo di stato militare era quello di mettere a tacere la voce che si alzava in Kurdistan. In quel frangente migliaia di persone sono state arrestate: hanno fatto irruzione nei villaggi, nelle case, hanno arrestato tutte. Con il colpo di stato militare del 12 settembre sono state arrestate diverse centinaia di donne. La maggior parte di loro erano welatparêz, simpatizzanti del Movimento: sorelle, madri o spose dei compagni, donne che in qualche modo aiutavano i compagni e che sono state arrestate con questa scusa. In quel momento, nemmeno il Pkk aveva molta esperienza organizzativa.
Le forze armate presero il controllo del governo e la costituzione fu sospesa. L’esercito governava attraverso un consiglio militare che impose la legge marziale, vietando ogni attività politica, limitando il diritto di stampa e imprigionando migliaia di persone con l’accusa di terrorismo. L’intenzione del golpe era di schiacciare i movimenti rivoluzionari e trasformare l’intera società in soldati dello stato turco. All’interno della prigione si diffuse un sentimento di sconfitta. Ecco come lo descrive Heval Sara nelle sue memorie:
Heval Sara:
L’impatto del colpo di stato militare in prigione fu considerevole. In tutte le prigioni militari e civili furono emanate nuove direttive: «Ogni detenuto è un soldato!» Bandiere turche vennero appese ovunque. Le regole di disciplina militare dovevano essere seguite alla lettera. (…) La giunta utilizzò tutti i mezzi della controrivoluzione. In Kurdistan, questa si esplicò attraverso l’uso illimitato della forza. (…) Innumerevoli rivoluzionari furono arrestati. Parte dell’opposizione riparò in Europa. (…) A Elazığ alcuni compagni furono brutalmente picchiati a causa della mancanza di «rispetto per la bandiera». I prigionieri vennero divisi in due gruppi: quelli che mostravano rispetto per la bandiera turca e quelli che non lo mostravano. Alcuni cedettero immediatamente, il che poteva a sua volta influenzare gli altri. Si creò un clima di panico.5
Con le più grandi e indicibili torture, con le forme più dure di violenza, volevano portare il Pkk alla resa.
Heval Elif Kaya
Heval Sara fu trasferita nella prigione di Amed insieme ad altri prigionieri e prigioniere. La prigione di Amed è diventata famosa per le torture e la dura guerra psicologica condotta contro le prigioniere. Venivano eseguite marce militari fasciste e le prigioniere dovevano cantare l’inno nazionale turco. Tutte dovevano essere fedeli alla bandiera turca, al «turchismo» e all’indivisibilità della patria.
Heval Sara:
La gente nei campi nazisti appariva come un ammasso silenzioso di corpi nudi, nei cui occhi era stata spenta ogni speranza. Questi corpi nudi si spostavano solo quando si mettevano in fila per morire. C’erano posti simili a questo mondo? Non bisognava guardare troppo lontano, era sufficiente guardare a Diyarbakır. Tuttavia Diyarbakır era diversa. Come avrebbe potuto essere definita Diyarbakır? Era un posto come un altro, ma allo stesso tempo diverso. La nudità, che non aveva più alcun tratto di umanità, veniva ricoperta dalla tortura. I prigionieri gridavano l’anima fuori dal corpo, cantavano le marce fasciste del nemico e se ne vergognavano. Il nemico si godeva la sua vittoria e allo stesso tempo aveva paura. I prigionieri piangevano la propria sconfitta. Tuttavia c’era ancora una vena di vita che faceva paura al nemico e che era la speranza segreta dei prigionieri.6
Ad Amed, i prigionieri e le prigioniere venivano obbligate a baciare la bandiera. Il nemico voleva distruggere la ritrovata identità curda, appena risvegliata. Nonostante le torture, Heval Sara rimase ferma nella sua convinzione rivoluzionaria.
Heval Sara:
«Sei turca?» chiese [Esat Oktay Yıldıran].7 «No. Per prima cosa sono una rivoluzionaria. Nella rivoluzione l’origine non ha molta importanza, ma io sono curda. (…) Si fece serio. «Non voglio sentir parlare di curdi. Mettetela a terra», ordinò ai soldati che eseguirono il suo ordine immediatamente. La prima bastonata sui piedi me la diede lui stesso. Contai i colpi mentalmente. Uno, due… quindici… venti… proseguì. Il bastone risalì le mie gambe. Rinunciai a contare. A un certo punto sentii come provenire da lontano un filo di voce: «È morta?» Esat mi alzò le palpebre e disse: «No, è ancora viva». Probabilmente avevo perso conoscenza per un po’. La poliziotta aveva voltato le spalle mentre Esat mi colpiva. Evidentemente non riusciva a sopportare la vista; il suo viso era stravolto dal dolore, come se avesse assaggiato lei stessa il bastone.8
Per spezzare la volontà delle prigioniere si compivano aggressioni brutali, torture, e alcuni gruppi venivano isolati. Durante l’ora d’aria nel cortile le prigioniere venivano torturate, picchiate con un bastone sulle schiene nude e costrette a camminare attraverso una fossa settica contenente escrementi, lamette da barba e prodotti chimici. Con questi metodi, ogni volta, sempre più prigioniere dicevano di essere turche e si attenevano alle regole militari. Persino le compagne di prigionia dicevano che la resistenza di Heval Sara...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Credits
  3. Indice
  4. Nota delle traduttrici
  5. Nota del comitato italiano di Jineolojî
  6. Introduzione
  7. Prologo
  8. Le compagne intervistate
  9. Glossario
  10. Illuminando la vita attraverso la storia
  11. La società naturale
  12. Condizione e resistenza delle donne in Kurdistan fino al 1976
  13. L'importanza di Rêber Apo
  14. Resistenza in prigione e serhildan negli anni '90
  15. L'autodifesa e la teoria della rosa
  16. Yajk, teoria della separazione e xwebûn
  17. Ideologia della liberazione della donna
  18. Il partito delle donne
  19. Uccidere il maschio dominante
  20. Cambio di paradigma: il confederalismo democratico
  21. Vita Libera Insieme
  22. Jineolojî
  23. La rivoluzione delle donne
  24. Biografie delle martiri per la libertà
  25. Bibliografia