Il Male in medicina
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Scienza, nazismo, eugenetica

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Il Male in medicina

Scienza, nazismo, eugenetica

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L'Eugenetica non fu un'invenzione della Germania nazista, anche se fu proprio in tale contesto storico, geografico e culturale che una tale visione del mondo e la sopraffazione dei più deboli e indifesi maturarono. Hitler e i suoi non inventarono nulla di nuovo, ma spinsero alle estreme conseguenze una visione pseudoscientifica del mondo che veniva da lontano. I medici di Auschwitz-Birkenau e di molti altri luoghi dell'orrore erano convinti di dover compiere un lavoro "di pulizia e igiene", eliminando la parte dell'umanità di "rango inferiore" e per attuare questo abominio non ricorsero solo a giustificazioni di tipo ideologico, ma invocarono il ruolo di garante dello Stato tedesco e gli ordini da quest'ultimo ricevuti. La scienza moderna appare esposta come nel passato alla tentazione di utilizzare scorciatoie etiche per raggiungere obiettivi di tipo utilitaristico. Il poter disporre di strumenti di enorme potenza di calcolo, di una grande rapidità di spostamento da un luogo a un altro del pianeta e allo stesso tempo di una maggiore velocità di accesso a una mole sterminata di informazioni, ha reso il ricercatore moderno facile preda di un senso di onnipotenza che potrebbe provocare di nuovo danni incalcolabili.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788892231986

1

EVIDENZA E COMPASSIONE

Non si conosce il vero, se non si conosce la causa
(Aristotele di Stagira, Metafisica, II)

a. La scienza insegue l’evidenza delle prove

Il tempo dell’uomo è colmo di vittime dell’evidenza. Non si contano i precursori, gli ammaliati dalle loro intuizioni, più o meno geniali, le vittime delle immagini proiettate dalle loro idee. Come in un film di cui si conosca perfettamente la fine, mentre a quasi tutto il resto del mondo non importa granché di questi dettagli, chi possieda un frammento della verità di una scoperta scientifica può rimanere testimone di conoscenze troppo grandi per essere nella disponibilità di una sola anima.
Il fisico e matematico Ludwig Boltzmann si suicidò il 5 settembre del 1906. L’Impero Austro-Ungarico sembrava allora perfettamente vitale e idoneo a presidiare buona parte dell’Europa. I suoi popoli, come era solito chiamarli il vecchio imperatore Franz Josef, parevano convivere pacificamente sotto l’insegna dell’Aquila bicipite, che sorvegliava con fermezza la propria frontiera con un altro residuo del passato che stendeva ancora una forte influenza sui Balcani, il logoro Impero Ottomano.
Boltzmann insegnava fisica teorica a Vienna, dopo una vita di successi accademici e di intuizioni scientifiche importanti che avevano generato contro di lui una schiera di nemici. Come spesso avviene, a un uomo viene perdonato tutto meno che l’intelligenza. Le teorie fisico-matematiche di Boltzmann avevano fatto luce intorno al Secondo Principio della Termodinamica, di cui aveva dato un’interpretazione probabilistica destinata a non essere popolare nella Germania del Kaiser Guglielmo II, che aspirava a ben altre sicurezze, ad affermazioni legate a un potere incontrastato in molteplici campi dell’attività umana. Boltzmann era il più geniale fisico della sua epoca, ma era un uomo fragile e affetto da un disturbo di personalità di tipo bipolare, che oggi conosciamo meglio nella sua complessità biochimica e clinica. La morte precoce del figlio maggiore non aveva migliorato la situazione esistenziale di un genio che si trovava a proprio agio nell’armonia della matematica e meno nei rapporti con gli altri uomini. Boltzmann aveva intuito come la materia, in determinate condizioni di stato e di temperatura, se ne infischiasse di comportarsi come avevano predetto dovesse fare Newton e prima di lui Galileo e Francesco Bacone e come continuavano a sostenere i più autorevoli fisici e accademici del tempo. Non sempre il principio di analogia pareva funzionare e in certi casi le molecole di un gas, sottoposte a riscaldamento, andavano incontro a un tipo di moto che non era possibile prevedere secondo una sequenza di tipo fisico-matematico. Si disponevano irregolarmente, queste molecole, in una modalità descrivibile tenendo conto di traiettorie casuali, di percorsi che solo attraverso calcoli basati sulla fedeltà a quest’ipotesi di casualità era possibile rappresentare.
La Seconda Legge della Termodinamica, come era stata descritta e approfondita dal fisico austriaco, minava alla base la natura rassicurante dell’Universo Newtoniano. Introduceva infatti un concetto pericoloso, vale a dire che la materia potesse essere provvista di una propria capacità irregolare di disporsi e di strutturarsi e poi fosse in grado di annullare di colpo la sua morfologia e i propri fini per continuare imperterrita verso uno stato di massimo disordine6.
La conseguenza di questa valutazione era inquietante. Se esistevano dei piani divini dietro il mondo sensibile quale gli scienziati lo avevano da sempre indagato, questi progetti andavano cercati con altri strumenti e – comportamento questo più difficile a praticarsi – altri occhi. Nella sua visione puramente teorica, ma universale, il fisico austriaco arrivò a costruire una cosmogonia alternativa agli altri modelli fino allora immaginati. L’Universo non era altro che un’oasi di entropia relativa, una zona a basso disordine atomico e molecolare in un’immensità convulsa legata a un insieme primordiale e barbarico caratterizzato da un altissimo stato di disordine entropico. Per motivi puramente casuali e inspiegabili, si era formata una zona di relativa stabilità nella disposizione della materia e da questa situazione contingente era nato l’Universo percepibile dall’uomo, controllato da alcune leggi fisiche e chimiche relativamente costanti. Ne era derivata un’ipotesi legata a una fluttuazione continua del Cosmo, in cui quest’ultimo non si presentava come omogeneo. Gli umani, insomma, vivevano, per motivi imperscrutabili, in una regione particolare: un contesto isolato e relativamente stabile che era tuttavia lontano dall’equilibrio termodinamico, mentre altre e diverse regioni del Cosmo avrebbero potuto trovarsi in tale condizione oppure essersi costituite come delle entità ancora più in disordine7.
Per misurare questa caratteristica di instabilità del mondo fisico, Boltzmann ideò una formula matematica che dopo la morte dello scienziato venne scolpita sulla sua tomba in un cimitero di Vienna. La formula di Boltzmann era così descritta: S = k log W, dove S è l’entropia, W è la probabilità dello stato di dispersione molecolare e k una Costante, detta appunto di Boltzmann8.
L’evoluzione della termodinamica portò a una radicale differenziazione nel modo di intendere i fenomeni fisici. Alla fisica macroscopica osservabile direttamente si contrapponeva ora una fisica delle particelle e della realtà microscopica governata da connotazioni probabilistiche. Questa concezione della materia fu fortemente osteggiata da alcuni fisici europei di quel tempo, come Ernst Mach, che avevano una visione conoscitiva di tipo empiristico e basata sui fenomeni fisici che si potevano verificare. Il tempo e le successive scoperte della fisica moderna avrebbero reso giustizia al genio di Boltzmann, incompreso dai suoi contemporanei. Ci si era ancora una volta dimenticati di un’antica lezione formulata da Immanuel Kant un secolo prima e che sarà bene rileggere:
Non è una cosa strana […] dopo che una scienza abbia subito una lunga elaborazione, quando si pensa di essere giunti a chissà quali meravigliosi risultati, che venga uno e ponga la questione se e come tale scienza sia in genere possibile. Perché la ragione umana è così pronta nelle sue costruzioni che già più volte ha eretto l’edificio e poi ha dovuto di nuovo demolirlo per vedere come erano costruite le fondamenta. […]
Alcuni, nella superba coscienza del loro antico e perciò creduto legittimo possesso, con i loro compendi metafisici alla mano, guarderanno verso colui con disprezzo: altri, che non sono capaci di vedere se non ciò che è uguale a ciò che altre volte hanno veduto, non lo comprenderanno.
Immanuel Kant, Prolegomeni a ogni futura metafisica9
Ludwig Boltzmann si tolse la vita in un piccolo albergo di Duino, alla periferia di Trieste, dove si era recato con la moglie e la figlia per un periodo di vacanza. Si impiccò nella stanza dell’albergo con la corda della tapparella, mentre i suoi congiunti erano in spiaggia. Sarà stato forse per un momento di sconforto, un abisso di solitudine irragionevole da cui era stato difficile tirarsi fuori. Era un uomo fragile e dagli sbalzi di umore improvvisi. Le maggiori personalità della fisica a lui contemporanee gli erano ostili. Magari non si suicidò per difendere la propria idea di Entropia e di certo non era attrezzato a sostenere l’isolamento ideologico, oltre che umano, in cui era stato relegato da buona parte dei suoi colleghi. Come avrebbe potuto scrivere qualche decennio più tardi il filosofo della scienza americano Thomas Khün, il Paradigma scientifico del tempo di Boltzmann era troppo solido e protetto dal pregiudizio per essere infranto. Tuttavia Boltzmann, nel criticarlo, si era accorto come pochi altri che quello che veniva descritto dalle condizioni sperimentali poteva mostrare delle crepe che rendevano insoddisfacente la costruzione di un insieme teorico basato su alcuni fondamenti non sempre certi, arrivando a scrivere:
Nessuna equazione può tradurre esattamente un evento, quale esso sia. Essa idealizza necessariamente e va al di là dell’esperienza. Il fatto che ciò sia inevitabile deriva dal processo stesso del nostro pensiero, che consiste nell’aggiungere qualcosa all’esperienza e nel formulare un’immagine mentale. Lo studio dei fenomeni naturali non dovrebbe dunque vantarsi di non superare l’esperienza, ma al contrario incitarci a farlo quanto più possibile10.
Cosa voleva dire il fisico con queste parole che potrebbero sembrare la pietra tombale di ogni scienza sperimentale? Ritengo volesse metterci in guardia dal pericolo di interpretare arbitrariamente il mondo fisico che ci circonda, facendoci condurre per mano da alcune categorie del pensiero che sono proprie agli esseri umani consapevoli della realtà come essi la prefigurano, come la possono interpretare, non come essa è in quanto essenza di sé.
Questa visione precorritrice di domande che superavano il contesto della fisica sperimentale non poteva essere accettata senza contestazioni da parte dei contemporanei. L’ideologia della fine del XIX secolo contemplava una costruzione del percorso di conoscenza e di progresso di tipo lineare, legato a mete certe da raggiungere. Un progettare e un fare dello scienziato che consisteva nel frammentare ogni problema in tanti quesiti più semplici, i quali dovevano essere a loro volta risolvibili. Il postulato di partenza affermava che l’accrescersi della conoscenza su di un determinato fenomeno avrebbe portato inevitabilmente alla comprensione dello stesso. Era come se lo studioso della natura si fosse trovato di fronte a un libro fatto da pagine che recavano un unico quesito cui rispondere. Soltanto l’ottenere la risposta sottesa a una di quelle pagine avrebbe consegnato il lasciapassare per potere leggere la successiva. Dall’alto della Tour Eiffel, in quell’anno 1889 che vide l’Esposizione Universale di Parigi segnare un trionfo apparente dell’uomo sulla Natura, lo sguardo poteva immaginare che non ci sarebbero state difficoltà insormontabili da superare. Il fascio di luce proiettato dall’alto della Torre, la costruzione più alta che la mano dell’uomo avesse mai eretto, respingeva le tenebre dell’ignoranza e consacrava la verità ottenuta dalla fede nella Scienza come la più semplice e legittima delle eredità da raccogliere. Eppure, all’ombra di quel grande manufatto e in quegli stessi anni, il fisico Pierre Duhem e il matematico Henri Poincaré sostenevano come non si dovesse confidare troppo nella precisione e nell’affidabilità delle teorie scientifiche11.
Le teorie erano costruite, oltre che su alcuni fatti sperimentali, anche su diverse formule e alcune necessarie generalizzazioni matematiche. Appoggiandosi le une alle altre, queste costruzioni astratte della mente dell’uomo avrebbero finito per l’influenzarsi a vicenda e per alterare la rappresentazione della realtà. Nel XX secolo ormai inoltrato, il logico e filosofo statunitense Willard Van Orman Quine arrivò in una lucida posizione di sintesi alle stesse conclusioni, affermando:
Le nostre proposizioni sul mondo esterno si sottopongono al tribunale dell’esperienza sensibile non individualmente, ma solo come un insieme solidale12.
In questo modo veniva ribadita l’ipotesi di partenza di Pierre Duhem, che aveva visto la costruzione di una teoria scientifica come un insieme basato su diverse valutazioni di più ricercatori, incapaci di reggersi da sole e allo stesso tempo fuorvianti nel loro esito finale, che avrebbe comportato per questo motivo una distorsione dell’equilibrio conoscitivo.

b. La medicina sceglie una strada obbligata

La medicina del tempo non fu sfiorata da questi dubbi epistemologici. Scelse di seguire un percorso di accumulazione progressiva delle conoscenze e delle nozioni di tipo induttivo, senza fermarsi a riflettere su dove questa strada l’avrebbe condotta, a quali sviluppi la mancanza di un senso critico nei confronti del metodo scelto l’avrebbe indirizzata. Dal momento che forma e metodo sono sostanza di ciò che rappresentano, i risultati ottenuti dall’adesione incondizionata all’indagine sperimentale e alla statistica sembrarono dare ragione a questa scelta pratica. Malattie che avevano flagellato per secoli l’umanità, come la sifilide, la tubercolosi, la peste e il colera potevano essere, se non eliminate, almeno circoscritte.
All’inizio del secolo XX, i Neo-Positivisti del Circolo di Vienna richiamarono l’attenzione sul fatto che ogni conoscenza scientifica dovesse sempre derivare dall’esperienza. Sostenevano questa certezza con convinzione, per non scivolare sulla buccia di banana di ciò che non fosse verificabile e in primo luogo per sottrarsi alla temuta e tanto disprezzata Metafisica. Il contatto con la realtà, la corrispondenza con questa, come la definì uno dei fondatori del Circolo, divenne l’unico criterio accettato di conoscenza, orientando le molteplici ricerche scientifiche che venivano condotte nelle varie discipline alla coerenza nella modalità di investigazione e non al significato più profondo della ricerca stessa che un tempo era consistito nel cercare di apprendere una parte di una verità più ampia, una sicura Episteme legata a un’interpretazione complessa del mondo. Questa valutazione partiva dal presupposto che l’esperienza scientifica fosse un tipo di conoscenza certa e indubitabile, un modo di conoscere la natura basato sull’intervento sperimentale, che si esprimeva e comunicava i propri risultati attraverso la statistica e si autoalimentava con il crescere dei dati legati a un’ipotesi di partenza da verificare. Si trattava di una modalità d’investigazione che non si poneva domande di tipo logico-formale e non si sottoponeva agli strumenti di verifica seguendo la lezione dei grandi logici vissuti tra il XIX e il XX secolo, come Gottlob Frege e Charles Sanders Peirce. Non teneva conto che occuparsi dell’oggetto di studio più complesso presente su questo pianeta, l’uomo, avrebbe comportato il dovere fare i conti con fenomeni che non si potevano sempre accettare, come i concetti di probabilità, unicità e irripetibilità, quell’insieme di variabili che Boltzmann aveva previsto per i fenomeni atomici e molecolari e che la Fisica Quantistica e la Teoria della Relatività cominciavano allora a svelare13.
In questo contesto, la costruzione della conoscenza medica avveniva attraverso uno strumentario di tipo induttivo che non ammetteva repliche o libere interpretazioni. Il punto cruciale nello stabilirsi di questo processo, avvenuto tra il 1870 e il 1924, andrebbe ricercato nella poca chiarezza che veniva fatta in ambito medico sulla differenza tra i termini di induzione, deduzione e abduzione, che sono alla base della formazione della conoscenza.
Il procedimento scientifico della seconda metà del XIX secolo, dopo le esperienze di grandi figure come Louis Pasteur e Rudolf Virchow, e prima ancora quello elaborato da Francesco Bacone, Galileo e Newton, era di tipo induttivo, vale a dire che in seguito alle osservazioni effettuate si poteva ricavare una verità dei fatti. Nel procedimento deduttivo, invece, gli indizi accumulati in modo induttivo permettevano di formulare una teoria di carattere generale. Queste due modalità logiche, l’induzione e la deduzione, non erano sufficienti nella pratica medica e nel contatto diretto con l’ammalato, in cui era necessario applicare anche una valutazione di tipo abduttivo. Quest’ultima portava a formulare un’ipotesi diagnostica legata all’osservazione dei sintomi e dei segni presentati dal paziente senza avere una certezza assoluta a priori dei risultati attesi e della diagnosi. Su questa base si decidevano gli esami e le terapie. Una modalità di ragionamento che oggi viene a scontrarsi con le linee guida di tipo costrittivo, che sono in vigore e vengono rigidamente applicate: direttive basate sulla logica aristotelica binaria del bianco o nero e del tutto o nulla, sostenuta da una serie innumerevole di ricerche induttive. Un problema derivava dal fatto che in campo medico esisteva ed esiste un piano di lettura tecnico dei problemi, dove per tecnico s’intendeva la capacità di arrivare al risultato migliore per il paziente rispetto all’uso delle risorse disponibili, mentre occorreva tenere conto anche di un piano di lettura morale ed etico e non sempre questi due aspetti coincidevano.
Il ragionamento abduttivo enfatizzato dal filosofo statunitense Charles Sanders Peirce, che era alla base della decisione medica clinica, ne risultò pertanto impoverito, mentre tutto il sapere del medico venne irreggimentato secondo passaggi logici rigidamente induttivi. La Scienza come sapere di tipo autorevole dovette misurarsi con la tecnica, una possibilità quest’ultima di tipo concreto di operare determinate scelte per raggiungere alcuni risultati. La tecnica forniva esiti che non sempre rispondevano a criteri rivolti al perseguimento del maggior bene possibile per il numero più ampio di individui. Nella seconda metà del XIX secolo s’iniziò a pensare che tutta la medicina fosse legata a fattori di tipo mono-causale nella genesi delle diverse malattie. Il modello conoscitivo venne legato a questa visione epistemologica, improntata a un ottimismo esistenziale. Non esistendo una ricerca scientifica veramente indipendente dagli interessi economici, si affermò e si continuò a utilizzare un modello logico di tipo binario, sostanzialmente primitivo e anticiclico14. Esisteva la salute oppure la malattia, due parole che vennero ridotte al significato di veri e propri stereotipi. Il concetto ste...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Autore
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Indice
  7. Prologo
  8. 1. Evidenza e Compassione
  9. 2. La genesi dell’Orrore
  10. 3. La notte della medicina
  11. 4. I Processi ai Medici
  12. 5. Karl Jaspers: la colpa della Germania
  13. 6. Il Male in Medicina