Il grande romanzo americano
eBook - ePub

Il grande romanzo americano

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il grande romanzo americano

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Se Cesare Pavese ed Elio Vittorini hanno contribuito a far conoscere la letteratura americana attraverso un'intensa attività editoriale e di traduzione, va ascritto ad Agostino Lombardo il merito di aver tenuto a battesimo gli Studi americani come disciplina accademica, e di aver analizzato le origini, l'evoluzione, le forme di una letteratura tanto giovane quanto decisiva nella definizione dell'immaginario contemporaneo. Dalla triade Poe - Hawthorne - Melville ai maestri del modernismo Hemingway, Faulkner e Steinbeck, passando per Mark Twain e Henry James, per approdare infine alle grandi voci del secondo dopoguerra, Salinger e Bellow, questo libro traccia un percorso di lettura prezioso e ricco di spunti critici. Un'occasione irripetibile per imparare a conoscere la letteratura degli Stati Uniti e riscoprire uno dei più grandi intellettuali e prosatori del nostro Novecento.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il grande romanzo americano di Agostino Lombardo, Luca Briasco,Sara Antonelli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Critica letteraria nordamericana. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788833893808

/
Ritratto di Nathaniel Hawthorne

L’uomo e l’artista

Molti critici si sono occupati, e spesso con molta acutezza, di Nathaniel Hawthorne e della sua arte, ma le parole più illuminanti, forse, restano ancor oggi quelle che un altro «classico» americano, Herman Melville, scriveva – prima di conoscere Hawthorne e di stabilire con lui un saldo rapporto di amicizia – recensendo un volume di racconti (Mosses from an Old Manse) pubblicato nel 1846: «L’ammirazione umana è solitamente attratta dalle parti minori del genio. Così Hawthorne è giudicato scrittore piacevole, con un piacevole stile – un uomo solitario, innocuo, da cui sarebbe difficile aspettarsi cose profonde e importanti [...] Ma non c’è genio che non debba possedere, per esser tale, un grande, profondo intelletto, che penetri nell’universo come una sonda [...]». E più avanti: «In verità, malgrado la luce da Estate di San Martino che avvolge un lato dell’anima hawthorniana, l’altro lato – come la metà oscura della sfera fisica – è avvolto in un sudario di nerezza, di una nerezza assoluta [...] Hawthorne è incommensurabilmente più profondo della sonda del semplice critico». Gli stessi concetti possiamo trovarli nelle eloquenti, appassionate lettere che il grande autore di Moby Dick (dedicato appunto a Hawthorne) gli scrisse dopo che si furono conosciuti e frequentati, e per esempio in una che si riferisce al romanzo La casa dei sette abbaini (The House of the Seven Gables), del 1851: «Questo libro è come una bella, antica stanza, arredata abbondantemente eppur giudiziosamente proprio con l’arredamento più indicato per essa. Ci sono ricchi arazzi, dove sono intessute scene di tragedia. Ci sono antiche porcellane [...] lunghi e indolenti sofà [...] c’è un odore di vino vecchio nella dispensa [...] E infine, in un angolo, c’è un libretto nero, con le borchie d’oro e i caratteri neri, intitolato Hawthorne: Un Problema».
E veramente non si potrebbe avere guida migliore di queste parole per accostarsi a Hawthorne. Melville assume talvolta, verso il nostro scrittore, un atteggiamento venato di una sorta di misticismo, sì che non esita a paragonarlo a Shakespeare, o ad abbandonarsi ad affermazioni non poco sorprendenti, come quella contenuta in un’altra lettera: «Credo che lascerò il mondo con maggior soddisfazione per aver conosciuto voi. Conoscere voi mi persuade più della Bibbia della nostra immortalità». Ma, mentre è giusto osservare che l’entusiasmo di Melville, qui, nasce dal senso di «infinita fraternità di sentimento» verso l’amico che, dopo averne probabilmente influenzato la concezione, ha saputo comprendere Moby Dick, va anche detto che il suo giudizio critico è sicuro ed esatto, e che la sua visione dell’arte hawthorniana aderisce pienamente al carattere di essa, alle sue migliori qualità.
È raro, infatti, trovare un’arte che si presenti, nella maggior parte dei casi, con aria più «innocua», più «piacevole». Il lettore può, a un primo sguardo, persino chiedersi che cosa mai potesse attirare Melville in questo scrittore che sembra molto più vicino al gradevole ma limitato Washington Irving che all’impetuoso, esuberante, tragico cantore della Balena Bianca. Si pensi all’inizio di Moby Dick:
Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la melanconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’avvedo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che m’accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro; e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.
Ed ecco ora la prima frase del romanzo già ricordato, La casa dei sette abbaini:
In una delle nostre città della Nuova Inghilterra, a metà d’una strada secondaria, sorge una logora casa di legno con sette abbaini dalle rime aguzze che guardano diversi punti della bussola, e un fascio di grossi comignoli al centro. La strada è via Pyncheon; la casa è la vecchia Casa Pyncheon; e un olmo d’ampia circonferenza che vegeta davanti alla soglia, è familiare a ogni figlio della città col nome d’Olmo dei Pyncheon. Nelle mie visite occasionali al luogo suddetto, tralascio raramente d’imboccare via Pyncheon, al fine di passar sotto l’ombra di queste due antichità; il grande olmo e l’edificio provato dalle intemperie.
Tra i due narratori non c’è, si direbbe, alcun punto in comune. Il linguaggio di Melville riflette immediatamente la sensibilità d’uno scrittore dal quale possiamo aspettarci di tutto, che può sbagliare ma che in ogni caso sbaglierà per eccesso; d’uno scrittore, comunque, che ci porterà lontano, fuori delle convenzioni, verso orizzonti forse illimitati. E questo certo non lo diremmo, di Hawthorne; ciò che quella frase lascia presagire è un tranquillo, tradizionale, convenzionale racconto; un esempio, in fondo, di prosa borghese, vittoriana; d’un tale scrittore diremmo che non potrà sbagliare ma anche che non ci porterà lontano, non ci farà piombare, come Melville, in quegli abissi nei quali sempre ci getta, in ultima analisi, la grande poesia.
Di fatto, anche la vicenda biografica di Hawthorne è del tutto priva di quegli avvenimenti eccezionali o comunque inconsueti che caratterizzano almeno la prima parte della vita di Melville e quella di tanti scrittori americani, configurandosi, all’esterno, con linee che più borghesi, tranquille e fin monotone non potrebbero essere. Nato a Salem, nel Massachusetts, il 4 luglio 1804, lo vediamo trascorrere una fanciullezza serena, malgrado la precoce morte del padre, e un’adolescenza in cui la vita all’aria aperta e la irregolarità degli studi non gli impediscono di fare quelle letture che saranno fondamentali nella sua formazione di scrittore (e dovremo ricordare almeno John Bunyan, il grande puritano autore del seicentesco Pilgrim’s Progress, e Spenser, e Shakespeare). Così scrive egli stesso in un profilo della propria formazione: «Una peculiarità della mia fanciullezza fu la deplorevole avversione alla scuola; e incoraggiando la Provvidenza questa mia ripugnanza innata, non la frequentai neppure la metà del tempo che ci passano gli altri ragazzi [...] Quando avevo otto o nove anni, mia madre coi suoi tre figlioli si trasferì in una casa presso la riva del lago Sebago nel Maine [...] e laggiù mi inselvatichii completamente [...] pescando da mane a sera o cacciando gli uccelli con lo schioppo; ma anche leggendo parecchio nelle giornate di pioggia, soprattutto Shakespeare e il Pilgrim’s Progress, e ogni altro libro di poesia o di facile narrativa che mi capitasse tra le mani». Eccettuato il piacere della lettura, e questo primo, se ancor vago, riconoscimento dei propri «classici», la vocazione letteraria di Hawthorne non si manifesta, per altri segni.
Egli comincia, sì, intorno ai quindici anni, a scrivere qualche verso e qualche saggio in prosa ma si tratta, sostanzialmente, delle effusioni tipiche d’un qualsiasi giovane non illetterato. Del resto, una lettera scritta alla madre poco prima di entrare nel college e in cui accenna per la prima volta alla possibilità di dedicarsi all’arte, indica chiaramente come il giovane si muova ancora su un terreno velleitario: «Non ho ancora deciso quale sarà il mio mestiere [...] Che ne direste se diventassi uno scrittore e m’affidassi alla penna pel mio sostentamento? A me sembra che la mia scrittura illeggibile sia proprio tipica d’un letterato. Come sareste orgogliosa di veder le mie opere lodate dai critici e dichiarate pari ai più superbi prodotti degli scribacchini figli di John Bull. Ma gli scrittori son sempre dei poveri diavoli, e dunque Satana se li abbia in gloria. Non mostrate questa lettera». L’idea è dunque ancora embrionale; a farla maturare giovano i quattro anni, dal 1821 al 1825, che Hawthorne trascorre al Bowdoin College di Brunswick, nel Maine, alla fine dei quali le vaghissime aspirazioni espresse nella lettera citata si fanno più concrete (anche grazie all’incoraggiamento di amici come il futuro poeta Longfellow e Horatio Bridge, e ai primi tentativi di narrazione, tra cui il romanzo Fanshawe, pubblicato nel 1828). Scrive lo stesso Hawthorne: «[...] nel 1825, in luogo di prepararmi senza indugio per una professione, mi soffermai a riflettere su quale fosse il genere d’esistenza più adatto al mio temperamento. Mia madre era tornata a Salem e aveva preso dimora stabile nella casa del suo defunto padre, una vecchia costruzione alta, brutta, di color bigio (oggi vi risiede una mezza dozzina di famiglie irlandesi) in cui ebbi una stanza. E un anno dopo l’altro seguitai a riflettere sulla mia carriera, e il tempo e il destino stabilirono che diventassi lo scrittore che sono». Di questa stanza così fortemente legata al suo apprendistato – la «orrenda stanza» in cui «fu conquistata la fama», come la definisce nel Diario – lo scrittore parla a lungo in una famosa lettera a Sophia Peabody: «Ecco qui tuo marito seduto nella vecchia stanza ben nota, dove soleva sedere negli anni lontani, prima che la sua anima avesse conosciuto la tua. Qui scrissi molti racconti; molti che furono ridotti in cenere; molti che senza dubbio meritavano la stessa sorte. Questa stanza si può dire a ragione ch’è infestata dai fantasmi; ivi infatti m’apparvero migliaia e migliaia di visioni; e poche di esse son diventate visibili al mondo. Se mai avrò un biografo, egli dovrebbe fare gran caso di questa stanza, perché tanta parte della mia gioventù solitaria vi fu sprecata, e qui si formarono la mia mente e il mio carattere; e qui fui contento e fiducioso, e qui fui scoraggiato; e qui rimasi per lungo, lungo tempo, aspettando pazientemente che il mondo mi conoscesse, e talvolta chiedendomi perché non mi conoscesse di già, o se un giorno mi avrebbe conosciuto, almeno prima ch’io fossi nella tomba. E talvolta (allora non avevo una moglie che mi scaldasse il cuore) mi pareva d’esser già nella tomba, con appena quel po’ di vita sufficiente a farmi sentire freddo e intirizzito». Se c’è, in queste parole, una certa tendenza alla drammatizzazione di sé, la descrizione è sostanzialmente esatta, e rende conto benissimo delle conseguenze che gli «anni solitari» avranno sulla psicologia e sulla stessa tematica dello scrittore.
Dopo il 1837, anno in cui comparvero i Racconti narrati due volte (Twice-Told Tales), e dopo l’incontro con Sophia, Hawthorne esce da quello che in un altro luogo chiama il suo «nido di gufo» e stabilisce un più stretto e assiduo «rapporto col mondo», ma la sua vita esterna continuerà a esser povera di tratti rilevanti e tinte accese. Il matrimonio con Sophia, la nascita dei figli Una, Julian, Rose, l’impiego alle dogane di Boston e di Salem, il soggiorno a Concord e a Lenox e la frequentazione dei maggiori letterati del tempo, da Emerson a Thoreau a Melville; ecco i salienti della biografia hawthorniana nel periodo in cui comparvero le sue opere maggiori, e cioè i racconti di Muschi da un vecchio presbiterio (Mosses from an Old Manse, 1846) e La figura di neve e altri racconti narrati due volte (The Snow-Figure and Other Twice-Told Tales, 1852) e i romanzi: La lettera scarlatta (The Scarlet Letter, 1850), La casa dei sette abbaini, 1851, Il romanzo di Valgioiosa (The Blithedale Romance, 1852). Né gli anni successivi, legati a un soggiorno in Europa dal 1854 al 1859, prima come console americano a Liverpool poi come turista in Francia e in Italia, si distinguono per altre caratteristiche che non sian quelle dell’esperienza interiore – e ne fa fede il romanzo che quell’esperienza compendia, Il fauno di marmo (The Marble Faun, 1859), come anche il Diario, dove i luoghi più interessanti son quelli in cui protagonisti non sono i «fatti» ma i pensieri, le riflessioni, le intuizioni che nascono nella mente dello scrittore e le vere «avventure» riferite sono quelle appunto interiori, dalla scoperta del valore psicologico della confessione («Che istituzione! L’uomo ne ha tanto bisogno, che sembra che Dio stesso debba averla ordinata [...] Il rapporto tra il confessore e il suo penitente potrebbe, e dovrebbe, essere un rapporto di grande tenerezza e bellezza; e più osservo la chiesa cattolica più mi stupisco della perfezione con cui risponde alle esigenze dell’umana debolezza») alla scoperta delle arti figurative (ecco l’incontro con la Beatrice Cenci attribuita a Guido Reni: «È il quadro più triste che sia mai stato dipinto, o concepito; negli occhi c’è immensa profondità, e dolore; e ne abbiamo il senso per una sorta di intuizione. È un dolore che l’allontana dalla sfera umana; e tuttavia essa appare così pura che ci sembra che sia soltanto questo dolore, col suo peso e la sua oscurità, a tenerla sulla terra e a metterla alla nostra portata. Beatrice è come un angelo caduto, caduto senza peccato»).
Soltanto gli ultimi anni dello scrittore – che morì improvvisamente nel 1864, durante un viaggio – si colorano d’una sfumatura drammatica e certo la guerra civile non manca di trovare in Hawthorne un testimone attento e partecipe; è significativo, però, che la drammaticità di questa sua estrema stagione umana pertenga più alla sfera dell’arte che a quella della vita, e cioè nasca dalla sua incapacità a portare a termine le quattro diverse opere in cui era impegnato; Il romanzo dei Dolliver (The Dolliver Romance), L’orma ancestrale (The Ancestral Footstep), Septimius Felton, Il segreto del dottor Grimshawe (Dr. Grimshawe’s Secret) – opere tutte che ci sono pervenute in stato frammentario.
Una vita insomma che ha le stesse caratteristiche esterne dell’arte hawthorniana, e alla quale si sarebbe tentati di applicare le parole con cui, nella prefazione all’edizione del 1851 dei Racconti narrati due volte, lo scrittore definisce quei prodotti della sua fantasia: «Essi hanno la pallida tinta di fiori fioriti in un’ombra troppo ritirata – la freddezza di una tendenza meditativa che si insinua tra i sentimenti e le osservazioni di ogni brano [...] Sia per mancanza di forza, o per un’invincibile ritrosia, i tocchi dell’autore hanno spesso un effetto di timidezza [...] Il libro, se vi si vuol trovare qualcosa, vuole essere letto nella chiara atmosfera di crepuscolo in cui fu scritto; se viene aperto alla luce del sole, può darsi che finisca con l’apparire come un volume di pagine bianche [...]». Ma la verità è che un giudizio siffatto tocca solo la superficie sia dell’arte sia della biografia di Hawthorne. Se andiamo più a fondo, se veramente ci addentriamo tra le frasi squisite della sua prosa, come tra le linee ordinate della sua vita, ci accorgiamo che sotto quella superficie elegante e quasi immobile si cela un mondo dei più agitati, dei più tormentati e problematici che sia dato di incontrare. La vera luce di Hawthorne non è quella del crepuscolo ma, piuttosto, quella cupa e tragica della notte. Così, questo aristocratico narratore, quest’uomo tranquillo e riservato è persino ossessionato dal problema del male, del peccato, della morte. Il suo occhio non può posarsi su un aspetto della realtà, umana e naturale, senza che scavi sotto di essa e non trovi, alla fine, il germe che corrompe e che distrugge. Sommamente indicativi sono, a tal riguardo, molti passi del Diario, specie quelli cui lo scrittore affida le idee da elaborare narrativamente. Eccone alcuni tra i primissimi:
Il mondo è così triste e solenne, che anche le cose intese per scherzo possono, per un invincibile influsso, diventare estremamente serie – fantasie gaiamente vestite che si trasformano in spettrali e funebri immagini di se medesime.
In ogni cuore umano c’è del male che può rimanere latente, forse, per tutta la vita; ma le circostanze possono suscitarne l’attività.
Rappresentare il processo con cui la sobria verità spoglia gradualmente un oggetto amato di tutti i bei drappeggi dei quali lo ha avvolto la fantasia, finché l’angelo non si trasforma in una donna ordinaria.
Un bozzetto che illustri le imperfette compensazioni con cui il tempo ripaga le devastazioni che produce nella persona – dando una corona d’alloro mentre causa la calvizie, onori in cambio di infermità, ricchezza in cambio d’una costituzione debole – e alla fine, quando l’uomo ha tutto ciò che sembra desiderabile, lo prende la morte. Porre a contrasto l’uomo che ha in tal modo raggiunto il culmine dell’ambizione, e il giovane ambizioso.
Due amanti progettano la costruzione di una casa su un certo pezzo di terreno, ma vari incidenti ne impediscono la realizzazione. Una volta trovano sul posto un gruppo di bambini poveri; un’altra esso è la scena in cui si trama un delitto; alla fine vi si trova il cadavere di uno degli amanti o di un caro amico; e invece di una casa costruiscono una tomba di marmo. La morale: che in terra non c’è luogo adatto a una casa felice, perché non c’è luogo che non sia stato rattristato dal dolore umano, macchiato dal delitto e consacrato dalla morte...
E numerosi altri esempi si potrebbero addurre, tratti dal Diario come anche dagli stessi racconti e romanzi. Ma sarà già chiaro che il mondo, per Hawthorne, non è un immobile, sereno paesaggio da contemplare e raffigurare con le parole più eleganti, ma è un baratro in cui perennemente scrutare e indagare e che rimanda, agli occhi sgomenti dell’artista, immagini di peccato e di mistero.

Hawthorne e il puritanesimo

Pur avendo a lungo frequentato Ralph Waldo Emerson e il gruppo trascendentalista sorto intorno a lui, e pur avendo addirittura partecipato a una delle intraprese utopistiche del movimento, ben poco Hawthorne condivide dell’ottimismo emersoniano, della appassionata certezza nei destini umani e americani che Emerson esalta nei Saggi e che Walt Whitman canta con l’eloquenza delle Foglie d’erba. A un Emerson il quale può scrivere, nel saggio Self-Reliance (Fiducia in se stessi):
Confida in te stesso: ogni cuore vibra a questa salda corda. Accetta il posto che la Divina Provvidenza ti ha assegnato, la società dei tuoi contemporanei, la causalità degli eventi. Tutti i grandi uomini hanno fatto sempre così, confidarono in sé, docili allo spirito del proprio tempo, mostrando così la loro convinzione che ciò che più meritava fiducia si trovava nel loro cuore, operava attraverso le loro mani, dominava tutto il loro essere. Siamo uomini dunque, e dobbiamo accettare fin nel più profondo dei nostri pensieri lo stesso destino trascendente; e non come minorati o invalidi in un angolo ben difeso, non come codardi che fuggono prima di una rivoluzione, ma come guide, redentori e benefattori, obbedendo agli sforzi dell’Onnipotente, avanzando oltre il Caos e l’Oscurità [...]
Hawthorne risponde con Il romanzo di Valgioiosa, l’ironica opera del 1852 ispirata proprio dal soggiorno a Brook Farm, la comunità utopistica fondata dai trascendentalisti, o con certe osservazioni del Diario: «Mr. Emerson – il mistico, che tende la mano dal paese delle nuvole, in cerca di qualcosa di reale [...] è un grande ricercatore di fatti; ma nelle sue mani essi paiono dissolversi e diventar privi di sostanza». Il male, il peccato, non toccano l’umanità emersoniana; nulla spezza o anche minaccia l’armonia, e la comunione, e l’amorosa fratellanza che regolano la vita del cosmo. Per Hawthorne, invece, questa armonia, se pure è possibile, è ben più ardua a conseguirsi; ed è anzi continuamente avversata, deformata, minacciata dal male che si annida nel cuore del mondo come il serpente d’un suo racconto nel corpo di un uomo. Anche per Hawthorne, come per Emerson, la realtà esterna, la natura, le cose, le forme tang...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Indice
  3. Prefazione. Il critico imperfetto di Sara Antonelli e Luca Briasco
  4. Il grande romanzo americano
  5. / La narrativa di Edgar Allan Poe
  6. / Ritratto di Nathaniel Hawthorne
  7. / La ricerca di Melville
  8. / L’Autobiografia di Mark Twain
  9. / L’umorismo tragico di Ambrose Bierce
  10. / L’arte di Stephen Crane
  11. / Introduzione a Henry James
  12. / Un romanzo di Edith Wharton
  13. / Ernest Hemingway
  14. / La ricerca di Faulkner
  15. / John Steinbeck
  16. / J.D. Salinger: Il giovane Holden
  17. / La narrativa di Saul Bellow
  18. Nota bibliografica
  19. Nota dei curatori